Le proteste in Iran viste dai movimenti delle donne
Stanno discutendo delle conseguenze eccezionali che ha provocato la morte di Mahsa Amini, definita da loro un «femminicidio»
di Giulia Siviero
Le proteste in corso in Iran contro il regime e la polizia religiosa, responsabili secondo le manifestanti e i manifestanti della morte di Mahsa Amini, avvenuta a Teheran il 16 settembre, sembrano essere in un certo senso eccezionali, nonostante le forme di resistenza al regime, nel paese, proseguano da decenni. Amini è morta in carcere quando era sotto la custodia delle autorità, dopo che era stata arrestata dalla polizia religiosa perché non indossava il velo come prescritto. Uno degli aspetti nuovi, ha commentato la giornalista e attivista iraniano-statunitense Masih Alinejad, è che «questa è la prima volta che queste ragazze non sono sole. Ora gli uomini stanno con loro».
Negli ultimi giorni non si sono allargate solo le proteste in diverse città dell’Iran, ma anche il dibattito su quanto successo, nel quale sono intervenuti diversi movimenti che si occupano di donne e liberazione delle donne.
Anzitutto, diversamente da quanto è successo su molti media occidentali, la morte di Amini è stata definita un “femminicidio” e il risultato delle sistematiche «politiche femminicide» del regime iraniano, che governa in maniera autoritaria il paese ed è guidato da religiosi sciiti. Secondo molti di questi commenti, le proteste si stanno rivolgendo in particolare contro il sistema di oppressione delle donne in Iran, da cui dipendono anche altre forme di oppressione.
Uno dei movimenti più attivi negli ultimi giorni è stato quello delle donne del Kurdistan (KJK): Amini proveniva da Saqqez, nel Kurdistan iraniano. Durante i funerali tenuti sabato nella sua città natale molte donne hanno protestato contro il regime togliendosi il velo e agitandolo in aria, altre si sono tagliate i capelli in luoghi pubblici e molte hanno cantato “Jin Jiyan Azadi”, “Donna Vita Libertà” in kurmanci, il dialetto settentrionale della lingua curda.
Il giorno dopo la notizia della morte di Amini, il KJK ha pubblicato una lunga dichiarazione in cui ha parlato delle «politiche femminicide» del regime iraniano e del «sistema di governo patriarcale» che lo regge.
Il KJK ha ribadito come il controllo sui corpi delle donne e la limitazione della loro libertà non siano elementi collaterali dei regimi oppressivi come quello iraniano, ma ne siano anzi a fondamento. E ha aggiunto come le politiche degli stati «di destra e misogini» trovino «terreno fertile nel sessismo, nel fanatismo religioso, nel settarismo, nel nazionalismo e nei meccanismi di dominazione». Il femminicidio di Amini non sarebbe dunque un caso isolato, ma parte «di un massacro sistemico delle donne» e di una violenza di stato contro le donne che sarebbero peggiorati dopo l’elezione a presidente di Ebrahim Raisi, considerato molto vicino alla parte più conservatrice del regime iraniano.
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Il KJK ha fatto poi un appello a tutte le donne del Kurdistan orientale, ma anche alle donne baloch (che vivono nel Belucistan tra Iran, Afghanistan e Pakistan, ndr), persiane e azere, affinché rafforzino «la loro lotta di autodifesa», e ha aggiunto: «Chiediamo a tutte le donne di tutte e quattro le parti del Kurdistan e all’estero di intensificare la resistenza contro l’occupazione, il colonialismo e la politica dominata dagli uomini».
La morte di Amini è stata commentata anche dal Women Living Under Muslim Laws (WLUML), una rete nata nel 1984 con l’obiettivo di monitorare la condizione femminile nel mondo islamico e che, denunciando l’uso politico della religione, fornisce sostegno alle donne musulmane che intendono contrastare leggi, istituzioni e costumi basati sulla disuguaglianza di genere.
Il WLUML ha detto che Amini «è solo l’ultima di una lunga serie di giovani donne imprigionate o uccise dalle autorità iraniane»; di alcune di loro si ha notizia, di molte altre no. La rete ha sottolineato inoltre l’eccezionalità delle proteste in corso, guidate dalle donne ma a cui stanno partecipando anche molti uomini, e ha definito Amini «il simbolo per una generazione di giovani stanchi di essere maltrattati, messi a tacere e costretti a vivere nella paura».
Azadeh Kian è una sociologa, è la direttrice del Centro di insegnamento, documentazione e ricerca per gli studi femministi all’università Paris-Cité ed è una studiosa dei movimenti di emancipazione femminile in Iran.
In alcune recenti interviste a Libération e su altri giornali francesi ha spiegato che l’obbligo del velo imposto alle donne dal regime è sempre più contestato: «Sempre più donne non solo osano indossarlo male, ma osano non indossarlo in pubblico, soprattutto nelle grandi città». Kian ha raccontato come in Iran si parli ironicamente di “velo convertibile”, che le giovani portano sulle spalle e che si affrettano a mettere sulla testa se vedono la polizia religiosa. Esiste anche un’applicazione, vietata, ma comunque disponibile e utilizzata dal 2016, che avverte della presenza di queste pattuglie lungo il percorso.
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Kian ha spiegato che le proteste in corso in questi giorni sono più radicali e collettive rispetto a quelle del passato più recente. Quasi nessuna delle donne arrestate tra il 2017 e il 2018 per essere salita su una centralina elettrica e essersi tolta il velo legandolo a un bastone aveva una formazione femminista: era più che altro un’azione individuale.
Quelle donne protestavano perché non volevano indossare il velo «senza andare però molto oltre, senza mettere in discussione il regime islamico». Oggi, invece, «riaffiora la volontà di un’azione collettiva» e l’azione collettiva di togliersi il velo è “solo” «la punta dell’iceberg»: quello contro cui si protesta è l’intero sistema di oppressione contro le donne messo in piedi dal regime iraniano, di cui il velo rappresenta un simbolo sia religioso che politico.
Per Kian, dunque, le proteste di questi ultimi giorni possono essere ricollegate ai movimenti di liberazione delle donne che si sono diffusi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso in diverse parti del mondo, dal Marocco all’Iran, dalla Turchia alla Malesia, dall’Egitto al Sudafrica. Come ha spiegato in un libro del 2010 Renata Pepicelli (“Femminismo islamico”), si tratta di «movimenti di donne impegnate a lottare per la libertà e i diritti femminili all’interno di una cornice islamica» e che è possibile descrivere con l’espressione generica di “femminismo islamico”, sebbene, esattamente come per il femminismo nato in altri contesti, le posizioni e le pratiche sono così complesse e differenti tra loro che sarebbe più corretto parlarne al plurale: femminismi islamici.
In generale, secondo Pepicelli, è comunque possibile individuare genericamente tre ragioni che hanno portato alla diffusione del femminismo islamico.
La prima è l’opposizione all’islamismo nelle sue forme più retrograde. Il femminismo islamico si è inizialmente affermato proprio dove l’islamizzazione della società aveva portato alla perdita, per le donne, di una serie di diritti. E non a caso, dice Pepicelli, è l’Iran uno dei primi paesi in cui discorsi femministi islamici si sono sviluppati. Le leggi imposte dalla Repubblica islamica (compreso l’obbligo di indossare il velo) hanno cioè prodotto l’opposizione «non solo tra le femministe secolari ma anche tra molte donne che si sono sentite tradite dagli esiti della rivoluzione islamica».
L’antropologa di origine iraniana Ziba Mir-Hosseini ha scritto, nel 2006:
«Come molte donne iraniane ho fortemente appoggiato la rivoluzione del ’78-’79 e ho creduto nel senso di giustizia dell’islam. Ma quando gli islamisti hanno preso il potere e hanno reso la sharia (o piuttosto la loro interpretazione di essa) legge dello Stato, mi sono ritrovata cittadina di seconda classe. Ho capito allora che non potrà esserci giustizia per me, in quanto donna musulmana, finché il patriarcato sarà giustificato e sostenuto in nome dell’islam»
La seconda ragione è stata una generale critica all’Occidente, e «all’universalismo dei diritti di cui il femminismo occidentale sarebbe una delle espressioni». Il discorso femminista islamico rifiuta infatti l’idea che l’emancipazione femminile sia unicamente quella perseguita dalle donne occidentali e critica chi sostiene che esista un solo tipo possibile di donna liberata dal patriarcato. La questione del velo, a questo proposito, è la più citata e significativa: molte femministe islamiche non lo indossano, ma difendono la libertà di scelta delle donne di indossarlo.
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La terza ragione della diffusione del femminismo islamico, dice Pepicelli, è «il riaffermarsi della religione nella sfera pubblica e privata»: per molte donne, l’islam e i testi sacri dell’islam affermano l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e solo una loro interpretazione misogina avrebbe nascosto questo messaggio, fondando una società patriarcale. Se riletti da una prospettiva di genere, i testi sacri dell’islam diventerebbero dunque uno strumento per rivendicare diritti e spazi. E questo avrebbe permesso a molte donne di non dover scegliere tra islam e attivismo per l’emancipazione.
Negli ultimi anni, in Iran le donne hanno avuto un maggiore accesso all’istruzione, anche quelle di estrazione sociale più modesta, e hanno iniziato a rivendicare collettivamente dei diritti. Ci sono coppie non sposate che convivono, nonostante teoricamente sia vietato, a volte anche con l’assenso di famiglie religiose. La società iraniana, insomma, sta cambiando, mentre il regime no, soprattutto da quando è controllato dagli ultraconservatori.
Oltre la questione specifica di genere, Azadeh Kian conferma che la morte di Mahsa Amini ha funzionato come un catalizzatore. Per le strade, donne e uomini, stanno portando anche altre rivendicazioni: «Molti dei giovani che prendono parte a queste manifestazioni sono disoccupati, e le donne sono tra le più colpite dalla povertà»: nel paese il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e il 50 per cento dei giovani laureati non trova un lavoro. «Oggi abbiamo l’impressione che gli iraniani non possano più respirare. Sono duramente colpiti dalla crisi economica e non sopportano più di ricevere ordini».
Non è chiaro, comunque, a che cosa potranno portare le proteste, dice Kian, e l’abolizione dell’obbligo del velo non è per lei un esito possibile: questo minerebbe infatti uno dei principali «fondamenti ideologici del regime stesso».