Qualcosa è andato storto nei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita
La strategia di Joe Biden verso i sauditi, già criticata, è stata un buco nell'acqua, come dimostrato dalla decisione di ieri dell'OPEC+
Per gli Stati Uniti e il governo del presidente Joe Biden la riduzione della produzione di petrolio decisa mercoledì dai paesi del’OPEC+ non è solo motivo di preoccupazione economica, ma anche una sconfitta politica e diplomatica. Nonostante le pressioni internazionali, infatti, L’OPEC+ (l’organizzazione che riunisce i paesi esportatori di petrolio e che comprende anche la Russia) aveva approvato un taglio di due milioni di barili al giorno con l’obiettivo di far aumentare il prezzo del greggio in circolazione.
Tra i paesi più contrari a questa misura ci sono gli Stati Uniti, che avevano esercitato molte pressioni sul regime saudita guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman, alleato degli americani e uno dei paesi più importanti all’interno dell’OPEC+. I principali giornali statunitensi hanno raccontato che il governo Biden ha reagito con «rabbia» alla riduzione della produzione di greggio, e alcuni esperti hanno parlato di fallimento nei rapporti diplomatici avviati da Biden nei confronti dell’Arabia Saudita: «L’influenza di Biden sui suoi alleati del Golfo è molto minore di quella che il presidente sperava di avere», ha scritto per esempio il New York Times.
In generale si sta parlando di fallimento della “fist-bump diplomacy”, la “diplomazia del saluto col pugno”, facendo riferimento alla discussa visita in Arabia Saudita di Biden a luglio.
Con quella visita, Biden aveva interrotto l’isolamento internazionale dell’Arabia Saudita e di bin Salman promesso dallo stesso presidente come ritorsione per l’uccisione del giornalista del Washington Post e dissidente saudita Jamal Khashoggi, commissionata proprio dal principe ereditario, secondo un rapporto della CIA e secondo altre ricostruzioni. In campagna elettorale Biden era stato risoluto nell’indicare la volontà di non intrattenere rapporti con l’Arabia Saudita, ma poi a luglio si era rimangiato la parola nell’intento di fermare la crescita dei prezzi della benzina. La sua visita alla città saudita Gedda era stata definita da molti imbarazzante o «un’umiliazione». Il presidente aveva cercato di salvare le apparenze almeno evitando la stretta di mano: era così nato il “saluto col pugno” a Mohammed bin Salman.
L’amministrazione americana aveva comunque definito importanti i risultati di quell’incontro, poco gradito a gran parte dell’elettorato Democratico. Gli Stati Uniti avevano ottenuto un aumento della produzione di petrolio di 750mila barili al giorno da parte dell’Arabia Saudita, ma l’aumento era stato temporaneo (per i mesi di luglio e agosto) e la produzione non aveva mantenuto quei livelli di fronte a un calo dei prezzi del greggio al barile considerato preoccupante dal governo saudita.
Per lo stesso motivo, e nell’ottica di una possibile recessione mondiale e di un calo della domanda, mercoledì i paesi dell’OPEC+ hanno deciso una consistente diminuzione della produzione del greggio. Per l’amministrazione americana, oltre a segnalare una ridotta capacità di influenza (negli ultimi giorni le pressioni da Washington erano state intense), la decisione potrebbe causare due generi di problemi.
Il primo è economico: il taglio della produzione e il conseguente aumento del costo del greggio al barile potrebbe avere un riflesso sui prezzi della benzina nelle stazioni di servizio stimato fra i 15 e i 30 centesimi di dollaro al gallone (3,78 litri). L’elettorato americano è molto sensibile agli aumenti delle spese per i carburanti e fra un mese sono previste le elezioni di metà mandato, già complicate per il partito Democratico.
Il secondo problema è di politica internazionale e riguarda la guerra in Ucraina: alla riunione dell’OPEC+ era presente anche la Russia, con il vice primo ministro Alexander Novak, peraltro nella lista dei collaboratori più stretti di Putin sotto sanzione americana per aver contribuito all’aggressione dell’Ucraina. La decisione di ridurre la produzione per far crescere i prezzi può aiutare l’economia russa e rendere meno efficaci le misure di embargo economico e il tetto al prezzo del petrolio imposto dall’Unione Europea con l’ottavo insieme di sanzioni.
In un quadro più generale, la presa di distanze dell’Arabia Saudita dallo storico alleato americano è stata interpretata da alcuni osservatori anche come un avvicinamento alla Russia, all’interno di una politica di ricerca di nuove relazioni internazionali che potrebbe coinvolgere anche la Cina.
Da parte saudita si tende a definire la decisione come puramente economica e non politica, volta solo a preservare la stabilità dei conti del paese, completamente dipendenti dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio. L’unico commento ufficiale è stato quello di Abdulaziz bin Salman, ministro del Petrolio: «Preferiamo essere previdenti piuttosto che dispiaciuti».
In un comunicato firmato da Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, e Brian Deese, presidente del Consiglio economico nazionale, il governo americano ha detto che il presidente «è deluso per la decisione miope dell’OPEC+» e che «consulterà il Congresso per definire nuovi mezzi e autorità per ridurre il controllo da parte dell’OPEC+ sul prezzo dell’energia». Più diretta è stata la portavoce del presidente, Karin Jean-Pierre: «È evidente che l’OPEC+ si sia allineata con la Russia, dopo questo annuncio».
Più in generale, come ha specificato il New York Times, la manifesta indipendenza dell’Arabia Saudita sembra dimostrare che son finiti i tempi in cui i presidenti americani potevano chiedere favori agli alleati del Golfo, aspettandosi che venissero concessi in virtù unicamente del mantenimento di buoni rapporti. L’Arabia Saudita e in generale i produttori di petrolio sembrano far sempre più dipendere le loro scelte principalmente da motivi economici.
Alcuni senatori Democratici, come Tom Malinovski e Sean Casten, hanno definito la decisione dell’Arabia Saudita un «atto ostile» e hanno suggerito che l’amministrazione dovrebbe ripensare il suo impegno militare nel paese. Attualmente ci sono cinque basi militari americane in Arabia Saudita, con circa 3000 uomini impiegati.