Non ci sono più le utopie di una volta
L’evoluzione di un genere molto diffuso fino al XIX secolo riflette, secondo alcuni, una crescente incapacità letteraria e politica di immaginare mondi ideali
La parola «utopia» è utilizzata generalmente per definire qualsiasi condizione politica, sociale o di altro tipo che non trovi riscontro nella realtà e che, in una certa misura, appaia ideale o quantomeno desiderabile. Deriva dall’unione delle due parole greche οὐ «non» (oppure εὐ «bene», secondo altre interpretazioni) e τóπος «luogo»: è il nome dell’isola immaginaria in cui lo scrittore e umanista inglese Tommaso Moro ambientò nel 1516 Utopia, teorizzazione di una società ideale e pacifica fondata sulla tolleranza religiosa e sulla cultura.
Sebbene non esistesse ancora come parola, già prima del XVI secolo l’utopia era stata in un certo senso un tema ricorrente nella storia del pensiero occidentale, dalla Repubblica di Platone al paese della cuccagna immaginato dagli idealisti medievali. Ma fu la storia di Moro, considerata una prima forma di fantascienza moderna, a dare origine a un genere completamente nuovo di scrittura. Dopo un periodo di massima fioritura, proseguito fino alla seconda metà del XIX secolo, l’interesse letterario per l’utopia subì un progressivo declino che dura in parte ancora oggi e che, secondo alcuni pensatori, riflette una crescente avversione per tutto ciò che non sia realizzabile.
L’impressione condivisa all’interno di queste riflessioni è che a prevalere oggi nell’uso della parola «utopia» sia il suo valore peggiorativo e limitativo: l’utopia nel senso di modello astratto e irrealizzabile, quindi contrario alla razionalità e alla concretezza. Ma per almeno quattro secoli, da Moro in poi, alle utopie fu per lungo tempo attribuita la positiva capacità di stimolare approcci critici alle realtà esistenti, in particolare il capitalismo industriale, e spinte di rinnovamento sociale e politico. E avvenne tutto molto prima che l’attuale prospettiva distopica – la rappresentazione di future condizioni sociali, politiche e tecnologiche negative – diventasse prevalente nella letteratura rispetto a quella utopica.
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Al netto dei limiti riconducibili alle particolari percezioni diffuse all’epoca di Moro o alle sue opinioni, l’Utopia nasceva dalla seria ambizione «di creare una società giusta, di cui non beneficiassero soltanto i ricchi», scrisse nel 2016 il giornalista britannico Tom Hodgkinson in un articolo sul sito di BBC. E quell’ambizione generò tutta una successiva serie di tentativi letterari simili – tra cui La città del sole (1623) di Tommaso Campanella e La nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone – da parte di autori che, nell’immaginare società alternative, descrivevano allo stesso tempo un loro ideale di comunità di persone.
Nel XVIII secolo l’esteso successo dei due romanzi Robinson Crusoe (1719), dello scrittore britannico Daniel Defoe, e I viaggi di Gulliver (1726), dell’irlandese Jonathan Swift, rese popolare presso un pubblico ancora più vasto un approccio letterario che, per quanto differente negli obiettivi e nei riferimenti culturali, aveva molti aspetti in comune con quello dell’Utopia di Moro. Swift, per esempio, criticò in alcuni passaggi del romanzo le ingiustizie del mondo moderno «in termini quasi marxisti», secondo Hodgkinson.
Successivamente, nel XIX secolo, le trasformazioni avviate dalla rivoluzione industriale e i sentimenti di critica radicale dell’organizzazione politica e sociale esistente generarono tentativi concreti di attuare ambizioni utopiche che erano rimaste fino a quel momento prevalentemente letterarie. L’industriale e filantropo gallese Robert Owen, sostenuto dai primi sindacalisti e considerato oggi uno dei primi socialisti, coniò il motto «otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore di sonno», in un’epoca in cui l’orario di lavoro poteva arrivare a 16 ore al giorno per sei giorni a settimana.
Nel 1813, Owen avviò un processo ancora più ambizioso: acquistò una scuola e una sala da ballo a New Lanark, in Scozia, con l’obiettivo di costruire dei «villaggi cooperativi». E sotto l’influenza di quei suoi primi tentativi altre persone in molte parti del Regno Unito fondarono piccole fattorie e comunità cooperative, che fornivano a ogni famiglia sia un pezzo di terra che lezioni di agricoltura. Sebbene la maggior parte di quei tentativi fallì nel giro di poco tempo, agli sforzi di Owen è oggi attribuito il merito di aver posto le basi della legislazione del lavoro in Europa e in Nord America.
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Come afferma lo scrittore e storico della scienza statunitense Michael Shermer nel libro Heavens on Earth: The Scientific Search for the Afterlife, Immortality and Utopia, l’avversione per l’utopia è legata alla convinzione da cui parte ogni progetto utopico: che gli esseri umani siano perfettibili. Ma progettare una «società perfetta» per una «specie imperfetta» porterà inevitabilmente a errori ed effetti perversi, o anche a fenomeni violenti laddove si cerchi di adattare forzatamente una cosa all’altra.
Non esiste un’unica società migliore delle altre, secondo Shermer, perché è nella nostra natura pensarla diversamente su moltissime cose. Le utopie si rivelano molto fragili, in particolare, quando «una teoria sociale basata sulla proprietà collettiva, sul lavoro in comune, sul governo autoritario e su un’economia di comando e controllo si scontra con il nostro naturale desiderio di autonomia, di scelta e di libertà individuale».
In generale, i tentativi di proporre universi alternativi attraverso la letteratura utopica furono utilizzati come un espediente per mettere in discussione il presente e indebolire le certezze su cui si basavano gli schemi politici, sociali e culturali esistenti. In quanto tali, scrisse nel 2015 sul Guardian il critico letterario inglese Terry Eagleton, quei tentativi furono in gran parte un prodotto della sinistra.
Uno dei problemi del progressismo contemporaneo, afferma lo storico olandese Rutger Bregman nel libro del 2016 Utopia per realisti: Come costruire davvero il mondo ideale, è non avere invece alcun tipo di visione comparabile con quelle passate ambizioni utopiche, per quanto inverosimili e irrealistiche fossero. L’utopia è diventata semmai appannaggio della destra e del populismo, se si pensa alla capacità di alcuni leader dell’ultimo decennio – da Donald Trump a Nigel Farage – di fantasticare a proposito di mondi con pochissime tasse o «liberi» da vincoli posti da organizzazione internazionali come l’ONU, l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale del commercio.
Quello che è scomparso da molte prospettive politiche contemporanee, secondo Bregman, è proprio ciò che era alla base dell’utopia, dalla fede nel socialismo e nella scienza alla volontà e al desiderio di sperimentare nuovi modi di vivere.
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Deanna Kreisel, docente di Letteratura inglese alla University of Mississippi, ha scritto di recente dell’evoluzione del concetto di «utopia» nel corso del tempo e di come l’insieme di aggettivi utilizzati da molte persone per definirlo – da «ideale, perfetto, immaginario» a «irrealistico e irraggiungibile» – denoti un approccio divenuto via via sempre più disilluso riguardo alle capacità collettive di un positivo rinnovamento politico e sociale. Ha quindi ipotizzato che la maggior parte delle persone che vivono nelle culture occidentali oggi, diversamente da quelle vissute in epoca vittoriana, ritenga la delusione «il destino necessario di qualsiasi progetto utopico».
Oltre che in letteratura vittoriana, Kreisel è specializzata in ecocritica, la corrente di analisi letteraria che studia il rapporto tra la letteratura e l’ambiente, e che cerca di comprendere cambiamenti socioeconomici più vasti – il capitalismo industriale, per esempio – a partire dall’analisi degli spazi rurali e urbani descritti nella letteratura inglese. Secondo Kreisel, una certa prevalenza attuale del senso peggiorativo del concetto di «utopia» è, in qualche modo, alla base di una diminuita capacità letteraria di riflettere su possibili soluzioni di crisi epocali, a cominciare dal cambiamento climatico.
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Per le persone dell’Ottocento, ha scritto Kreisel, la parola «utopico» non aveva le connotazioni negative che ha oggi e che alludono a un’idea di «impossibilità, ingenuità e stupidità». E gli autori che utilizzavano quella parola erano peraltro impegnati, nella maggior parte dei casi, in «veri e propri progetti utopici, in senso letterario o letterale (o in entrambi i sensi)».
L’ipotesi di Kreisel, in altre parole, è che al sostanziale disprezzo per l’utopia corrisponda oggi una riduzione della capacità letteraria di immaginare realtà alternative, contesti che non siano necessariamente una replica delle strutture socioeconomiche esistenti. E nei casi in cui questa capacità è invece ancora esercitata, spesso è legata più a un’immaginazione distopica che utopica: a un’inclinazione a esasperare condizioni negative o stati di sofferenza già presenti negli assetti politico-sociali e tecnologici attuali.
Negli ultimi due decenni del XIX secolo furono pubblicati oltre 400 romanzi utopici in inglese, metà dei quali in appena otto anni, tra il 1887 e il 1895, fa notare Kreisel. E furono proprio quei testi a stimolare in particolare il gusto per le utopie ambientate nel futuro, diversamente dai primi romanzi del genere, come l’Utopia di Moro, che erano invece ambientati in posti isolati e sconosciuti ma in un’epoca contemporanea a quella a cui appartenevano gli autori dei romanzi.
Alla fine dell’Ottocento risale in particolare la pubblicazione di due romanzi tra i più venduti dell’epoca e tra i più influenti in assoluto per il genere utopico fantapolitico negli Stati Uniti e in Inghilterra: Guardando indietro, 2000-1887, pubblicato nel 1887 dallo scrittore americano Edward Bellamy, e Notizie da nessun luogo, pubblicato nel 1890 dallo scrittore e artista britannico William Morris.
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Nel romanzo di Bellamy, il protagonista della storia si addormenta per 113 anni e si risveglia in una Boston del 2000, scoprendo una nuova organizzazione politica e sociale negli Stati Uniti, fondata su un’equa distribuzione delle risorse tra i cittadini resa possibile dallo sviluppo tecnologico. Nel romanzo di Morris, un uomo del quartiere Hammersmith a Londra si addormenta dopo aver partecipato a un’assemblea socialista e si risveglia in una specie di società agricola fondata sul controllo democratico dei mezzi di produzione.
Sia i due romanzi di Bellamy e Morris che quelli di altri autori a loro contemporanei, scrive Kreisel, sono esempi di riflessione ancora oggi significativi, nella misura in cui insegnano a pensare «come persone che credono che una società molto migliore (se non ideale) sia alla portata della teoria». Ci inducono a confrontarci sulla nostra idea di «natura umana», a non dare per scontati certi aspetti della realtà e a riflettere su cosa della nostra organizzazione sociale consideriamo immutabile e cosa no, lasciando emergere per contrasto le nostre predisposizioni e i nostri pregiudizi.
A proposito della sua esperienza da docente universitaria, Kreisel ha scritto di riscontrare ormai da tempo nelle sue classi una diffusa assuefazione a un tipo di narrativa «deprimente» sui cambiamenti climatici. E che neppure l’assegnazione di libri di testo come Learning to Die in the Anthropocene: Reflections on the End of a Civilization, dello scrittore statunitense Roy Scranton, genera di solito reazioni di sorpresa. «Siamo cresciuti con questa roba», le ha risposto uno dei suoi studenti del primo anno, sulla ventina.
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L’attuale inclinazione a preferire prospettive pessimiste nella letteratura ambientata nel futuro sembra peraltro precedere storicamente le preoccupazioni più recenti legate all’invasione russa dell’Ucraina, alla pandemia o al successo dei populismi, osserva Kreisel.
Già verso la fine degli anni Dieci del Duemila, a fronte della prevalenza di questo approccio, autori e autrici come il ricercatore canadese in scienze politiche Thomas Homer-Dixon e la scrittrice e ambientalista statunitense Rebecca Solnit avevano indicato l’opportunità di concentrare l’attenzione anche su prospettive più incoraggianti e suggerire modelli di comunità e di condivisione diversi da quelli descritti, per esempio, nel film Mad Max o nel romanzo di successo La strada di Cormac McCarthy.
Non è un caso, secondo Kreisel, che gran parte della letteratura utopica del Novecento sia soprattutto letteratura fantascientifica. Romanzi come I reietti dell’altro pianeta della statunitense Ursula K. Le Guin, pubblicato nel 1974, o quelli della trilogia di Marte dello statunitense Kim Stanley Robinson, pubblicata negli anni Novanta, sono ambientati su pianeti diversi dal nostro, «che è un commento abbastanza deprimente sullo stato del pensiero utopico riguardo al nostro futuro reale, a breve termine».
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La conclusione di Kreisel è che la nostra attuale immaginazione sia dominata da immagini di «ghiacciai che crollano, siccità e carestia in tutto il mondo, dittature fasciste, guerra nucleare e pandemie senza fine». Ma per superare queste preoccupazioni e sopravvivere come specie – «se è quello che decidiamo di volere» – sarebbe necessario avere anche «qualche idea di cosa vorremmo essere dall’altra parte». E servirebbe immaginare efficaci modelli di convivenza alternativi, fondati su reti di aiuto reciproco di cui potremmo aver bisogno in futuro e che in parte possono essere suggeriti anche da esempi reali di organizzazione degli interventi in seguito a disastri naturali.