Cos’è la polizia religiosa iraniana
È al centro delle proteste dopo la morte di Mahsa Amini: pattuglia piazze e centri commerciali, e ha il potere di arrestare le donne non vestite correttamente
Le grandi proteste in corso in Iran per la morte in carcere di Mahsa Amini si stanno rivolgendo soprattutto contro la polizia morale religiosa iraniana, un corpo istituito nel 2005 per volontà della parte più conservatrice e intransigente del regime iraniano.
Amini è morta il 16 settembre mentre era in carcere. Poco prima era stata arrestata da un gruppo della polizia religiosa (la Gasht-e Ershad) per non aver indossato correttamente il velo mentre si trovava in un parco della capitale Teheran (in Iran il velo per le donne nei luoghi pubblici è obbligatorio per legge). Poi non si sa cosa sia successo: secondo il regime, Amini sarebbe morta per cause naturali, ma successive informazioni sembrano confermare quello che sospettano in molti, cioè che la morte sarebbe stata causata da un pestaggio, forse compiuto proprio dalle forze di sicurezza.
Per questa ragione i manifestanti che stanno protestando contro il regime in diverse città iraniane stanno criticando duramente la polizia religiosa, nota soprattutto per fare interventi in luoghi pubblici relativi al “decoro”, in particolare all’abbigliamento delle donne.
La polizia religiosa iraniana fu istituita ufficialmente nel 2005, dopo l’elezione a presidente del conservatore Mahmoud Ahmadinejad, che allora era vicino al pezzo più conservatore del regime. Il nuovo corpo di polizia fu messo sotto il controllo del ministero della Cultura, che ancora oggi si occupa di “proteggere” l’etica e i valori iraniani, molto spesso attraverso una estesa censura.
Forme precedenti di polizia religiosa esistevano comunque anche prima del 2005, a partire dalla Rivoluzione khomeinista del 1979, quella che mise fine al regime dello scià (alleato con l’Occidente) e istituì la Repubblica Islamica guidata da religiosi sciiti (lo sciismo è uno dei due principali orientamenti dell’Islam, maggioritario in Iran).
Soprattutto nei suoi primi anni, la polizia religiosa era composta da gruppi paramilitari, in particolare da membri del Basij, milizia di volontari che nacque proprio nel 1979 per ordine del leader della rivoluzione, Rohullah Khomeini, con l’obiettivo di combattere nella lunga e sanguinosa guerra con l’Iraq, iniziata nel 1980 e finita solo nel 1988. Dopo la guerra i membri del Basij iniziarono a operare come “controllori” e “garanti della morale” in tutte le università iraniane, sanzionando i comportamenti e gli abbigliamenti ritenuti scorretti, in particolare quelli delle donne. Alcuni di questi miliziani continuano a farne parte o a collaborare con la polizia religiosa.
Oggi la polizia religiosa, stando a quanto se ne sa, è formata per lo più da militari di leva, almeno nella sua componente maschile. Le pattuglie sono solitamente composte da sei persone, di cui quattro uomini e due donne vestite con il chador, un mantello generalmente nero che copre tutto, dalla testa ai piedi. Si muovono con piccoli furgoni e presidiano le zone più frequentate, come centri commerciali, stazioni, piazze: il loro compito principale è quello di verificare il rispetto dei codici di abbigliamento, in modo che «promuovano la virtù e prevengano il vizio».
Possono talvolta redarguire uomini per una barba troppo lunga, ma la loro attenzione si concentra principalmente sulle donne e sul corretto impiego dello hijab, il velo, che secondo la legge iraniana, basata su un’interpretazione della sharia, deve coprire tutti i capelli. Gli agenti verificano anche che i vestiti siano sufficientemente larghi per nascondere le forme: molte donne iraniane hanno raccontato di essere state redarguite o fermate anche per l’uso di rossetto, stivali, jeans strappati o gonne non abbastanza lunghe.
La Gasht-e Ershad ha il potere di arrestare le donne “non vestite correttamente” e portarle in un centro di polizia o “centro correzionale”, dove vengono istruite su come comportarsi e vestirsi secondo le regole morali. Nella maggior parte dei casi vengono rilasciate il giorno stesso, di solito quando un familiare maschio (marito, padre, fratello) viene convocato nel luogo di detenzione. Secondo i racconti delle donne fermate, a volte viene chiesto ai parenti di portare loro indumenti più consoni, altre di firmare dichiarazioni che assicurino che la condotta della donna verrà controllata in futuro.
In alcuni casi le punizioni per le violazioni delle regole possono includere multe, carcere o flagellazione: sono numerose le denunce di abusi da parte della polizia morale durante la fase dell’arresto o della detenzione nei centri correzionali. Dopo la morte di Mahsa Amini la condotta e i poteri delle pattuglie di orientamento sono stati messi in discussione anche da membri del parlamento iraniano, dove sono presenti anche politici non appartenenti alle fasce più conservatrici del regime.
Lo scorso 15 agosto il presidente iraniano Ebrahim Raisi, eletto nel 2021 e di posizioni fortemente conservatrici, ha promosso un’operazione per contrastare «la promozione della corruzione organizzata nella società islamica»: un modo un po’ criptico per segnalare un’applicazione più severa delle norme che regolano la vita pubblica degli iraniani. A metà agosto ha firmato un decreto che stabilisce pene più dure per chi viola le leggi sull’abbigliamento da tenere in pubblico, nonché pene detentive per chi critica online le regole sullo hijab o posta materiale che le violino. Le maggiori restrizioni hanno aumentato gli arresti ma anche le proteste delle donne iraniane, prima online, ora anche in piazza.
Il controllo sull’abbigliamento e la limitazione delle libertà delle donne hanno avuto fasi di maggiore e minore intensità dopo la Rivoluzione islamica, a seconda dell’orientamento politico dei presidenti in carica. Ci sono differenze anche da città a città (Teheran per esempio è generalmente meno conservatrice rispetto ad altre città iraniane).
Nel 1936 durante il regno di Reza Shah Pahlavi, penultimo scià di Persia, hijab e chador furono vietati per legge: la decisione creò un forte calo di popolarità dello scià, e il divieto fu eliminato dal figlio suo successore: le donne che desideravano indossare il velo tornarono a essere libere di farlo. Anche prima della rivoluzione islamica del 1979 l’uso del velo era comune in Iran, ma una parte consistente delle donne del paese vestiva comunemente “all’occidentale”.
Nel 1979 Khomeini decretò l’obbligatorietà del velo sui luoghi di lavoro, estesa poi in ogni luogo pubblico nel 1981, con l’indicazione ulteriore di una preferenza per un «modesto abbigliamento islamico», identificabile nello chador. Due anni più tardi vennero introdotte punizioni, fino a “74 frustate”, in caso di violazione dei codici di abbigliamento.
Nonostante l’intensificarsi dei controlli e l’istituzione delle prime forze di polizia religiosa (anche per evitare il pattugliamento da parte di gruppi non autorizzati e auto- proclamatisi difensori della morale), il regime ha sempre faticato a far rispettare davvero tali regole. Dopo la fine del doppio mandato del conservatore Mahmoud Ahmadinejad, la presidenza del moderato Hassan Rouhani aveva fatto segnare un allentarsi di controlli e repressione. Durante la campagna elettorale del 2013 il partito riformista aveva anche invocato la dissoluzione della polizia religiosa, ma poi nessun passo formale era stato compiuto.
Il ritorno al potere degli ultraconservatori nelle elezioni del 2021 ha riportato la polizia religiosa a un ruolo più attivo e su posizioni più rigide, fortemente contestate nelle proteste in corso in queste settimane. Il colonnello Ahmed Mirzai, importante ufficiale della polizia morale di Teheran, è stato sospeso dall’incarico dopo la morte di Amini.