I riformisti hanno vinto due seggi su tre alla presidenza della Bosnia
Il terzo è andato alla candidata del più forte partito nazionalista serbo, secessionista e fermamente filo-russo
Secondo i dati diffusi dalla Commissione elettorale bosniaca, alle elezioni che si sono tenute domenica nella Bosnia ed Erzegovina due dei tre seggi presidenziali sono stati vinti dai candidati riformisti.
La Bosnia ed Erzegovina ha uno dei sistemi politici più complicati al mondo: un’intricata architettura di parlamenti, governi e presidenze progettata trent’anni fa in seguito alle guerre degli anni Novanta allo scopo di rappresentare i tre principali gruppi etnici nazionali. Il risultato considerato più importante e atteso delle elezioni è la presidenza condivisa del paese. Condivisa perché il sistema di governo della Bosnia è diviso in due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina: la Federazione esprime due membri della presidenza tripartita – quello che rappresenta i bosgnacchi, in prevalenza musulmani, e quello che rappresenta i bosniaci croati, in prevalenza cattolici – mentre la Repubblica Serba esprime il terzo membro, che rappresenta i bosniaci serbi, in prevalenza ortodossi.
Lo spoglio dei voti ha superato il 90 per cento, ma ormai i risultati sono chiari e sia vincitori che sconfitti hanno confermato l’esito. Per il posto bosgnacco della presidenza ha vinto Denis Bećirović del Partito socialdemocratico (SDP), di centrosinistra e moderato, che sostiene un approccio meno etnocentrico alla politica nazionale. Ha ottenuto il 57 per cento dei voti, mentre Bakir Izetbegović, già due volte presidente ed esponente del partito nazionalista bosgnacco (SDA), che ha governato quasi ininterrottamente negli ultimi trent’anni, si è fermato al 37,6 per cento. Bećirović era stato sostenuto da 11 partiti dell’opposizione. «È tempo di una svolta positiva in Bosnia» ha detto dopo aver rivendicato la vittoria.
Per il seggio dei croati bosniaci ha vinto il presidente uscente Željko Komšić, centrista, con il 54,2 per cento dei voti. Komšić sostiene la creazione di uno stato che non segua più le divisioni etniche del paese. Borjana Kristo, rappresentante del partito nazionalista di destra HDZ, è invece arrivata seconda con il 45,7 per cento circa.
Komšić è comunque malvisto da molti croati bosniaci, che lo considerano un presidente illegittimo, sostenendo che sia stato votato perlopiù dai bosgnacchi e non dai croati. La legge elettorale bosniaca, infatti, consente ai residenti della Federazione di scegliere se votare per il posto della presidenza che rappresenta i bosgnacchi o per quello che rappresenta i croati bosniaci.
Il punto è che i bosgnacchi sono molti di più dei croati, il 70 per cento contro il 22: secondo i croati, sono stati dunque i bosgnacchi che hanno scelto di votare per il presidente croato a consentire l’elezione di Komšić, che è stato addirittura dichiarato persona non grata in alcune città del sud del paese in cui il nazionalismo croato è particolarmente radicato.
Sia Bećirović che Komšić sono considerati dei moderati e dei riformisti, mentre il terzo seggio della presidenza (quello assegnato alla Repubblica Serba e che rappresenta i bosniaci serbi), è andato a Željka Cvijanovic, candidata del più forte partito nazionalista serbo, l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), secessionista e fermamente filo-russo. Cvijanović ha ottenuto il 52,6 per cento dei voti.
Le attuali elezioni sono considerate particolarmente importanti perché negli ultimi due anni le spinte nazionaliste e separatiste in Bosnia hanno raggiunto livelli inediti, principalmente a causa del presidente che rappresenta i serbi, Milorad Dodik, e del suo partito SNSD.
Da quindici anni Dodik minaccia la secessione dell’entità serba dalla Bosnia, e tra il luglio del 2021 e i primi mesi del 2022 aveva guidato un boicottaggio delle istituzioni federali che aveva alzato le tensioni etniche nel paese e paralizzato la politica nazionale. A provocare il boicottaggio era stata la decisione dell’allora alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Valentin Inzko, di emanare una legge per vietare di negare il massacro di Srebrenica, compiuto nel 1995 dall’esercito serbo guidato dal generale Ratko Mladić e che si concluse con l’uccisione di oltre 8mila musulmani bosniaci.
Dodik, che tra il 2010 e il 2018 fu presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, è sostenuto personalmente dal presidente russo Vladimir Putin: a sorpresa non si è ricandidato come presidente statale, cioè per il seggio serbo della presidenza condivisa, ma come presidente dell’entità serba, per scambiarsi di posto con la compagna di partito Željka Cvijanović (Cvijanović era presidente della entità serba e a queste elezioni si era candidata al posto per la presidenza condivisa). Dodik al momento è in vantaggio con il 48,8 per cento dei voti, ma lo scrutinio è ancora in corso e la sua vittoria non è certa.
La guerra in Bosnia durò dal 1992 al 1995 e fu il più sanguinoso conflitto in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Si sviluppò nel contesto dei processi di indipendenza dei paesi della ex Jugoslavia e vide combattersi i tre gruppi etnici del paese, con il coinvolgimento della Croazia e soprattutto della Serbia, responsabile dei più gravi episodi di pulizia etnica, violenze e stupri. La guerra finì con gli accordi di pace che misero in piedi il complesso sistema di governo che esiste ancora oggi, nonostante da anni ci siano richieste di cambiarlo.