I problemi dei piccoli comuni con i minori in comunità
Le spese per le rette possono mandare in crisi i bilanci: tagliarle non è possibile e i sindaci chiedono più fondi a stato e regioni
di Valerio Clari
Poco più di un mese fa, in tempi in cui la campagna elettorale doveva ancora sostanzialmente iniziare, una trentina di sindaci della provincia di Pavia si sono riuniti per discutere delle difficoltà economiche di Ceretto Lomellina: il comune aveva compromesso i suoi conti per via dei costi insostenibili di cui si era fatto carico per ospitare alcuni cosiddetti minori non accompagnati, nello specifico tre sorelle allontanate a scopo di tutela e protezione dalla famiglia. Ceretto ha circa 200 abitanti, soprattutto agricoltori, e non è esattamente l’epicentro della vita politica lombarda.
Il comune aveva dichiarato il “dissesto finanziario”, misura ufficiale che certifica l’impossibilità di far tornare i conti del bilancio. Gli altri sindaci erano lì per esprimere solidarietà a Giovanni Cattaneo, collega di Ceretto, ma anche per richiamare l’attenzione su quello che è un problema frequente nei comuni di piccole dimensioni.
Negli ultimi giorni la stessa questione è stata dibattuta in consiglio comunale a Gubbio (provincia di Perugia): sono state evidenziate spese ingenti sostenute dai comuni che fanno parte della “zona sociale” (l’insieme di comuni per coordinarsi su temi sociali) di cui fa parte Gubbio. Alcuni sono di dimensioni maggiori, come Gualdo Tadino, altri sono piccoli: tutti sono condizionati dalle spese non programmabili per la tutela dei minori e chiedono l’istituzione di un fondo regionale.
La legge prevede infatti che gli oneri per la tutela dei minori debbano essere pagati non dallo Stato o dalla Regione, ma dal comune di riferimento. Per le città di medie e grandi dimensioni non è un grosso problema, ma lo è per i centri più piccoli, che talvolta non hanno alcuna fonte di entrata diretta, ma solo trasferimenti dallo Stato.
Su richiesta dell’ANCI, l’associazione nazionale dei comuni italiani, nel 2021 il governo aveva istituito un fondo destinato a coprire queste spese per i comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, ma i 3 milioni stanziati non sono risultati sufficienti. Non solo le amministrazioni locali, ma anche i referenti del mondo delle comunità di accoglienza concordano nel ritenere che una misura simile, ma di entità maggiore, dovrebbe essere resa stabile.
Nonostante i problemi riscontrati da diversi comuni, questo tema non sembra avere attirato l’attenzione dei partiti, almeno a giudicare dai programmi elettorali e dal dibattito pubblico.
Le misure di allontanamento a scopo di tutela dei minori decise dai giudici comportano spese che gravano sui conti delle amministrazioni, ma allo stesso tempo le tariffe pagate alle strutture in cui i minori finiscono non sono sempre sufficienti per garantire un servizio adeguato. Gli standard delle strutture sono definiti singolarmente da ogni Regione, cosa che aumenta la complessità del problema e le disparità da zona a zona. Inoltre negli ultimi anni l’intero processo di affido o di collocamento in comunità è stato al centro di polemiche che hanno creato un generale clima di sfiducia, in particolare dal 2019 a partire dal grande clamore mediatico e politico intorno al “caso Bibbiano”.
La manifestazione di inizio agosto a Ceretto Lomellina e i problemi economici raccontati dai sindaci riguardavano sia l’entità delle rette da pagare sia la durata dei periodi di affido o di ricovero in comunità e casa-famiglia.
L’amministrazione di Ceretto Lomellina ha dichiarato il dissesto dopo quattro anni di problemi economici: le rette per le tre sorelle, infatti, pesavano sul bilancio per 93mila euro all’anno. In un paese in cui le abitazioni sono quasi tutte “prime case”, esentate quindi dal pagamento dell’IMU, le fonti di entrata dell’amministrazione sono quasi nulle. Il sindaco di Ceretto, Giovanni Cattaneo, ha detto di aver tagliato tutti i servizi, compresi gli scuolabus, il trasporto anziani e la cura del verde; di aver eliminato le spese di amministrazione (gettoni di presenza del consiglio e stipendio per sé, vicesindaco e assessore); di aver tentato di creare un’Unione di Comuni, un ente in cui più amministrazioni contigue si uniscono per dividere spese e entrate.
Poi è stato costretto a dichiarare il “dissesto finanziario”, che avviene «quando il Comune non è più in grado di assolvere alle funzioni ed ai servizi indispensabili» o quando non riesce a far fronte ai debiti contratti. Il processo può portare al commissariamento e a nuove elezioni.
I 93mila euro sono il risultato di rette giornaliere di 85 euro a minore. In un comunicato, il presidente dell’ANCI Lombardia Mauro Guerra diceva: «tali spese non possono gravare solo sulle disponibilità finanziarie di ciascun comune, ma devono vedere l’intervento importante di un fondo statale, di uno regionale, uniti alla definizione di accordi territoriali di solidarietà tra i Comuni stessi per condividere il residuo carico sui loro bilanci».
I problemi infatti non hanno riguardato solo Ceretto: i sindaci di altre città hanno raccontato le difficoltà di sostenere spese così grandi per diversi anni, a fronte di entrate assai basse.
Liviana Marelli è membro dell’esecutivo nazionale del CNCA (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) e da anni si occupa di diritti dell’infanzia, inclusa la questione delle rette congrue a garantire il soggiorno e l’assistenza dei minori nelle comunità. Marelli auspica un’uniformità nazionale delle regole, che eviti soprattutto servizi al ribasso, non adeguati. Oggi ogni Regione va per la sua strada: l’entità delle rette medie può variare dai 75-80 euro di Puglia e Campania ai 118 di Emilia-Romagna e Veneto.
Marelli ha detto che il CNCA aveva proposto l’adozione di un prezzo equo a livello nazionale, o almeno una forbice tra un valore minimo e uno massimo, per garantire il rispetto dei criteri formativi ma anche quello dei contratti di lavoro di chi nella comunità lavora, tenendo presente che la collaborazione dei volontari è fondamentale ma non può mai sostituire il lavoro degli operatori qualificati. «La forbice non è stata accolta dall’ANCI, perché a loro parere ledeva l’autonomia degli enti locali», ha detto.
In una campagna di sensibilizzazione di qualche anno fa (ma valida ancora oggi) il coordinamento aveva dettagliato spese e costi che le comunità devono sostenere, ottenendo una quota adeguata per ogni minore, calcolata su una media di otto ospiti per ogni casa-famiglia. La legge 149 del 2001 ha infatti stabilito la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre del 2006, definendo la formula della comunità di tipo familiare, che non può avere più di 10 ospiti. Non è disponibile un dato nazionale sul numero delle strutture di accoglienza: l’ultimo ufficiale risale al 2017, quando erano 4.076.
Un’analisi dei costi fissi, di cui la quota maggiore viene riservata ai costi del personale, portava a una forbice di costi giornalieri per ospite fra i 120 e i 150 euro. Oggi i prezzi richiesti dalle strutture possono variare fra i 100 e i 120 euro, scendendo leggermente in alcuni casi. Possono essere definiti in una trattativa diretta fra chi gestisce il servizio e il comune, oppure attraverso convenzioni definite da più comuni a cui le strutture possono aderire. Il comune di Milano paga 93 euro alle comunità che risiedono nel territorio cittadino, 87 euro per i comuni dell’hinterland che rientrano nella città metropolitana.
Diminuire le rette non è quindi possibile, se non a costo di mettere a rischio il giusto rapporto fra numero di operatori e di minori, o di fare ricorso a lavoro precario con alto turnover, o di risparmiare sulla qualità di cibo, abbigliamento e tempo libero.
Costi più bassi si hanno con il ricorso alle famiglie affidatarie, ma affido e collocamento in comunità non costituiscono soluzioni equivalenti o alternative. «A governare questa scelta non può mai essere una questione economica, ma il principio di appropriatezza», ha detto Marelli. «Ogni assegnazione da parte dei giudici non viene mai fatta a cuor leggero e risponde alle esigenze del minore. Ad esempio nel caso di bambini vittime di violenza e abuso un’équipe di professionisti può governare meglio difficoltà e traumi. Più in generale affido e comunità possono essere usate con flessibilità e complementarità: sono molti i passaggi da uno all’altra, nel corso del percorso».
Le polemiche di questi ultimi anni, con accuse da alcune parti politiche di un ricorso eccessivo all’allontanamento dalle famiglie di origine, non trovano riscontro nei numeri, che sono rimasti stabili e decisamente inferiori alle medie dei paesi europei assimilabili per situazione sociale. I minorenni fuori famiglia sono pari al 2,9 per mille del totale, contro il 10,4 per mille della Francia, 10,5 della Germania, 4,4 della Spagna.
Un’altra questione spesso discussa è la durata della permanenza nei servizi residenziali dei minori: i dati dicono che il 43% ha una permanenza inferiore all’anno (su questa percentuale pesa l’alto numero di minorenni migranti in transito o vicini alla maggiore età), il 29,7% da uno a due anni, il 14,2% da due a quattro anni mentre il 7% ha una permanenza superiore ai 4 anni. «Nessuno, come dice qualcuno, resta in comunità dieci anni», ha spiegato Marelli. «Chi ci resta di più sono i ragazzi di 15-16 anni, che su richiesta dell’interessato e su decisione del tribunale possono usufruire del “prosieguo amministrativo” oltre i 18 anni, fino ai 21, per garantire loro una prosecuzione delle misure di accompagnamento alla vita adulta. Spesso passano al co-housing e a comunità ad alta autonomia: sono misure molto utili».
Appare quindi per lo più condiviso da tutti gli addetti ai lavori che numero e durata degli allontanamenti dalle famiglie di origine non siano una variabile né preoccupante né modificabile, così come le richieste economiche delle case-famiglia non sembrano ulteriormente riducibili. L’esigenza è quella di una redistribuzione sulle spese in modo che non gravino più solo sui comuni, ma anche su Regioni e Stato, con l’istituzione di specifici fondi in modo stabile e non emergenziale.
Su spinta dell’ANCI, sei senatori del Gruppo Misto e in particolare di Liberi e Uguali-Ecosolidali avevano proposto un emendamento al decreto Sostegni-Ter (approvato poi a luglio 2021) che avrebbe trasformato il fondo di 3 milioni stanziato dal governo per i piccoli comuni nel 2021 in 20 milioni l’anno per i prossimi 3 anni (2022-2024). L’emendamento è stato in seguito ritirato e anche nell’ultimo decreto Aiuti-bis è prevista unicamente l’istituzione di un fondo per l’accoglienza a minori non accompagnati provenienti dall’Ucraina.
Ad oggi il fondo non è stato prorogato e molti comuni non hanno un “piano b”.
Simona Minelli, assessora ai servizi sociali di Gubbio che ha presentato la mozione per l’istituzione di un fondo regionale, ha detto: «Anche il fondo precedente, del 2021, è stato poco pubblicizzato e i comuni più piccoli della nostra zona non sono riusciti ad accedere. Le rette per i minori in comunità in zona superano ampiamente i 100 euro al giorno e nel caso di allontanamento di un gruppo di fratelli da una famiglia numerosa le spese possono diventare difficilmente sostenibili anche per comuni delle dimensioni del nostro [Gubbio ha più di 30mila abitanti, ndr], soprattutto perché possono arrivare improvvisamente e non sono pianificabili».
La “zona sociale 7” comprende, oltre a Gubbio, Gualdo Tadino, Fossato di Vico, Sigillo, Costacciaro, Scheggia e Pascelupo: la richiesta è di istituire un fondo regionale a cui attingere in caso di necessità, per garantire pagamenti adeguati e sicurezza dell’assistenza. «In Veneto, per esempio, esiste», ha detto Minelli. «Dopo ripetute richieste per vie istituzionali abbiamo deciso di presentare il problema in consiglio comunale per dargli visibilità, ma dalla Regione Umbria non abbiamo avuto alcun riscontro».