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  • Mercoledì 28 settembre 2022

Quale pacifismo?

Nel suo libro sulla guerra in Ucraina, “Un giorno senza fine”, Annalisa Camilli riflette su un tema su cui è stato difficile dialogare

Le deputate Simona Suriano e Yana Ehm, durante una manifestazione a Roma, l'11 maggio 2022 (© Patrizia Cortellessa/Pacific Press via ZUMA Press Wire, ANSA)
Le deputate Simona Suriano e Yana Ehm, durante una manifestazione a Roma, l'11 maggio 2022 (© Patrizia Cortellessa/Pacific Press via ZUMA Press Wire, ANSA)
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Annalisa Camilli è una dei giornalisti italiani che si sono occupati della guerra in Ucraina andando di persona nel paese. Ha raccontato il conflitto non solo sul sito di Internazionale, rivista per cui lavora, ma anche nel podcast Da Kiev, e ora in un libro, Un giorno senza fine. Storie dall’Ucraina in guerra, pubblicato da Ponte alle Grazie.

Camilli ha raccolto le storie di persone che hanno perso le proprie famiglie nei bombardamenti e di altre che si sono arruolate per combattere, di coloro che sono dovuti scappare e di chi invece ha scelto di rimanere nelle zone di guerra vivendo negli scantinati. Un giorno senza fine è però anche una riflessione sul modo in cui la guerra viene seguita dai giornali e raccontata, sulle retoriche che si usano per farlo e sui dibattiti che genera. Ad esempio quello sul pacifismo: pubblichiamo un estratto del libro su questo tema.

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In Italia il dibattito sul sostegno militare all’Ucraina è stato molto polarizzato: alcuni intellettuali di sinistra si sono espressi in maniera contraria all’invio di armi, altri (in misura minore) hanno invece sostenuto la necessità di appoggiare la resistenza ucraina. Nella polarizzazione non c’è stata spesso la possibilità di tenere aperto un dialogo, l’ho sperimentato sulla mia pelle nell’estate del 2022, quando sono stata invitata a un dibattito organizzato dalla sezione locale di Emergency di Ferrara, insieme al sociologo Luigi Manconi e all’arcivescovo di Ferrara Gian Carlo Perego: il primo si è sempre espresso a favore dell’invio di armi agli ucraini, mentre il secondo non solo è contrario all’invio di armi, ma ha fatto appello per il disarmo.

Il dibattito ha assunto subito dei toni molto accessi, il vescovo si è scaldato ricordando le parole di Benedetto XV che nel 1917 scrisse una lettera ai capi delle potenze coinvolte nella grande guerra, definendo il conflitto “un’inutile strage” e ha ricordato l’esempio di due pacifisti italiani: don Primo Mazzolari e Aldo Capitini. Come nella resistenza italiana ci furono partigiani che rifiutarono di combattere, ma allo stesso modo parteciparono alla guerriglia facendo azioni di boicottaggio che impedirono l’avanzata dei nazifascisti, anche in questo conflitto sarebbe possibile proteggere le persone senza imbracciare le armi, secondo il vescovo.

Mentre Luigi Manconi si è definito “un pacifista concreto” e ha ribadito il suo appoggio all’invio di armi, come conseguenza della presa di posizione di “un militante” che ogni volta deve valutare le forze in campo. “Se non avessimo appoggiato la resistenza ucraina, Kiev sarebbe stata conquistata qualche giorno dopo l’inizio della guerra”, ha detto l’ex senatore.

Per Manconi gli ucraini si stanno “autodifendendo” e per questo devono essere sostenuti. Il vescovo invece ha detto che non è stato fatto abbastanza per evitare la guerra dalle organizzazioni internazionali come l’Onu e dagli altri governi, che ora non si sta facendo abbastanza per riprendere i negoziati, infine ha chiesto che siano aumentati i fondi stanziati per accogliere i profughi e che sia invece diminuita la spesa per gli armamenti e la difesa. Manconi a quel punto ha fatto notare che le due prospettive – quella profetica del pastore e quella concreta del militante – non sono inconciliabili. Si possono fare tutti gli sforzi necessari per chiedere il disarmo, la pace, l’apertura di negoziati, l’accoglienza degna dei profughi, la diminuzione della spesa militare e allo stesso tempo, nella contingenza, appoggiare militarmente la resistenza ucraina per ritardare l’avanzata della potenza che ha aggredito e provare a costringerla a desistere dal suo intento. Ma l’arcivescovo non mi è sembrato convinto che i due punti di vista potessero essere convergere. Per tutto il tempo, ascoltandoli, ho pensato a due libri e a un’immagine.

Il primo è Le tre ghinee di Virginia Woolf, il testo meno conosciuto della scrittrice inglese, che è un saggio sul femminismo e sulla guerra, un libro molto citato anche nel saggio di Susan Sontag Davanti al dolore degli altri. In particolare mi risuonava nella mente quella frase del libro: “Pensare, pensare dobbiamo”. Il pensiero, il superamento della polarizzazione, come tentativo di fermare la guerra, mentre la guerra con i suoi orrori produce anche una paralisi del pensiero. “Pensare, pensare dobbiamo”. Superare le contrapposizioni amico-nemico, le logiche belliche “o con me-o contro di me”. Questo in alcune circostanze è l’unico potere che abbiamo dalla distanza per contribuire un poco a fermare la guerra.

E poi mi sono ricordata di una delle immagini citate nel libro La frontiera di Alessandro Leogrande, un giornalista e uno scrittore morto prematuramente, che è un punto di riferimento per tutti quelli che si occupano di immigrazione in Italia. Nell’ultimo capitolo del libro Leogrande entra nella chiesa di San Luigi dei francesi a Roma e si mette a contemplare il Martirio di San Matteo di Caravaggio, la sua osservazione del quadro diventa una riflessione sulla violenza e sul male assoluto. C’è un vecchio steso a terra: è Matteo. Sopra di lui, mezzo nudo, il sicario che sta per ucciderlo. È lui al centro della scena. Con una mano blocca la vittima, con l’altra impugna la spada. “Caravaggio non ritrae l’uccisione, ma l’attimo prima della mattanza. Decide di fissare sulla tela l’istante prima che la violenza si compia. Sospende il tempo esattamente su quel momento”, scrive Leogrande, che riflette su tutte le altre figure intorno ai personaggi principali: il carnefice e la vittima. Chi scappa, chi urla, chi guarda atterrito. Nessuno è pronto a intervenire.

“La violenza estrema atterrisce”, scrive ancora il giornalista, che poi nota un personaggio sullo sfondo. È un volto in secondo piano, che sarebbe un autoritratto di Caravaggio. Il pittore ha messo in scena il suo sguardo sulla violenza. È un manifesto. “Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro alla tela, accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure sa che tale sguardo è inefficace. Non cambierà il corso delle cose”.

Di fronte alla guerra c’è chi invoca la pace, il disarmo anche in condizioni disperate, può apparire insensato, ma ha la forza di un’utopia, che si contrappone in maniera radicale alla brutalità della violenza, allo stesso modo c’è chi non riesce a non intervenire, pochi in realtà, che provano a frapporsi tra il carnefice e la vittima, rischiando di finire travolti dalla violenza. E infine ci sono quelli che hanno un’unica arma: guardare le vittime negli occhi, riconoscere i carnefici, descrivere la violenza, perché non ci sia una sola versione e la storia non sia raccontata da un unico punto di vista, di solito quello di chi vincerà.