Breve storia del velo islamico in Iran
È stato simbolo di liberazione e di oppressione, e negli ultimi anni contro la sua imposizione ci sono state molte proteste
Gran parte delle proteste di questi giorni in Iran contro il regime teocratico che governa il paese riguardano l’obbligo imposto alle donne di indossare il velo islamico, o hijab. Le proteste sono iniziate dopo la morte di Mahsa Amini, una donna di 22 anni morta il 16 settembre a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo, e che secondo i manifestanti è stata picchiata a morte in carcere. In questi giorni, tra le richieste di chi protesta c’è quella di allentare le rigide regole morali che impongono alle donne di indossare il velo, oltre che di sciogliere la polizia religiosa, che si occupa di farle rispettare.
Per questo, le donne stanno avendo un ruolo centrale nella protesta, e da giorni circolano video di iraniane che bruciano il proprio velo e si tagliano i capelli in luoghi pubblici, eventi eccezionali in un paese in cui il dissenso è sistematicamente represso dal regime. Queste manifestazioni contro il velo non sono certo le prime in Iran: il velo islamico è al centro della discussione politica nel paese da quasi un secolo, anche se per ragioni molto diverse tra loro.
Prima della rivoluzione islamica
Il velo islamico divenne un tema di grosse discussioni e divisioni politiche in Iran nel 1936, quando il paese si trovava in una situazione molto diversa da oggi: non era governato da una teocrazia, come ora, ma dal regime secolare dello scià Reza Pahlavi, che prese il potere dopo la Prima guerra mondiale.
Seguendo il modello di altri leader autoritari del tempo, come il turco Kemal Atatürk, lo scià impose una modernizzazione e un’occidentalizzazione forzata dell’Iran. Nel 1936, dopo un lungo periodo in cui indossare il velo era stato scoraggiato, lo scià emise un decreto chiamato Kashf-e hijab, che si traduce come “svelamento” e che vietava definitivamente alle donne di indossare l’hijab e altri veli islamici in pubblico.
Lo scià impose inoltre agli uomini di abbandonare gli abiti tradizionali e di vestirsi all’occidentale, con giacca pantaloni e bombetta.
In quegli anni la stragrande maggioranza delle donne iraniane indossava il velo, e l’imposizione dello scià fu vista come un abuso, anche perché il governo diede ordine alla polizia di far rispettare lo “svelamento” con mezzi duri: le donne che indossavano l’hijab in pubblico venivano spesso malmenate e veniva strappato loro il velo dalla testa. Ci furono grosse proteste, e nelle comunità più conservatrici poteva capitare che le donne evitassero di uscire di casa, pur di non doverlo fare a capo scoperto.
Nel 1941, lo scià fu costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi, che abrogò il Kashf-e hijab e concesse alle donne di vestirsi come desideravano, con o senza velo. Ma il velo rimase uno dei simboli della lotta politica, anche perché lo scià continuava a condurre e a promuovere uno stile di vita secolare e occidentale, e il suo governo, di fatto, metteva in atto discriminazioni attive contro le donne che lo portavano, per esempio negli incarichi pubblici, da cui le donne che portavano il velo erano escluse. Nel frattempo la popolarità dello scià continuava a scendere, soprattutto per le accuse di corruzione contro il suo regime.
La rimozione del velo divenne il simbolo non soltanto della campagna di occidentalizzazione forzata portata avanti dallo scià, ma anche del suo regime autoritario. Indossarlo, invece, divenne un simbolo dell’opposizione: cominciarono a farlo non soltanto le donne appartenenti ai ceti più conservatori, ma anche quelle della classe media, istruite e benestanti, come segno di protesta.
La rivoluzione
Nel 1979 la rivoluzione islamica costrinse lo scià a fuggire dal paese. Al suo posto si installò come Guida suprema (la principale autorità politica e religiosa iraniana) l’ayatollah Ruhollah Khomeini, un noto leader religioso sciita. Khomeini e i suoi inizialmente presentarono la rivoluzione come islamista, ma anche come anti occidentale e, tutto sommato, come un movimento di sinistra, che cercava di porre fine al regime autoritario e agli abusi dello scià. Anche per questo, almeno inizialmente, Khomeini fu piuttosto apprezzato in Occidente, soprattutto in Europa.
In realtà, in pochissimo tempo Khomeini e i rivoluzionari imposero in Iran una rigida teocrazia, estromettendo dai posti di potere i non religiosi che avevano anch’essi contribuito alla rivoluzione (come i comunisti).
Poco dopo aver preso il potere, Khomeini ribaltò completamente le leggi del primo scià e impose a tutte le donne di indossare il velo. Molte delle donne non religiose e della classe media che avevano sostenuto la rivoluzione si ribellarono e protestarono a decine di migliaia l’8 marzo del 1979, in una grande marcia che rimase celebre.
Il regime, che si era appena installato, ritirò momentaneamente l’imposizione del velo. Ma nel giro di pochi anni i rivoluzionari islamici più conservatori consolidarono il proprio potere, eliminando tutti i moderati dal governo e dalle cariche pubbliche, e furono abbastanza forti per tornare a imporre alle iraniane le proprie leggi morali. Nel 1980 alle donne senza velo fu vietato di entrare negli uffici pubblici, e nel 1981 indossare il velo tornò a essere obbligatorio. Una legge approvata due anni dopo instaurò anche delle pene corporali per le donne che uscivano di casa senza velo: 74 frustate.
Nel giro di pochi anni, in Iran, il velo passò da essere simbolo di liberazione dal regime dello scià a simbolo di oppressione del regime degli ayatollah.
Le proteste più recenti
Le proteste contro il velo tuttavia non si sono placate mai del tutto, e nel corso degli anni i movimenti contro le imposizioni morali del regime iraniano sono diventati sempre più numerosi.
La legislazione iraniana prevede ancora oggi la possibilità che una donna che esce di casa senza velo sia punita a frustate, ma si tratta di una pena ormai piuttosto rara, anche se talvolta praticata. Normalmente, la legislazione iraniana prevede una multa (tra i 50.000 e i 500.000 rial, cioè tra gli 1,5 e i 15 euro) o una pena detentiva che può durare tra i 10 giorni e i due mesi.
Ma la polizia religiosa, che ha il compito di far rispettare questo tipo di leggi, ha enorme discrezionalità su come comportarsi e ci sono stati casi di abusi eccezionali, come per esempio donne arrestate a cui sono imposte cauzioni esorbitanti da pagare per uscire di prigione.
Capita inoltre che la polizia religiosa prenda di mira le donne che usano l’hijab, che può lasciare intravedere parte dei capelli e del collo, per spingerle a indossare il chador nero, che è la copertura preferita dalla leadership religiosa perché lascia scoperta soltanto la faccia. In altri casi, le donne che appartengono a minoranze religiose sono prese particolarmente di mira perché si coprono la testa con indumenti non standard.
– Leggi anche: Di cosa parliamo quando parliamo di “velo”
Per questo, davanti a casi come quello che ha portato alla morte di Mahsa Amini, è piuttosto frequente che si sviluppino proteste molto forti.
Le manifestazioni contro l’hijab negli ultimi anni sono state numerose: le più note si svolsero tra il 2017 e il 2018, ispirate dalla foto di una ragazza che, in via Rivoluzione (una delle grandi strade di Teheran), si tolse il suo hijab bianco, lo mise sopra a un bastone e lo sventolò come una bandiera, in segno di protesta. Quel gesto fu uno dei più rilevanti delle proteste per la democrazia di quel periodo, che furono poi represse con la violenza.
The so-called Girls of Revolution Street protest began on December 27th, and with it started Iran’s most robust debate about both women’s rights and religious restrictions in the four decades since the fall of the Shah: https://t.co/4lfGdnqtI9 pic.twitter.com/f8SzVDwYC0
— The New Yorker (@NewYorker) February 8, 2018