L’espressione “salute mentale” è abusata

Sul New York Times un neuropsicologo spiega perché rischia di sminuire la dimensione patologica di specifiche condizioni e di generare approcci controproducenti

salute mentale
Una scena del film del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”
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Da diversi anni la salute mentale, in Italia e in molti paesi del mondo, è oggetto di attenzioni crescenti e discussioni portate avanti anche in ambiti non specialistici: sui media generalisti e sui social, per esempio. L’obiettivo condiviso è sensibilizzare la popolazione sui rischi associati alle malattie mentali, attraverso messaggi che da un lato incrementino la consapevolezza riguardo alle condizioni che favoriscono lo sviluppo di quelle malattie – tanto più dopo la pandemia – e dall’altro contrastino alcune radicate resistenze culturali alla psicoterapia e alle cure psichiatriche.

Una certa tendenza a evitare parole come «malattia», «problema» e «disturbo», nel tentativo di ridurre i rischi di stigmatizzazione, ha contribuito nel tempo al parallelo successo e alla diffusione della più ampia e generica espressione «salute mentale» (mental health, in inglese). Pur avendo effettivamente reso determinati argomenti più familiari nel dibattito pubblico, questa espressione ha tuttavia generato una serie di incertezze ed equivoci intorno a definizioni che in ambito clinico non presentano ambiguità. E ha favorito, tra le altre cose, un approccio per certi versi contraddittorio e superficiale: che oggi si parli abitualmente di salute mentale alludendo a qualsiasi non meglio specificata condizione soggettiva che la metta a rischio.

In un articolo sul New York Times lo psicologo clinico statunitense Huw Green, specializzato in neuropsicologia, ha scritto della circolazione dell’espressione «salute mentale» in ambienti e canali in cui, pur accrescendo consapevolezze e conoscenze utili tra le persone, pone il rischio di indurne molte a stabilire pericolose equivalenze tra esperienze patologiche e altre che non lo sono. E rischia di favorire sia la diffusione di inappropriate forme di autodiagnosi e autoaiuto, in alcuni casi, sia un eccessivo e immotivato ricorso agli specialisti, in altri.

È un dibattito molto presente soprattutto nel contesto anglosassone, dove rispetto ai disturbi psicologici esistono nella popolazione sensibilità e attenzioni particolari, e meno scetticismi o indifferenza che in altri contesti. Ma riguarda anche altri paesi, inclusa l’Italia, nella misura in cui la «salute mentale» è oggi parte di molti slogan e argomento di interesse crescente tra non esperti, politici, influencer e attivisti digitali, su piattaforme che spesso calcano il dibattito americano, ereditandone sia gli aspetti positivi che i limiti.

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Il punto sostenuto da Green è che la buona intenzione di non stigmatizzare le malattie mentali e descriverle come un fenomeno relativamente comune, in modo da rafforzare sentimenti di empatia e reti di solidarietà, abbia avuto effetti apprezzabili ma anche altri negativi. Su tutti, un’inclinazione a patologizzare esperienze e condizioni – anche dolorose e traumatiche – che fanno parte della normale vita delle persone, e non richiedono di essere necessariamente curate in senso clinico.

Le campagne di sensibilizzazione basate sull’idea che la salute mentale sia qualcosa che riguarda tutte le persone, secondo Green, hanno principalmente due limiti. Uno è che non indicano alcun preciso problema di salute mentale, ossia esattamente ciò su cui dovrebbero sensibilizzare. E l’altro è che affermano una cosa oggettivamente falsa: «Ci sono molte persone che, magari anche solo occasionalmente, la salute mentale non ce l’hanno».

La sensibilizzazione ha in parte beneficiato delle abilità individuali di molti giovani psicologi clinici nell’utilizzo dei social media. Nel Regno Unito, per esempio, la psicologa inglese Julie Smith gestisce profili personali da 3,9 milioni di follower su TikTok e da 1,1 milioni su Instagram. E nel 2022 ha pubblicato un libro di grande successo con consigli pratici tratti dai suoi canali social, intitolato Why Has Nobody Told Me This Before?.

Tuttavia, le più recenti forme di sensibilizzazione sui disturbi psicologici – in parte indotte dalle preoccupazioni sugli effetti della pandemia e dei lockdown sulla popolazione – si sono spesso concentrate sul miglioramento della salute mentale della collettività più che su gruppi specifici di persone o precisi disturbi mentali. Ed esistono dei rischi in questa terminologia apparentemente neutra, secondo Green, che definisce l’espressione «salute mentale» un eufemismo: ossia «ciò che usiamo quando vogliamo nascondere qualcosa».

L’utilizzo di questa espressione – in contrapposizione a quella più esplicita e chiara di «malattia mentale» – ha favorito un’interpretazione dei disturbi psicologici come fenomeno più o meno transitorio: un’alterazione di una condizione di salute altrimenti costante e comune a tutti. Da un lato ha concentrato molte attenzioni verso condizioni patologiche più o meno conosciute, anche solo intuitivamente, come l’ansia e la depressione. Ma dall’altro, secondo Green, ha spostato l’attenzione proprio dalle persone più stigmatizzate: «Quelle con diagnosi di schizofrenia, per esempio», o con sintomi che rendono più difficile una comprensione empatica dei disturbi a cui si riferiscono.

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La sensibilizzazione ha quindi in parte perso di vista l’obiettivo di accrescere tra le persone la consapevolezza delle difficoltà associate a patologie definite e specifiche. E molti esperti di salute mentale – intesa come generico equilibrio psichico da preservare, eventualmente anche attraverso consigli o tecniche di autoaiuto – hanno progressivamente esteso la loro influenza verso ambiti che non riguardano le malattie mentali ma qualsiasi comportamento individuale. Il modo in cui parliamo di salute mentale rischia quindi di diventare pretestuoso, secondo Green, e di sostituire «discussioni più ampie su come dovremmo agire».

L’attenzione verso la propria salute mentale ha portato molte persone, per esempio, a considerare la necessità di avere del tempo libero e prendersi giorni di ferie dal lavoro. Ma avere del tempo libero non richiede necessariamente questo tipo di giustificazione, osserva Green. «Un giorno libero è forse meno valido se non è impiegato per qualcosa che sia stato approvato da uno dei tanti siti che dispensano consigli su come trascorrere un giorno dedicato alla propria salute mentale?».

Esiste una dimensione sociale e morale delle proprie azioni e delle proprie scelte, che non riguarda evidentemente l’esperienza soggettiva dell’individuo ma soprattutto le relazioni che stabilisce con gli altri. E sono scelte e azioni rispetto alle quali l’attenzione verso la propria salute mentale, secondo Green, non dovrebbe essere una motivazione né un ostacolo.

«Aiutare gli altri, costruire profondi legami emotivi che potrebbero a un certo punto dover essere dolorosamente spezzati, buttarsi su progetti politici o creativi a volte esasperanti, a volte maniacali», ha scritto Green, sono scelte che richiedono «un profondo impegno razionale, etico e personale». Non richiedono di essere interpretate in funzione della nostra salute mentale, anche laddove comportino perdita, angoscia e disperazione. Esistono senz’altro esperienze emotive che definiscono particolari malattie, ma esistono anche «molte forme di tristezza legate all’esperienza di essere una persona» e che sono «parte di ciò che rende una vita degna di essere vissuta».

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Alcuni sentimenti sono «inevitabili, intenzionali o moralmente significativi», osserva Green. E in molti casi subordinare le proprie scelte a una prioritaria attenzione verso la propria salute mentale è un tentativo di attribuire autorità clinica a decisioni che riguardano molti aspetti delle nostre vite e richiedono riflessioni più ampie, anche di tipo etico.

Non è nemmeno detto che la psicoterapia sia il miglior modo di preservare la propria salute mentale, né un modo universalmente valido, come alcuni suggeriscono. Green ha citato il caso di Emily Anhalt, una psicoterapeuta statunitense molto popolare sui social, che suggerisce che chiunque dovrebbe provare la psicoterapia: un’idea da tempo sostenuta anche da altri specialisti. Recentemente, prima di cancellare il tweet in seguito alle polemiche, Anhalt aveva anche scritto che la psicoterapia dovrebbe diventare un prerequisito per diventare genitore.

Pur condividendo l’idea che molte persone al momento non seguite da uno psicoterapeuta probabilmente ne trarrebbero beneficio, Green si è detto più cauto in merito all’ipotesi di una prescrizione universale della psicoterapia. Per molte persone sarebbe effettivamente «un valido intervento sanitario», ma la maggior parte della popolazione «semplicemente non potrebbe permettersi di sottoporsi a una lunga terapia». O la terapia potrebbe non adattarsi agli schemi culturali o religiosi di quelle persone. «Vogliamo davvero insinuare che questo comprometta la loro salute mentale o la loro capacità di fare cose come essere genitori?», si è chiesto Green.

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Infine, osservando una certa tendenza a fare riferimento alla salute mentale anche nel dibattito politico americano, Green segnala come questa nozione sia stata utilizzata in tempi recenti in modo a volte pretestuoso e trascurando qualsiasi altra considerazione. Successe nel caso dell’obbligo di indossare la mascherina nelle scuole durante la pandemia, misura ostacolata da molti repubblicani adducendo come giustificazione i rischi per la salute mentale dei bambini.

E succede spesso anche nel caso delle stragi nelle scuole, descritte da molti conservatori non come un problema di accesso alle armi ma come un problema di salute mentale degli attentatori. «È offensivo ascoltare frasi fatte sulla salute mentale dei bambini espresse da una parte dello spettro politico che blocca sistematicamente azioni politiche serie per fermare le sparatorie nelle scuole», ha scritto Green, aggiungendo che non sono stati dimostrati nessi causali tra malattia psichiatrica e violenza armata.

La crescita di attenzioni pubbliche verso la salute mentale dovrebbe essere accolta positivamente, secondo Green, ma a patto di intendere la salute mentale come «un modo tra gli altri di guardare alle nostre vite». E gli specialisti non dovrebbero mai perdere di vista l’obiettivo di permettere alle persone di condurre una vita felice e appagante «senza passare molto tempo con i medici».