Il rigetto della musica in streaming
L’insoddisfazione per cataloghi sterminati e algoritmi porta alcune persone a prediligere vecchi formati ed esperienze di fruizione più limitate e meno passive
Secondo i dati più recenti pubblicati dalla International Federation of the Phonographic Industry (IFPI), l’organizzazione con sede a Londra considerata una specie di equivalente dell’ONU per l’industria discografica, la principale modalità di ascolto nel mercato mondiale della musica nel 2020 è stata quella tramite piattaforme di streaming come Spotify a Apple Music e di condivisione come TikTok e YouTube. I risultati del sondaggio, basato sulle opinioni di 43 mila persone in 21 paesi, hanno anche mostrato una crescita complessiva del 51 per cento degli abbonamenti ai servizi di streaming.
Nonostante la popolarità crescente delle piattaforme in tutto il mondo, nei contesti in cui Spotify e altri servizi esistono da più tempo è progressivamente emerso tra alcune persone avvezze all’uso un sentimento di insoddisfazione per il tipo di esperienza della musica associato all’ascolto tramite streaming. Dove presente, questo sentimento è sempre più spesso alla base di recenti forme di rifiuto delle piattaforme e di ripiegamento su formati ormai in disuso e modi di fruizione della musica giudicati più coinvolgenti e meno passivi per chi ascolta, e che si concentrano sulla qualità (non dell’audio, bensì dell’esperienza complessiva di ascoltare musica) a scapito della quantità e della varietà.
È un fenomeno difficile da misurare con precisione ma comunque estremamente limitato, che definisce un approccio alla musica largamente minoritario rispetto a quelli più attuali e dominanti. Ma presenta alcune caratteristiche che lo distinguono almeno in parte da altri fenomeni di mercato ampiamente noti, come quelli alimentati dal gusto e dalla nostalgia per i dischi in vinile o per altri formati.
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La differenza principale è che il fenomeno del rigetto della musica in streaming non sembra basato su un’impressione di superiorità del supporto fisico rispetto al digitale, reale o presunta che sia. È piuttosto un fenomeno di riflusso, o di saturazione: diffuso tra chi delle piattaforme fa uso da anni. E sembra legato a un disagio sperimentato da alcune persone di fronte a possibilità di accesso alla musica che sono sempre più sconfinate e sempre più orientate da tendenze e algoritmi, e sempre meno sorrette dalla condivisione di suggerimenti all’interno di cerchie di amici e gruppi sociali e familiari.
Lo stesso discorso vale in parte per certi effetti dell’estesissima diffusione di piattaforme di contenuti video come Netflix. Ma con la differenza che ai contenuti audio è generalmente attribuita una diversa capacità di raggiungere i consumatori nell’arco della giornata e maggiori probabilità di legarsi ad altre attività ed esperienze. Secondo il rapporto (pdf) dell’IFPI, le persone trascorrono in media 18,4 ore a settimana ascoltando musica: l’equivalente di 368 canzoni da tre minuti, una stima in aumento rispetto alle 18 ore settimanali dell’anno precedente.
Il punto è che al crescere delle ore di ascolto non corrisponde necessariamente un maggiore coinvolgimento, e a volte è vero il contrario. «La disponibilità è infinita ma non stai ascoltando niente», ha detto una delle persone sentite dal Guardian per un recente articolo su questo fenomeno.
Cercando tra le varie playlist disponibili, scrive il Guardian, alcune persone si accorgono di detestare l’abitudine stessa di cercare musica che sia catalogata come adatta a determinate attività, circostanze o momenti della giornata. Ed è un discorso evidentemente legato, almeno in parte, ai modelli di business delle società di streaming, «ossessionate dal coinvolgimento» e interessate a creare nuove abitudini di ascolto e di scoperta della musica oltre che a soddisfare abitudini esistenti. «Usare la musica anziché farne un’esperienza a sé stante, è questo il problema», ha detto una dipendente di una panetteria a Boston.
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In generale, il disagio provato da alcune persone per l’ascolto tramite le piattaforme di streaming e per l’approccio utilitaristico e dispersivo alla musica che avrebbero favorito nel tempo è in alcuni casi legato a una predilezione per un’esperienza della musica più concentrata, definita e circoscritta. E che sembra più compatibile con l’utilizzo di formati che pongono limiti fisici inaggirabili e riducono di fatto le possibilità di ascolto, attivando però particolari inclinazioni sia percettive che sentimentali.
Il risultato, stando a quanto riferito da quelle persone, è che quei limiti finiscono per incrementare anziché limitare le probabilità che determinate canzoni o interi dischi – ascoltati ripetutamente – si leghino a esperienze, momenti e fasi della vita delle persone. E che si possa con quella musica sviluppare un rapporto più personale e profondo. Un tipo di esperienza estremamente comune per gran parte delle persone almeno fino alla grande diffusione della musica in streaming, una decina d’anni fa.
Un musicista e ingegnere del suono di Bristol ha detto al Guardian che il recente acquisto su eBay di un iPod usato gli ha permesso di rinunciare a un approccio «usa e getta» che stava diventando prevalente nel suo rapporto con la musica. L’ipotesi sostenuta da lui e da altri è che lo streaming illimitato riduca l’inclinazione ad ascoltare musica che non piaccia da subito e, di conseguenza, le probabilità di concedere un secondo ascolto. Ed è una condizione incompatibile con un’idea di musica il cui apprezzamento sia invece determinato da una familiarità che cresce nel tempo: circostanza molto frequente in passato, nel caso di molti dischi a cui si sia particolarmente affezionati.
«Lo streaming stava effettivamente contribuendo a un certo grado di rigetto della nuova musica», ha detto il musicista di Bristol, il cui caso mostra peraltro che la ricerca di formati alternativi non è legata a un desiderio di maggiore qualità del supporto. Non solo con dischi in vinile e cd ma anche con i download digitali – quindi un formato identico a quello utilizzato dalle piattaforme di streaming – tendeva infatti a dedicare alla musica più tempo e più attenzione.
Continuare ad ascoltare musica utilizzando comunque file mp3 o equivalenti permette peraltro sia di mantenere la praticità di quel formato che di ascoltare dischi e canzoni prodotte da musicisti che decidono di non avere un account sulle piattaforme di streaming, criticandone apertamente il modello di business. Tra quei musicisti, anche quelli non ancora affermati, in tanti decidono infatti di distribuire la propria musica tramite piattaforme come Bandcamp, che permettono di venderla sia in formato digitale che fisico. E anche nel caso di musicisti che si limitano a vendere CD durante i propri concerti, la musica può essere comunque convertita in mp3 e riprodotta tramite un lettore portatile.
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Una conseguenza del non ascoltare più musica in streaming, riferisce chi ha preso questa decisione, è di ascoltarne di meno. Ma le stesse persone tendono a far notare quanto distratto e passivo fosse in precedenza il loro ascolto tramite le piattaforme. «Non stavo necessariamente ascoltando cose, stavo controllando i primi 15 secondi e schiacciando skip», ha detto un polistrumentista di Cambridge, nello stato di New York, che non usa più Spotify da due anni e sostiene che utilizzare Internet soltanto come strumento di ricerca ma non come mezzo di ascolto abbia riattivato la sua curiosità musicale.
Un altro fattore giudicato da alcuni rilevante per avere una relazione più appagante con la musica – e che, in una certa misura, vale allo stesso modo anche per gli appassionati di vinili – è il coinvolgimento fisico, inteso come tutte le operazioni da svolgere per rendere possibile l’ascolto. Che si tratti di acquistare e scaricare un disco su Bandcamp o di riversare su un lettore portatile un cd precedentemente acquistato a un concerto, ogni operazione che richieda un’esplicita attenzione e dedizione delle persone è percepita come un valore aggiunto all’esperienza finale dell’ascolto. E contribuisce, in definitiva, a differenziare quell’esperienza da un tipo di ascolto contraddistinto da una ricezione ininterrotta, passiva e distratta.
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La diffusione su larga scala della modalità di ascolto tramite streaming è infine storicamente associata da alcune persone a un progressivo indebolimento di precedenti abitudini di condivisione all’interno delle cerchie di familiari e amici: contesti in cui i suggerimenti sulla musica erano spesso ricavati anche dalla lettura di riviste di settore, dall’ascolto di programmi radiofonici o dalle conversazioni con i commessi dei negozi di dischi. Ed esiste una diffusa inclinazione ad attribuire al successo delle piattaforme e alla predominanza degli algoritmi il venir meno di quelle forme di condivisione, sebbene questo fenomeno sia a sua volta legato a processi culturali, sociali ed economici più ampi e in cui, di solito, è molto difficile distinguere cause ed effetti.
In alcuni casi, le persone che hanno smesso di ascoltare musica in streaming riferiscono di aver ripristinato modalità di condivisione tipiche di altri tempi, basate su consigli di amici o di persone che lavorano in negozi di dischi. Oppure scoprono nuova musica leggendo articoli di giornali e siti specializzati.
Jeff Tobias, un giovane sassofonista di New York che ha smesso di utilizzare Spotify, ha definito la musica «una pratica artistica comune», parlando con il Guardian. E ha detto di essere interessato unicamente a modalità di ascolto che gli permettano di avere una relazione con i musicisti o con gli amici. «Spotify e lo streaming in generale non hanno assolutamente alcun legame con quel tipo di relazione», ha aggiunto.
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