Come andarono le ultime elezioni
La campagna elettorale che precedette il voto del 4 marzo 2018 fu piuttosto aggressiva e portò al successo di Lega e Movimento 5 Stelle
Domenica si voterà per rinnovare le due camere del parlamento, a quattro anni e mezzo dall’ultima volta: è un periodo lunghissimo per i tempi della politica italiana, il cui andamento è spesso influenzato più dal ciclo settimanale delle notizie che da grandi temi e progetti di lungo periodo. Probabilmente per questo in molti tra quelli che andranno a votare non ricorderanno esattamente come andò nel 2018, quali furono le discussioni più animate durante la campagna elettorale, di cosa si parlò e che conseguenze ebbe l’esito del voto.
Al giorno di quelle elezioni, il 4 marzo 2018, ci si arrivò con un quadro politico diversissimo rispetto a oggi. Il governo di Paolo Gentiloni, ex ministro degli Esteri del Partito Democratico, aveva portato la XVII legislatura praticamente alla sua naturale scadenza, senza scossoni. Il suo governo aveva raccolto l’eredità del precedente, guidato da Matteo Renzi e sempre sorretto dalla stessa maggioranza, composta dal PD insieme a piccoli partiti centristi tra cui il Nuovo Centrodestra di Alfano. Ma aveva anche assunto un atteggiamento più pacato e assai meno esposto dal punto di vista mediatico.
Renzi si era dimesso nel 2016 a seguito dell’esito disastroso del referendum costituzionale di dicembre, su cui aveva puntato tutto il proprio capitale politico dopo anni di logorante battaglia politica soprattutto con il Movimento 5 Stelle, che lo avversava con ritmi quasi quotidiani.
Prima ancora, Renzi era diventato presidente del Consiglio nel 2014 con un’abile quanto spregiudicata mossa nella Direzione nazionale del PD con cui mise in minoranza il presidente del Consiglio, Enrico Letta (ora segretario e tra i principali protagonisti dell’attuale campagna elettorale, otto anni dopo). Di quel passaggio rimase famigerato il tweet di Renzi con cui poco tempo prima della Direzione aveva cercato di rassicurare Letta sulla tenuta del governo e sulle sue buone intenzioni con l’hashtag #enricostaisereno. Letta, che era stato scelto come figura più adatta a formare il cosiddetto “governo delle larghe intese” tra centrodestra e centrosinistra, dopo la Direzione andò immediatamente dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a dimettersi.
L’astuzia politica e l’atteggiamento accentratore con cui Renzi aveva governato da lì in avanti lo avevano reso progressivamente uno dei leader politici più impopolari degli anni recenti. La narrativa basata sul “noi contro loro”, alimentata per primo dallo stesso Renzi, fece gioco all’opposizione del Movimento 5 Stelle, che riuscì a identificare Renzi come la più alta espressione del cosiddetto “establishment” e di un potere politico arroccato e concentrato solo su se stesso.
La sconfitta nel referendum segnò poi l’inizio dell’inesorabile declino politico di Renzi, che in soli due anni passò dal massimo storico di consensi per il PD (40,8 per cento alle Europee del 2014) al 59 per cento dei “no” al referendum.
Il governo Gentiloni cambiò decisamente registro contribuendo a smorzare i toni, ma nel frattempo all’interno del PD ci fu una resa dei conti per mettere pressione a Renzi, che aveva mantenuto la segreteria. In polemica con la linea che aveva introdotto negli anni precedenti, a febbraio del 2017 alcune correnti di sinistra del partito uscirono e fondarono Articolo 1 – MDP (Movimento Democratico e Progressista). Tra gli esponenti più noti c’erano Pier Luigi Bersani, l’ex presidente della Toscana Enrico Rossi e Roberto Speranza. Articolo 1 poi si sarebbe unito insieme ad altre forze politiche di sinistra nel cartello elettorale Liberi e Uguali, che si presentò alle elezioni del 2018 da solo.
Nel centrodestra il clima era più sereno, ma anche in quell’area ci furono in quel periodo profonde trasformazioni che ebbero poi ripercussioni nelle elezioni del 2018. Nel 2013 era stato eletto nuovo segretario della Lega Nord Matteo Salvini, in quel momento un giovane esponente milanese del partito, in ascesa ma con scarsa rilevanza nazionale. Da segretario, negli anni successivi, Salvini cambiò radicalmente le basi e l’identità della Lega: da partito autonomista, federalista, radicato a livello locale, duro sulle politiche migratorie ma più aperto su questioni relative ai diritti civili, lo rese un partito nazionalista e più vicino alle posizioni della destra radicale europea, xenofoba e omofoba. È un processo di trasformazione che è andato avanti anche dopo il voto, e concluso un paio di anni fa.
Silvio Berlusconi nel 2018 era ancora il leader della coalizione, forte del 20 per cento e oltre che aveva preso la volta precedente con il Popolo della Libertà, ma i rapporti di forza stavano cambiando: un po’ per la rilevanza nazionale che Salvini si stava guadagnando con la sua retorica aggressiva, un po’ perché alle elezioni del 2018 neanche poteva candidarsi ufficialmente per effetto della legge Severino (dopo le elezioni del 2013 era stato condannato in via definitiva e la carica di senatore ottenuta era decaduta).
Insomma, a quella data ci si arrivò con tre grossi schieramenti principali: il centrodestra unito, composto da un leader anziano e in fase calante e da due leader più giovani e su posizioni più radicali, Salvini e Giorgia Meloni, che intanto aveva fondato Fratelli d’Italia nel 2012; il centrosinistra, logorato da anni di governo, da scissioni e da una leadership divisiva; e il Movimento 5 Stelle, galvanizzato dalla dura opposizione degli anni precedenti e dal fatto che alle amministrative del 2016 era riuscito a ottenere un ottimo risultato, eleggendo sindaci e sindache per la prima volta in grandi città, tra cui Torino e Roma.
Anche nel Movimento 5 Stelle, comunque, c’era stata una riformulazione della leadership prima del voto, con Beppe Grillo che nel 2017 aveva trasferito il proprio ruolo di capo politico su Luigi Di Maio, votato dalla maggioranza degli iscritti sulla piattaforma Rousseau.
La campagna elettorale che precedette il voto fu particolarmente aggressiva, per certi versi ancor più di quella a cui abbiamo assistito in queste settimane. Il Movimento 5 Stelle era ancora battagliero, e veniva a sua volta pesantemente attaccato sia da destra che da sinistra. Nel PD c’erano frequenti polemiche interne, una delle quali, particolarmente animata, fu provocata dal modo in cui Renzi fece le liste elettorali, prevalentemente composte da esponenti a lui vicini.
Ci furono poi almeno due fatti di cronaca che occuparono a lungo l’attenzione della campagna elettorale, spingendo i vari leader a esprimersi in merito e attaccarsi l’un l’altro. Il 31 gennaio venne ritrovato a Macerata il corpo di una ragazza di 18 anni, Pamela Mastropietro, che era scomparsa da due giorni. Si scoprì che era stata smembrata e il suo corpo messo in due valigie abbandonate in un fosso, e che il principale sospettato era un 29enne nigeriano, Innocent Oseghale (venne arrestato e condannato in primo grado l’anno seguente).
Fin da subito la propaganda della destra si concentrò su questo caso, con toni in certi casi anche molto violenti. Matteo Salvini su Facebook scrisse: «Immigrato nigeriano, permesso di soggiorno scaduto, spacciatore di droga. È questa la “risorsa” fermata per l’omicidio di una povera ragazza di 18 anni, tagliata a pezzi e abbandonata per strada. Cosa ci faceva ancora in Italia questo verme? Non scappava dalla guerra, la guerra ce l’ha portata in Italia. La sinistra ha le mani sporche di sangue». Le reazioni a queste affermazioni furono altrettanto accese e indignate.
La vicenda ebbe ulteriori strascichi, perché appena tre giorni dopo il ritrovamento di Mastropietro un 28enne neofascista, Luca Traini, venne arrestato dopo che era andato in giro per Macerata e dintorni sparando a persone straniere per strada. Sei furono ferite, e il fatto aumentò ancora di più il livello dello scontro politico. Intervenne anche il presidente Gentiloni, dicendo che «lo Stato sarà particolarmente severo verso chiunque pensi di alimentare una spirale di violenza». Salvini, invece, pur condannando la violenza, addossò la colpa nuovamente ai migranti: «È chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale».
Il clima polarizzato in ultima analisi giovò alle forze politiche più radicali e “antisistema”, ossia la Lega e il M5S. Entrambi i partiti presero percentuali maggiori rispetto a quanto ci si aspettava, 32,7 per cento per il M5S e 17,4 per la Lega. Il Partito Democratico invece prese il 18,8 per cento, risultando il secondo partito ma andando peggio rispetto alle previsioni. Renzi si dimise da segretario e si aprì un periodo di reggenza dell’ex ministro Maurizio Martina.
Anche Forza Italia prese una percentuale leggermente inferiore – 14 per cento – rispetto a quella che le attribuivano i sondaggi prima del voto. Stando al regolamento interno, il nuovo leader del centrodestra diventò quindi Salvini, ma in qualche occasione Berlusconi dimostrò di accettare questo fatto un po’ controvoglia. Una circostanza assai ricordata anche in seguito fu la conferenza stampa dopo le consultazioni al Quirinale, durante la quale parlò Salvini ma Berlusconi improvvisò una specie di show.
L’esito delle elezioni decretò un grande successo del Movimento, ma costituì anche una specie di rompicapo per i leader del partito. Tutta la campagna elettorale del Movimento si era basata sulla loro “purezza” rispetto agli altri partiti e sulla promessa che non si sarebbero mai alleati con nessuno. Tuttavia, dopo il 4 marzo, fu subito chiaro che se avessero voluto governare avrebbero dovuto accordarsi con il PD o con il centrodestra.
Inizialmente sembrava che la prima ipotesi potesse avere qualche concretezza, ma poi sfumò perché il PD era convinto che gli elettori lo avessero «messo all’opposizione». L’altro interlocutore possibile era la Lega, ma senza il resto del centrodestra, in particolare Berlusconi, con il quale il M5S si rifiutò di trattare.
Quando iniziarono le consultazioni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si prese tutto il tempo necessario per far dialogare i partiti e trovare una soluzione politica allo stallo. Dopo due mandati esplorativi e trattative durate quasi tre mesi, Lega e Movimento riuscirono infine ad accordarsi per formare un governo, indicando come presidente un nome terzo, l’allora sconosciuto Giuseppe Conte. Come da prassi, Mattarella si riservò la possibilità di porre veti sulle nomine nei ministeri più rilevanti: Economia, Giustizia, Difesa, Interno ed Esteri. E come accaduto in passato con altri presidenti, Mattarella esercitò questa opzione, chiedendo alle forze politiche di cambiare la loro scelta all’Economia.
Lega e Movimento avevano indicato Paolo Savona, un economista che in passato aveva teorizzato l’uscita dell’Italia dall’euro. Per quanto desideroso di formare un governo politico che rispettasse l’esito delle elezioni, Mattarella decise che la nomina di Savona avrebbe rappresentato un rischio per l’economia del paese che rendeva necessario il suo veto, anche a costo di compromettere un lavoro durato settimane. Chiese un’alternativa a Savona, che non arrivò, e quindi tutte le trattative sembrarono saltare.
A quel punto erano passati quasi tre mesi, e la possibilità di trovare una nuova e diversa soluzione politica era poco plausibile. La decisione di Mattarella provocò una certa indignazione, in particolare tra i politici del Movimento che si videro sfumare davanti la possibilità di andare per la prima volta al governo. Di Maio disse addirittura di voler mettere il presidente in stato di accusa, in quello che fu giudicato un maldestro tentativo – privo di fondamenta giuridiche – di guadagnare consenso dalla situazione. Successivamente lo stesso Di Maio ha rinnegato questo episodio giudicandolo un errore, e oggi si esprime sempre in maniera rispettosa e piuttosto celebrativa nei confronti di Mattarella.
Nonostante le tensioni e le indignazioni, alla fine Mattarella ebbe la meglio e la sua strategia pagò. Dopo giorni in cui sembrò che l’economista Carlo Cottarelli avrebbe guidato una sorta di governo trasversale, la crisi rientrò: il M5S e la Lega decisero che preferivano governare che impuntarsi su Savona, e accettarono le condizioni di Mattarella. Spostarono Savona al secondario ministero degli Affari europei scegliendo il più rassicurante e moderato Giovanni Tria. Il primo governo Conte, ricordato come il “governo del cambiamento”, giurò il primo giugno 2018.