Com’è andata la direzione nazionale del PD
È durata dieci ore, con molti e vari interventi di analisi della sconfitta e proposte per cambiare il partito
Oggi si è tenuta a Roma la direzione nazionale del Partito Democratico, uno degli organi più importanti del partito, composto da oltre 200 membri tra parlamentari ed esponenti locali, in un incontro atteso perché il primo dopo la sconfitta alle elezioni politiche del 25 settembre. L’assemblea è durata circa 10 ore, con decine di interventi: è stata aperta dal segretario Enrico Letta, che non è formalmente dimissionario ma ha confermato di voler convocare un congresso per scegliere il suo successore e rifondare il partito.
Alla fine una mozione sul suo discorso e sulle modalità di svolgimento del congresso è stata approvata da tutti i presenti alla direzione tranne un voto contrario e due astenuti.
Letta ha ampliato l’analisi della sconfitta che aveva fatto il giorno dopo le elezioni, dando la colpa sostanzialmente alla legge elettorale (promossa peraltro dal PD, nel 2017), alle divisioni fra i partiti che si sono opposti alla coalizione di destra, al troppo tempo passato dal PD all’interno di governi eterogenei, alla maggiore capacità della destra di sfruttare paure e timori per la guerra in Ucraina. Nel suo intervento si è parlato poco, però, di cosa fare concretamente del partito.
Dopo Letta si sono susseguiti gli interventi di parlamentari, dirigenti, funzionari e militanti. Praticamente tutti hanno concordato sul fatto che il partito non va sciolto, come per esempio aveva suggerito nei giorni scorsi una delle sue fondatrici, Rosy Bindi. Ci sono state poi diverse idee e proposte sia sulle modalità con cui fare il congresso sia sui principali temi politici che dovrà affrontare: su tutti, l’identità e la collocazione politica di un partito ancora molto diviso in fazioni (che nel PD si chiamano correnti) e che negli ultimi dieci anni ha governato quasi ininterrottamente con gran parte dei suoi avversari politici.
Letta ha iniziato il suo discorso con la proverbiale “analisi della sconfitta”, su cui ha cercato di fare autocritica per il modo in cui è stata condotta la campagna elettorale, ma per la quale come dicevamo ha anche incolpato fattori esterni come la legge elettorale e l’indisponibilità di altri (cioè il Movimento 5 Stelle e Azione di Carlo Calenda) a fare alleanze.
Poi ha parlato del ruolo che dovrà avere il PD durante la prossima legislatura, sottolineando più volte che dovrà essere di grande opposizione: «Quando questo governo cadrà, noi dovremo chiedere le elezioni anticipate. Non dovremo chiedere nessun altro governo di salvezza pubblica», ha detto. Letta ha anche confermato la sua indisponibilità a restare alla guida del PD e ha sottolineato l’importanza di «mettere in campo una classe dirigente più giovane». A questo proposito, Letta ha fatto notare che la vincitrice delle ultime elezioni, Giorgia Meloni, è stata apprezzata anche per il fatto di essere una donna giovane, e ha criticato l’incapacità del PD di rinnovarsi e di avere una maggiore presenza femminile (senza fare molta autocritica sulla composizione delle liste, che hanno generato pochissime donne elette nel PD).
Quello della bassa presenza di donne tra le persone elette in parlamento dal PD è stato uno dei temi ricorrenti di tutta la giornata di direzione: le donne elette dal partito sono state solo il 28,6% del totale. È un problema che arriva da lontano, e diverse esponenti lo hanno citato nei loro discorsi e ne hanno chiesto conto a Letta, pretendendo una gestione paritaria delle nomine future nelle istituzioni e nel partito.
Letta ha detto che il congresso non dovrà essere «un referendum su Conte e Calenda», riferendosi alle possibili alleanze di cui si discute per il PD, e che il partito dovrà ricostruirsi da solo, se non vuole andare verso il declino. Poi ha descritto le quattro fasi che porteranno da qui al congresso. Una prima sarà “di chiamata”, per invitare a partecipare chi non è ancora iscritto al PD e anche «i tanti che ci hanno lasciato in questi anni». Poi ce ne sarà una seconda in cui si discuterà dei «nodi politici», una terza in cui si voterà per i candidati e le candidate alla segreteria e una quarta in cui il campo sarà ristretto ai due candidati o candidate definitivi per le primarie.
Uno dei discorsi più apprezzati fra le decine fatte dai dirigenti che hanno parlato dopo Letta è stato quello di Monica Cirinnà, senatrice uscente e non rieletta.
Cirinnà ha parlato in modo molto accorato della necessità di svecchiare e rinnovare la classe dirigente del PD e quella di includere più donne, dopo anni in cui le decisioni importanti sono state prese sempre dagli stessi uomini del partito. Partendo dall’esperienza della sua campagna elettorale, Cirinnà ha detto di aver incontrato nei circoli del PD «una generosità direi eroica» da parte dei Giovani Democratici, cioè la sezione giovanile del partito, «ma rassegnata, senza sorriso, senza slancio». Poi ha aggiunto:
Non è colpa loro, è colpa nostra. È colpa nostra. In questi giorni ho seguito con attenzione il dibattito interno, e lo voglio dire con sincerità: tanti di noi, troppi di noi, non hanno più la credibilità per intestarsi un percorso di rinnovamento. Mi ci metto io per prima. Si tratta delle nostre responsabilità come classe dirigente: dobbiamo farcene carico e capire che adesso ci viene chiesto di fare un passo indietro.
Diversi altri interventi successivi avevano al loro interno elementi di autocritica, rivolti soprattutto alle decisioni politiche prese negli ultimi anni e all’eccessivo potere che la struttura interna garantisce ai capi delle correnti. Solo uno di questi capi, fra l’altro, ha fatto un intervento: Andrea Orlando, ministro del Lavoro uscente e leader della corrente più a sinistra. Orlando ha chiesto che nel prossimo congresso venga decisa una linea chiara sul collocamento del partito e su altre grandi questioni contemporanee, senza però fare alcuna autocritica sul sistema delle correnti.
Il PD è forse nel peggiore momento della sua storia: uscito diviso e senza entusiasmo dalle elezioni, tutti concordano sulla necessità di cambiare il partito per risollevarlo ma le idee su come farlo sono apparentemente poche. La discussione di oggi ha aperto di fatto il congresso, un percorso che ha moltissime tappe e che si concluderà soltanto nei primi mesi del 2023.
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Oggi quasi nessuno ha parlato di possibili candidati per sostituire Letta. Ha fatto eccezione l’ex ministra Paola De Micheli, che ha ribadito la sua candidatura annunciata qualche giorno fa. Nelle prime ore della direzione era presente anche il favorito per sostituire Letta, anche se non si è ancora candidato ufficialmente: il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, uno degli amministratori locali più apprezzati e noti del partito.
Più a sinistra, si è parlato molto della possibilità che si candidi la sua vice, Elly Schlein, 37enne con meno esperienza ma considerata potenzialmente più in grado di cambiare immagine e direzione al partito. Molti ritengono che Letta preferisca questa seconda ipotesi: lui stesso è sembrato confermarlo nel suo discorso di apertura dell’assemblea, quando ha invitato «quelli che ci hanno lasciato» a tornare nel PD (Schlein non rinnova la tessera da diversi anni) e nei vari riferimenti alla necessità di avere più giovani e più donne alla guida del partito.
C’è comunque da vedere cosa decideranno di fare e chi decideranno di sostenere i leader delle più influenti correnti del partito, tra cui Orlando ma anche altri due ministri uscenti come Dario Franceschini e Lorenzo Guerini.