Si possono prevenire i danni da alluvioni?
Dopo i morti nelle Marche si è parlato di "pulire" i fiumi e costruire vasche per raccogliere l'acqua in eccesso: gli interventi possibili sono diversi, ma una soluzione unica non c'è
A causa dell’alluvione di metà settembre nelle province marchigiane di Ancona e Pesaro e Urbino sono morte almeno 12 persone. Ci sono stati grossi danni a case e infrastrutture, tanto che la Regione ha già stanziato un fondo straordinario da 4,2 milioni di euro per sostenere le aziende colpite nell’immediato.
Come spesso succede dopo un disastro naturale, già dal giorno successivo all’alluvione si è cominciato a parlare di come si sarebbe potuto cercare di prevenire i danni e il rischio per le persone. In particolare, sia sui giornali che sui social, si è discusso di tre questioni: la prontezza delle allerte meteorologiche; le mancate “pulizie” degli alvei dei corsi d’acqua coinvolti – principalmente il fiume Misa, alla cui foce si trova Senigallia, e un suo affluente, il torrente Nevola – da legna e sedimenti; e il fatto che non siano ancora state realizzate le vasche di espansione progettate fin dagli anni Ottanta, e questo nonostante i 4 morti e i 180 milioni di euro di danni dovuti a un’altra alluvione avvenuta nelle stesse zone nel maggio del 2014.
Ma nessuna delle tre questioni è semplice come potrebbe sembrare.
Per quanto riguarda le allerte meteorologiche, sono state aperte due indagini, dalla procura di Ancona e da quella di Urbino, per stabilire se siano stati commessi degli errori nel sistema di allerta meteo della Protezione Civile. Il bollettino per il pomeriggio del 15 settembre infatti non segnalava temporali in grado di provocare alluvioni e per questo i sindaci dei comuni colpiti dicono che non erano nelle condizioni per prendere doverose precauzioni.
Saranno le indagini a stabilire eventuali responsabilità, ma i meteorologi che hanno commentato le previsioni fatte per il 15 settembre hanno ricordato che i modelli attualmente usati nel loro campo non consentono di prevedere con precisione dove e quando avverrà un certo fenomeno, perlomeno non sulla dimensione del territorio di un piccolo comune. In generale, «le previsioni non possono essere puntuali e immediate e per questo l’allerta può non arrivare», ha detto Paola Salvati dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRPI): «Riguardo ai terremoti, tutti ormai sanno che non si possono prevedere, mentre si è meno consapevoli di questo limite delle previsioni meteorologiche».
La seconda cosa di cui si è molto parlato è la cosiddetta pulizia degli alvei e delle rive dei fiumi, cioè la rimozione di rami (residui vegetali) e sedimenti dal letto dei corsi d’acqua, oltre che il disboscamento delle zone più prossime. Si tratta in realtà di interventi meno utili di quanto si potrebbe pensare, anzi in alcuni casi potenzialmente dannosi.
«Un conto sono i canali, strutture artificiali che devono essere perfettamente manutenute per funzionare», ha spiegato Andrea Dignani, geomorfologo fluviale e consulente scientifico del WWF di Jesi (Ancona), «ma nel caso di un fiume la vegetazione ne è una parte integrante: purifica l’acqua, mantiene le sponde stabili ed evita l’erosione». Una minore erosione porta anche alla creazione di minori sedimenti lungo il corso del fiume. La vegetazione poi contribuisce a controllare il flusso dell’acqua, e quindi può aiutare con la gestione delle piene, i cui danni sono causati non solo dalla quantità d’acqua che esonda ma anche dalla sua velocità – che peraltro più alta è, più erosione causa, e quindi trasporto di maggiori quantità di fango.
È vero che in caso di temporali la presenza di residui vegetali nel letto di un fiume contribuisce a un più rapido innalzamento del livello dell’acqua, ma come ha sottolineato lo stesso WWF il Misa ha un bacino piccolo e stretto; anche se l’alveo fosse stato “pulito”, l’ingente quantità d’acqua piovuta in molto poco tempo il 15 settembre avrebbe comunque causato un’esondazione.
In corrispondenza di alcuni ponti i tronchi e i rami nel fiume hanno creato un “effetto diga”, ma il vero problema in quel caso non erano tronchi e rami, bensì le luci dei ponti, ha aggiunto Dignani, cioè lo spazio tra i pilastri che li sorreggono: «Deve essere lo stesso dell’alveo, altrimenti è inevitabile che si creino delle cataste».
Secondo gli esperti di idraulica, la rimozione di sedimenti, cioè sabbia e ghiaia, non diminuisce i rischi legati alle alluvioni: può essere utile in situazioni puntuali, ma è difficile prevederne le conseguenze perché i fiumi sono sistemi complessi. Anche per questo eventuali interventi devono essere fatti tenendo conto dell’intero corso di un fiume e non solo di una sua parte.
Nel caso del Misa si è parlato di alcuni lavori che erano stati iniziati e non conclusi nell’ultimo chilometro prima della foce, ma non sarebbero stati risolutivi per evitare tutte le esondazioni e in particolare non avrebbero evitato le morti che ci sono state e che sono avvenute nell’entroterra di Senigallia.
La storia più significativa nel caso dell’alluvione marchigiana, emblematica di come le complessità di un bacino di un fiume si possano sommare a quelle della burocrazia e dei processi decisionali su nuove infrastrutture, è quella delle casse di espansione: cioè vasche collegate al fiume per contenerne parte dell’acqua in caso di piena.
Nel 1985 per la prima volta si pensò di realizzare delle casse di espansione per il Misa a Bettolelle, una frazione di Senigallia che si trova a circa 8 chilometri dalla costa, ma il primo progetto esecutivo risale al 1997. Due anni dopo la competenza passò dalla Regione Marche alla Provincia di Ancona, poi ce ne vollero otto per confermare il progetto, ma non se ne fece nulla. Nel 2014, dopo l’alluvione che causò 4 morti, il vecchio progetto fu rivisto e nel 2015 iniziò la gara per assegnare i lavori.
Nel 2016 però le competenze tornarono alla Regione, per cui fu necessario un passaggio di consegne che allungò i tempi. Nel 2019 il progetto dovette essere nuovamente rivisto, perché, per altre due piene che c’erano state nel frattempo, servivano altri rilievi e calcoli. Inoltre ci si rese conto di alcuni impatti del progetto sull’abitato di Bettolelle fino a quel punto non considerati, e si fecero ulteriori adeguamenti. Con le novità però si rese necessaria una nuova autorizzazione ambientale, che prese altro tempo. Solo lo scorso aprile infine è stato aperto il cantiere, con durata dei lavori prevista di quasi un anno e mezzo.
Negli anni hanno contribuito alle lungaggini del progetto anche i ricorsi delle persone a cui erano stati espropriati dei terreni per realizzare le casse, secondo cui gli indennizzi erano troppo ridotti. C’è anche un’inchiesta della procura di Ancona per turbativa d’asta che riguarda tra le altre cose le casse di Bettolelle.
Ma anche se fossero già state pronte, le casse non sarebbero state sufficienti per contenere l’alluvione di metà settembre, ritengono gli esperti, vista l’eccezionalità delle piogge. E inoltre sono pensate per proteggere Senigallia, la città sulla foce del Misa: non avrebbero potuto far nulla per le località più a monte, come Pianello di Ostra e Barbara, che sono quelle in cui sono morte delle persone.
«Gli interventi strutturali, come le casse di espansione e l’innalzamento degli argini, sono quelli di cui si parla di più, ma sono solo una parte delle cose che si possono fare per cercare di limitare i danni», ha commentato Barbara Lastoria, ingegnera idraulica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). E sono i più complicati per costi e tempi di realizzazione, che per rispettare le regole sulle verifiche e le autorizzazioni sono lunghi anche in casi meno estremi di quello delle casse di Bettolelle.
Dignani ritiene che per questo una delle cose che si potrebbero fare per cercare di prevenire i danni di future alluvioni è proprio ridurre la complessità e la lentezza delle autorizzazioni, pur continuando a effettuare i doverosi controlli ambientali: «La piena non aspetta i tempi della burocrazia».
Una soluzione unica e definitiva non esiste per i problemi causati dalle alluvioni, ma tante diverse cose insieme possono migliorare il rapporto tra persone e fiumi, specialmente se portate avanti con un «approccio integrato» ha insistito Lastoria, cioè ragionando sempre su un intero bacino fluviale e non solo su un breve tratto di un corso d’acqua.
Prima di tutto, secondo Salvati e Dignani, si potrebbero installare degli strumenti di monitoraggio meteorologico (come i pluviometri) diffusi nelle aree a rischio idraulico, che mandino aggiornamenti automatici sull’evolvere della situazione. «L’Italia è piena di piccoli bacini come quelli del Misa per cui è più difficile realizzare opere strutturali, sia per i costi che per lo spazio a disposizione. Bisogna studiare tecnologie abbordabili economicamente per i bacini di montagna», ha spiegato Salvati.
Altre opere relativamente a basso costo rientrano nel cosiddetto approccio adattativo. «Se c’è una casa isolata in una zona a rischio, le si può costruire un argine attorno», è uno degli esempi di Dignani: «Le strade possono essere alzate rispetto al livello della campagna circostante, e le centraline elettriche disposte su palafitte per evitare blackout come quello capitato ad Arcevia (Ancona)». Salvati ha aggiunto che chi vive vicino a fiumi e torrenti non dovrebbe vivere al pianterreno (nel caso in cui non si voglia spostare) e che dovrebbe esistere un sistema di assicurazione specifico per le alluvioni sia per le abitazioni che per le aziende, perché subito dopo un disastro ci sia liquidità per gestire i danni.
È inoltre importante aggiornare di frequente i Piano di assetto idrogeologico (PAI) previsti dalla legge per conoscere i rischi di alluvione nei territori e studiare soluzioni per ridurre gli eventuali danni, e farli anche per i bacini più piccoli, ha continuato Salvati.
Una conoscenza più ampia e aggiornata dei territori poi può aiutare a prendere in considerazione tutte quelle attività umane e quei fenomeni che possono aggravare l’impatto di un’alluvione: rientrano nella prima categoria le pratiche di disboscamento e di agricoltura intensiva e il consumo di suolo per realizzare costruzioni, che ne diminuiscono la permeabilità e quindi favoriscono lo scorrere di grandi quantità d’acqua; fa parte della seconda la siccità, a causa della quale il suolo è meno in grado di assorbire tanta acqua in poco tempo.
Iniziative che possono contrastare gli effetti di queste cose sono ad esempio la cosiddetta rinaturalizzazione delle aree più vicine ai fiumi, cioè far sì che tornino boscose. Ma anche la realizzazione di fossati e piccoli laghetti nelle campagne, che contribuiscano a raccogliere l’acqua (e che siano d’aiuto nei periodi siccitosi), e di siepi che ne evitino il trasporto di detriti.
Infine c’è un’ultima cosa che si può fare, «per evitare che ancora oggi ci siano morti in caso di alluvione», ha insistito molto Lastoria: far sapere alle persone come ci si deve comportare in caso di alluvione per essere al sicuro. Nel caso dei terremoti, precauzioni come mettersi nel vano di una porta in un muro portante, o ripararsi sotto un tavolo, o ancora allontanarsi dagli edifici se si è all’aperto, sono note alla maggior parte delle persone, mentre le cose da fare in caso di alluvione sono molto meno conosciute. Dovrebbero esserlo di più anche perché il cambiamento climatico ci espone a una maggior frequenza di fenomeni meteorologici estremi, alluvioni comprese.
– Leggi anche: Cosa bisogna fare durante un’alluvione per stare più al sicuro: le indicazioni della Protezione Civile
Ogni fenomeno meteorologico estremo e ogni territorio (anche lungo uno stesso fiume) hanno caratteristiche specifiche, per cui gli interventi che si possono fare per proteggersi da potenziali alluvioni sono diversi, tuttavia il caso delle Marche è un buon esempio per capire alcune cose in generale su come si potrebbero prevenire, o almeno contenere, i danni. E in quale misura invece non si può fare, perché è inevitabile che in certe condizioni i corsi d’acqua esondino: le attività delle persone hanno ristretto e confinato le aree a disposizione dei fiumi, ma in condizioni naturali i loro spazi sono più ampi dell’alveo – e infatti i geologi distinguono il “letto ordinario” dal “letto di inondazione”.
«Si usa spesso l’espressione “messa in sicurezza del territorio”, ma bisogna capire che non è una cosa del tutto possibile», ha concluso Lastoria, perché i fiumi, per quanto modificabili dall’ingegneria idraulica, non possono essere completamente costretti a seguire categorie umane.