Odessa non è solo Odessa
«È questo che, in fin dei conti, mi pareva normale quando fumavo narghilè chiacchierando con Stefano sulla Deribasovskaya e scendendo verso il porto sulla scalinata Potemkin: mi pareva normale immaginare la vita, andare – se non altro con la mente – dove diavolo mi pareva. Eppure, a suon di missili e bombe, ci stanno ricordando che normale non è per niente».
A Odessa c’è un porto, e nel porto ci sono piroscafi che arrivano da Newcastle, da Cardiff, da Marsiglia e da Porto Said; ci sono neri, inglesi, francesi e americani. Odessa ha conosciuto periodi di splendore, ora vive un periodo di decadenza, una decadenza poetica, impotente e in certa misura rassegnata.
“Odessa, – dirà alla fine il lettore, – è una città come tutte le altre, siete voi a essere eccessivamente parziale”.
Sarà anche così, io sarò parziale, forse deliberatamente, ma, parole d’honneur, in questa città c’è qualcosa. E questo qualcosa lo coglierà l’uomo autentico, che dirà che la vita è triste, monotona – tutto è vero, – tuttavia, quand même et malgré tout, Odessa è straordinariamente, straordinariamente interessante.
Questo è un breve stralcio dell’introduzione di Isaak Babel’ ai suoi più famosi e magnifici racconti, omonimi della città. Era ancora così, fino a questa primavera, quasi un secolo dopo. Odessa intendo. Ci passai qualche giorno, nove anni fa. Io e Stefano – amico e fotografo – eravamo lì in attesa di salire su uno scalcagnato scuolabus americano degli anni settanta per farci trasportare fino a Ulan Bator, in Mongolia, pagati da una rivista. Passeggiammo e fumammo narghilè sulla Deribasovskaya, andammo a cercare indizi di Benja Krik e la banda di mariuoli di Babel’ in ciò che restava della Moldavanka, chiacchierammo con un addestratore di aquile in cima alla scalinata Potemkin, andammo ad ascoltare un gruppetto di musica folk americana in un locale sotterraneo.
Sembrava normale passeggiare per le strade di una città ai confini dell’oriente, mangiando cibi di ogni nazione, ascoltando musica americana, chiacchierando di viaggi e immaginando nuove avventure. Quando il 24 febbraio ho appreso dell’invasione dell’Ucraina, lo sbigottimento si è trasformato subito in una domanda: come possono degli esseri umani fare qualcosa del genere ai loro simili? Mi è venuto alla mente che un’identica domanda la pone Tolstoj alla fine di Guerra e pace, nella seconda parte dell’epilogo.
Quando arrivi a quella domanda, ti rendi conto che forse il romanzo non ha fatto altro, per tutte le mille e quattrocento pagine precedenti, che tentare di trovare un senso, se non una risposta, a questa domanda. Durante l’intero testo il narratore prende di tanto in tanto posto sul palco e pone domande e tentativi di risposte sul senso dei più minuscoli fatti che la sua straordinaria immaginazione sta cercando di dipingere. Ci vanno spesso di mezzo gli storici, con le loro – a detta del narratore – traballanti teorie. Ritroviamo quella voce all’inizio dell’epilogo, in cui ridicolizza le idee di reazione, di caso, di genio: tutte baggianate per dare un nome a ciò che loro, gli storici appunto, non riescono a spiegare. Poi torniamo per qualche manciata di pagine sui nostri personaggi: rivediamo Nataša e Pierre sposi, vediamo avvicinarsi e sposarsi Nikolaj e Mar’ja, li ammiriamo tutti insieme felici a Lysye Gory… come a dare un ultimo contentino a quei lettori che sono ancora lì per seguire la storia. (“Sì… oh Dio, sì… il romanzo racconta una storia”, fa dire E. M. Forster nel suo Aspetti del romanzo a un ipotetico lettore, con un velo di scoraggiamento, strappando un sorriso a chi passa la vita sui libri e a cui le storie, in effetti, sono venute un po’ a noia). Poi, nella seconda parte dell’epilogo, Tolstoj finisce per fregarsene di tutti i lettori passati, presenti e futuri, di tutte le più moderne teorie sullo show, don’t tell, e parte per l’ultima e più lunga delle sue catene di pensieri, in cui, una volta per tutte, a prova di deficiente, spiega cosa abbiamo letto fino a quel momento. Pone una serie di domande e dà, scientificamente, una serie di definizioni, che qui schematizzo:
- Che cos’è la Storia? → La cronaca dei movimenti dell’umanità.
- Quale forza muove l’umanità? → Il potere.
- Che cos’è il potere? → Il regime di sospensione della responsabilità tra un comandante e un popolo. (Il popolo cioè, e l’esercito, compie azioni – abominevoli o meno – perché comandato; il comandante ordina quelle azioni perché a sua volta sostenuto dal potere del popolo).
Ed eccoci al punto cruciale, dove infine anche Guerra e pace va a sbattere: alberga, nell’individuo, la libertà? La risposta di Guerra e pace è secca e decisa: no. La Storia ha le sue necessità, e sono superiori alle misere volontà umane. O meglio: tra la necessità storica e la libertà personale esiste un rapporto di inversa proporzionalità. Più sei libero e meno sei soggetto al potere della necessità storica, dunque isolato, e viceversa. Putin – tanto per restare appesi ai nostri tempi – non appare dunque, attraverso la lente di Tolsoj, un pazzo o un criminale o un genio: più un burattino, sbigottito forse non meno di tutti noi dalla piega degli eventi.
Non lascia insomma Tolstoj molta speranza a noi umani, stretti nella ridicola illusione di essere liberi. Un suo contemporaneo, d’altronde, non sembrava essere molto d’accordo: la vita è buffa, no? Passano decenni, forse pure generazioni, senza che si legga una frase – o si ascolti una nota, o si ammiri una pennellata – che davvero meriti di resistere all’attacco dei secoli, poi si decide di far nascere nello stesso momento e nella stessa terra i due più grandi romanzieri di tutti i tempi (con l’unica eccezione, diciamolo per onestà, di Marcel Proust), e di non farli, però, mai incontrare. È così, per chi non lo sapesse: Lev Tolstoj e Fedor Dostoevskij, pur vivendo negli stessi anni e avendo amici in comune, non si sono mai detti una parola, non hanno nemmeno mai incrociato lo sguardo. Non è manco vera la teoria di qualche tavolo o salottino (sentita con le mie orecchie) secondo cui non si piacessero. Non è vero, si ammiravano molto, e il più presuntuoso e testardo dei due – Tolstoj ovviamente – è morto nella piccola stazione di Astapòvo lasciando aperto sulla sua scrivania un libro: I fratelli Karamazov. La questione però è più fastidiosa di così: i due sono stati nella stessa sala, nel 1878. Alla conferenza di un filosofo, per l’esattezza, Vladimir Solov’ëv. Ce lo racconta, tra gli altri, la seconda moglie di Dostevskij, Anna, nel suo splendido Dostoevskij mio marito. Dostevskij vide un amico, Strachov, e tentò di avvicinarlo, ma questo sgattaiolò via. Qualche giorno dopo, invitatolo a cena, Anna chiese conto del suo strano comportamento, gli domandò se per caso lo avessero offeso. Lui si schermì, scoppiò a ridere, disse che era alla conferenza con Tolstoj, che però era di cattivo umore e gli aveva chiesto di non parlare con nessuno.
Quando dico che la vita è buffa. Ma come, metti due cervelli come quelli nella stessa stanza e non li fai manco incontrare? Nemmeno un gesto, una frasetta da scolpire in qualche libro, una stramba battuta su cui sorridere e interrogarsi per secoli? Dostoevskij, benedett’uomo, redarguendo Strachov, arrivò a dire che gli sarebbe bastato anche solo osservarlo. “Qualche volta,” aggiunse Dostoevskij, “basta uno sguardo per avere un uomo nell’animo tutta la vita. Non vi perdonerò mai per non avermi mostrato Tolstoj”. Pure noi.
Tocca stare a bocca asciutta, e immaginarci per conto nostro qualche chiacchierata tra questi due monumenti, come a suo modo ha fatto George Steiner nel suo magnifico Tolstoj o Dostoevskij. E uno dei più grandi battibecchi sarebbe senz’altro stato sull’idea della libertà. Leggendo le opere di Dostoevskij non si riesce forse a trovare un tema su cui l’autore si sia interrogato di più. Non lo fa d’altronde da filosofo o da teorico, come talvolta prova a fare Tolstoj, lo fa attraverso l’impressionante varietà di sfumature dei suoi personaggi. Non si riesce a trovare un movente più potente e profondo delle azioni e delle parole del principe Myskin, di Raskol’nikov, di tutti i Karamazov e di Stavrogin se non quello di indagare più a fondo possibile i confini della propria libertà personale. Della possibile luce di quella libertà (Myškin), della sua tenebra (Stavrogin) e dei suoi chiaroscuri (Raskol’nikov e i Karamazov).
C’è però in effetti, a guardar bene, un allineamento tra le teorie apparentemente così distanti sulla libertà di Tolstoj e Dostoevskij: l’idea della sua inversa proporzionalità con la necessità storica. Sì, è vero, in ogni tenue sfumatura dei personaggi di Dostoevskij sembra risiedere la dichiarazione che noi esseri umani esistiamo e viviamo per manifestare la propria libertà, siamo uomini perché siamo liberi. Di più, addirittura: il bene e il male esistono per permettere alla nostra libertà personale di manifestarsi. Ecco un magnifico senso al male: è lì per permetterci di scegliere se abbracciarlo o meno. Eppure, per investigare a fondo quella libertà siamo costretti ad allontanarci dal mondo, dunque dalle sue necessità. Lo fa ognuno dei più importanti personaggi di Dostoevskij, a partire dai più distanti: Myškin e Stavrogin, l’uno in una purezza che a qualcuno appare cristiana ma che del cristianesimo perde ogni sfumatura rivoluzionaria ed evangelica, l’altro in un nichilismo che per sua natura rende freddo e distante tutto ciò che ci circonda.
“Veniamo tutti dal Cappotto di Gogol’” avrebbe detto un giorno Dostoevskij. Molti hanno pensato che la dichiarazione avesse origine stilistica; altri che riguardasse quel suo particolare realismo, il suo continuo, implicito giudizio sulla società. E se invece Dostoevskij avesse intuito che Gogol’, prima di chiunque altro, aveva con i suoi testi tentato di investigare proprio l’intercapedine che lui e Tolstoj si erano arrabattati per illuminare con le loro opere più ambiziose? Riassumendo fin troppo il possibile battibecco dei due monumenti russi – e trovando un possibile punto d’incontro – potremmo affermare che forse avevano scoperto un fatto più semplice di quanto non apparisse: che il confine della nostra libertà non è altro che il confine della nostra epidermide. Là fuori i sospiri della Storia e le sue necessità, qua dentro – nelle nostre viscere, o più probabilmente all’interno del nostro cranio – l’immenso spazio del tutto possibile.
Se così fosse, è vero che Gogol’ ce lo dimostra bene nel suo forse più grande capolavoro, Il cappotto (o La mantella che dir si voglia), ma ancor meglio nel suo più assurdo testo, Il naso. Mentre stiamo lì a leggere Il naso, senza riuscire a staccarci eppure bersagliati dai dubbi su tutte le sue incongruenze, finiamo per perdere di vista quale sia il vero protagonista del racconto: la voce che lo narra. I fatti in Il naso certo sono strani, ma ancor più strana è quella voce, così sghemba, così disinteressata a trovare una logica nei fatti che descrive, per poi infine dirci che è tutto assurdo, che certe storie non andrebbero manco raccontate, che sono tutte sciocchezze, ma che, forse, certe cose accadono, “di rado, ma accadono”.
Eccolo là un senso a Il naso e forse a quella dichiarazione di paternità di Dostoevskij per il suo autore: l’incanto della letteratura – l’incanto dell’essere umano – non è nei personaggi e nelle trame, ma nelle menti che osservano quei personaggi e quelle trame: è quella la nostra vera e unica e straordinaria libertà. Non a caso Nabokov, proprio scrivendo di Gogol’, finì per ammettere che “la grande letteratura corre lungo il filo dell’irrazionale”.
La più nota traduzione de Il naso è di Tommaso Landolfi, che è anche forse il più gogoliano dei nostri autori. Nella sua raccolta Il mar delle blatte e altre storie ci porta su una nave di pirati su un mare di scarafaggi, a osservare – tra l’altro – un verme che procura un orgasmo a una giovane fanciulla; ci passa buffe e magnetiche teorie su astronomia e matematica, ci racconta di lupi mannari. La penultima parte del libretto, dedicata evocativamente a Montale, è come una piccola sotto-raccolta, intitolata Teatrino. Il quinto atto di questo teatrino è la conversazione tra due giovani diretti ad Asfu, un pianeta della Nebulosa di Andromeda.
Ma immaginate che io intraprenda un viaggio verso la Nebulosa d’Andromeda. Ecco, sono sicuro di non arrivarci mai, perché la vita non mi basterà a percorrere tanto spazio e morrò prima. Tuttavia io viaggio verso la Nebulosa d’Andromeda, verso Asfu, la brillante città, verso l’Università di Asfu, verso le folle di Asfu che potranno acclamarmi, verso le case da gioco di Asfu, verso i caffè-concerto di Asfu. Però non ci arriverò mai. Ebbene, ecco appunto che cosa intendo per felicità, ecco l’unico modo possibile di concepire la felicità.
Forse anche Landolfi veniva dal Cappotto di Gogol’. Forse Dostoevskij, quando diceva “tutti”, intendeva proprio tutti, anche tutti noi.
È questo che, in fin dei conti, mi pareva normale quando fumavo narghilè chiacchierando con Stefano sulla Deribasovskaya e scendendo verso il porto sulla scalinata Potemkin: mi pareva normale immaginare la vita, andare – se non altro con la mente – dove diavolo mi pareva. Eppure, a suon di missili e bombe, ci stanno ricordando che normale non è per niente. Non nasciamo così, è un’ennesima invenzione dell’essere umano. A qualcuno questa invenzione, a cui noi – forse impropriamente – diamo il nome di libertà, a quanto pare fa paura. Hanno ragione, va detto: non si sa dove può portare. Di certo ha portato l’uomo dov’è, e ha fatto un bel viaggio.
Quando ci viene dunque in mente di lamentarci per le conseguenze di quel che accade in questi giorni a Odessa, quando ci viene da pensare che sul piatto ci sono confini geografici che non ci riguardano, occorre fare uno sforzo per ricordarlo: sono i nostri stessi confini che gli ucraini stanno cercando di difendere, i confini della nostra mente.
(una versione di questo testo è stata letta dall’autore durante una serata al Teatro Romano di Fiesole lo scorso luglio)