Le proteste in Iran sono davvero un pericolo per il regime?
Per ora sembra di no, vista la violenta repressione della polizia, ma nel lungo periodo potrebbe cambiare qualcosa
Le proteste in Iran, che sono iniziate a causa del probabile omicidio di Mahsa Amini, una donna di 22 anni morta in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo, si sono ormai trasformate in una rivolta contro il regime teocratico che governa il paese: tra gli slogan dei manifestanti, in questi giorni, uno dei più citati è «Morte al dittatore!», dove il dittatore è Ali Khamenei, la Guida suprema, la figura politica e religiosa più importante dell’Iran.
Come in altre occasioni, il regime iraniano sta rispondendo con la violenza: negli scontri con la polizia sono state uccise finora almeno 70 persone, ma il malcontento e le manifestazioni stanno continuando a diffondersi nel paese. Anche per questo, molti esperti e analisti hanno cominciato a chiedersi come potrebbero andare a finire queste manifestazioni, e se siano davvero una minaccia per il regime. La risposta sintetica è che probabilmente non lo saranno nell’immediato, ma è al tempo stesso evidente che il regime teocratico ha perso la gran parte della sua legittimazione popolare, e questo potrebbe portare a grossi sviluppi in futuro.
Le manifestazioni di questi giorni non sono certo le prime a coinvolgere migliaia di persone in Iran. In tempi recenti, le più grosse furono quelle contro la rielezione a presidente di Mahmoud Ahmadinejad, a cui nel 2009 parteciparono centinaia di migliaia di persone e furono probabilmente le più pericolose per la tenuta del regime. Anche in quel caso, tuttavia, la risposta con la violenza e la repressione ebbe successo, e le proteste furono sedate.
Ci sono state numerose altre proteste di massa negli anni successivi, che hanno avuto varie cause scatenanti e hanno spesso coinvolto ampie porzioni della popolazione, come per esempio quelle che cominciarono alla fine del 2017 e proseguirono per gran parte del 2018. Nel 2019, poi, ci furono manifestazioni contro il forte aumento del prezzo del carburante.
Nella maggior parte dei casi, il regime rispose sempre allo stesso modo: violenza, repressione e arresti. Nel 2019 per esempio furono uccise centinaia di persone.
Funzionò tutte le volte: il regime finora è riuscito a sopravvivere a ogni minaccia alla sua autorità usando l’ampio apparato di forze di sicurezza a propria disposizione. Ma a ogni rivolta repressa, la rabbia della popolazione è andata aumentando, anche perché nel frattempo la situazione non è migliorata: la corruzione è rimasta molto diffusa, l’economia continua a essere vicina al collasso (in parte a causa delle sanzioni occidentali) e, come ha mostrato il caso di Mahsa Amini, il controllo ideologico e morale della polizia religiosa e delle forze del regime ha ormai raggiunto livelli insostenibili.
La maggior parte degli analisti ritiene che anche le proteste attualmente in corso non costituiscano un pericolo immediato per il regime. Tra le altre cose, i manifestanti non sono riusciti a costruire un movimento coeso, non hanno una leadership unitaria né obiettivi politici chiari. Il regime, inoltre, al momento non ha subìto particolari divisioni al suo interno né defezioni tra le forze di sicurezza.
Ma sono stati anche fatti notare elementi di novità ed eccezionalità, in linea con l’impressione generale che, a ogni protesta, il regime stia perdendo legittimità e potere. Questa volta «i manifestanti sono molto più audaci», ha detto a CNBC Evan Siegel, uno storico dell’Iran. «Spinti dalla furia causata da decenni di repressione e umiliazione, stanno resistendo nella guerriglia in strada contro gli organi repressivi, soprattutto l’odiata polizia paramilitare» (il riferimento è alle Guardie rivoluzionarie, uno dei corpi più fedeli al regime e spesso usato per attività di repressione).
Anche il ruolo centrale delle donne nella protesta è un aspetto notevole, benché non del tutto inedito: da giorni, in risposta all’arresto e alla morte di Mahsa Amini, circolano video di iraniane che bruciano il proprio velo e si tagliano i capelli in luoghi pubblici, eventi eccezionali in un paese in cui il dissenso è sistematicamente represso dal regime.
Non è la prima volta comunque che le donne protestano contro l’obbligo di indossare il velo e contro le altre rigide imposizioni del regime teocratico, ma la forza delle proteste e il coinvolgimento delle donne questa volta è maggiore: «La morte di Mahsa Amini ha scatenato decenni di energia e volontà repressi tra le donne, che ora stanno combattendo», ha detto a Reuters Omid Memarian, analista esperto di Iran.
– Leggi anche: Le proteste in Iran viste dai movimenti delle donne
L’impressione generale, dunque, è che le proteste come quella di questi giorni siano un rischio non tanto nell’immediato («Le Guardie rivoluzionarie… sono brutali, leali e molto efficaci nel reprimere le proteste, e hanno anni di esperienza nel farlo», ha detto a Reuters Henry Rome, un analista del centro studi Eurasia Group) quanto sul lungo termine.
«Avendo sabotato le riforme per anni, la leadership iraniana ha trasformato il paese in una scatola di fiammiferi. È possibile che ricorrendo alla violenza riescano a reprimere queste proteste e guadagnare tempo fino al prossimo scontro tra stato e società. Ma con il passare del tempo continueranno a rendere l’Iran sempre più vulnerabile alle turbolenze civili che hanno portato paesi come la Siria e lo Yemen in una spirale mortale», ha scritto il centro studi Crisis Group.
L’Iran, peraltro, potrebbe trovarsi presto in un momento politico molto delicato: la Guida suprema Ali Khamenei, che è in carica da oltre 30 anni, ha 83 anni e le sue condizioni di salute sono precarie da tempo. I due principali candidati a succederlo sono Ebrahim Raisi, l’attuale presidente, e Mojtaba Khamenei, il figlio di Ali che ultimamente sta ottenendo sempre maggiore influenza: entrambi fanno parte delle fazioni più conservatrici del regime, ed entrambi sembrano piuttosto combattivi e determinati a ottenere l’incarico.
Uno scontro per la successione di Khamenei potrebbe trasformarsi in un momento di fragilità e incertezza per tutto il sistema politico iraniano.