Chi vince e chi perde con il dollaro forte
Da mesi la valuta americana aumenta di valore: in Europa, conviene a esportazioni e turismo, ma è un problema per gli acquisti di energia
Da mesi il dollaro ha aumentato il suo valore nei confronti delle altre valute, il che vuol dire che ci vogliono più euro, più yen, più sterline per comprare un dollaro: da qualche tempo ha perfino raggiunto la parità con l’euro, per la prima volta in vent’anni. Questa è la conseguenza della lotta molto aggressiva della banca centrale americana contro l’inflazione, ma anche del fatto che in tempi di crisi il dollaro è considerato un bene rifugio, ossia una sicurezza da avere in caso le cose vadano male dal punto di vista economico.
È una tendenza normale e perfettamente in linea con le tradizionali dinamiche dell’economia. Quando si parla degli effetti di determinati andamenti delle monete, però, si deve mettere in conto che ci sono sempre due prospettive: se un effetto è positivo per uno, sarà negativo per l’altro; se ci perde chi acquista in euro, ci guadagna chi vende in dollari, e viceversa.
Innanzitutto, cosa sta muovendo il dollaro rispetto alle altre valute? Gran parte del recente aumento riflette differenze nella politica monetaria. La Federal Reserve, la banca centrale americana, si sta rivelando piuttosto aggressiva nel contrastare l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato del livello dei prezzi. Ha già aumentato i tassi di interesse cinque volte dall’inizio dell’anno. Gli ultimi tre sono stati sostanziosi e pari ognuno allo 0,75 per cento.
Aumentare i tassi di interesse vuol dire cercare di “raffreddare” l’economia, perché in generale si prendono meno prestiti per comprare cose e quindi il sistema rallenta e i prezzi scendono. Ma significa anche che gli investimenti finanziari negli Stati Uniti diventano mediamente più profittevoli, perché investire lì garantisce tassi di interesse più alti. I titoli americani si comprano in dollari, ed è in questo passaggio che l’afflusso di capitali stranieri ne fa aumentare il valore.
Il dollaro è anche considerato un bene rifugio in tempi difficili e incerti, al pari dell’oro. Gli investitori, spaventati dalle conseguenze della guerra in Ucraina e dai timori di una recessione in arrivo, tendono a fare scorta di dollari, consapevoli del fatto che si tratta della valuta più sicura al mondo perché è largamente improbabile che un’economia come quella degli Stati Uniti possa fallire.
C’è poi una nuova componente tra queste normali dinamiche di mercato e riguarda gli alti prezzi dell’energia. Petrolio e gas si comprano soprattutto in dollari e il fatto che ci siano stati rincari notevoli ha contribuito a scambiarne molti di più rispetto al passato.
Il dollaro si è apprezzato nei confronti di tutte le valute e si vede dall’andamento dell’US dollar index, un indice che misura il suo valore in relazione a un insieme di valute straniere, che hanno un diverso peso nel calcolo a seconda della rilevanza internazionale dell’economia che rappresentano. Tra queste c’è l’euro, che pesa quasi per il 60 per cento del totale di questo gruppo di valute, a seguire lo yen, la sterlina britannica, il dollaro canadese, la corona svedese e il franco svizzero.
È molto importante il confronto con l’euro, che è la moneta dell’area economica più paragonabile agli Stati Uniti. Da luglio le due valute oscillano intorno a una sostanziale parità, dopo vent’anni in cui l’euro è sempre stata la più forte tra le due. Il che vuol dire che, al netto delle oscillazioni giornaliere, che ci vuole un euro per ottenere un dollaro. A inizio anno un euro valeva circa 1,15 dollari e addirittura 1,6 nel 2008.
La sostanziale parità tra le due valute dipende soprattutto dalla differenza con cui la Banca centrale europea e la Federal Reserve americana hanno impostato la loro lotta all’inflazione. La FED si è rivelata piuttosto aggressiva ed è stata una delle prime ad alzare i tassi di interesse. La BCE ha invece un po’ indugiato, anche perché fino a qualche mese fa le origini dell’inflazione erano molto diverse tra Unione Europea e Stati Uniti. Poi però si è finalmente decisa e ha annunciato il più grande aumento dei tassi di interesse della sua storia.
La prospettiva può anche essere ribaltata: a un dollaro forte corrisponde un euro debole. Oltre alle differenze nella politica monetaria, l’Unione Europea sconta infatti una debolezza economica più marcata in questo momento, soprattutto a causa della crisi energetica a cui sta facendo fatica a trovare una risposta comune.
Un euro debole porta con sé tutta una serie di conseguenze. La prima è positiva: le esportazioni europee saranno considerate più convenienti da chi compra in dollari o con valute più forti. Questo perché il tasso di cambio è più favorevole, ci vogliono meno dollari per comprare euro rispetto al passato.
Questo concorre a rendere più competitive le imprese europee, e quindi anche quelle italiane. Gli Stati Uniti sono il terzo mercato di destinazione delle esportazioni italiane, che nel 2021 valevano 61 miliardi di dollari. I settori che hanno esportato di più, e che quindi potrebbero ulteriormente avvantaggiarsi di un cambio più allettante, sono stati quelli della meccanica, della moda, della componentistica e dell’agroalimentare.
Il contro è che, a fronte di esportazioni rese relativamente più convenienti, le importazioni in dollari da parte di chi acquista in euro sono ora più care rispetto a prima. Ci vogliono più euro per comprare merce in dollari. Dagli Stati Uniti l’Italia importa soprattutto beni tecnologici, farmaceutici, minerari e macchinari.
Il rafforzamento del dollaro ha colpito anche gli acquisti di energia. Il petrolio si compra solo in dollari e più il dollaro è forte più euro serviranno per comprare un barile di petrolio. In passato le oscillazioni del prezzo del greggio erano attutite da un cambio favorevole. Per esempio quando nel 2008 il prezzo del barile era arrivato a 144 dollari, con il cambio favorevole all’euro il prezzo finale in Europa era di soli 97 euro. Oggi gli aumenti non sono più attutiti da un euro forte e incidono direttamente.
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A questo si aggiunge il fatto che, per compensare le minori forniture di gas russo, l’Italia ha ad esempio previsto maggiori importazioni di gas liquefatto dagli Stati Uniti, quindi anche in questo caso ha pagato in dollari.
Per il turismo valgono le stesse considerazioni fatte per importazioni ed esportazioni. Saranno meno convenienti i viaggi e gli acquisti negli Stati Uniti ma, al contrario, visitare e fare acquisti in Italia sarà più conveniente per i turisti americani. E questo, vista la forte ripresa dei flussi turistici e il sostegno che questi garantiscono a vari settori dell’economia, può rappresentare un vantaggio.