Cosa non va nei TED Talk
La nota piattaforma di conferenze è sempre più grande e influente, ma è stata anche molto criticata per il suo stile retorico e pretenzioso
di Riccardo Congiu
TED è una piattaforma che organizza conferenze in tutto il mondo, probabilmente la più nota e influente nel suo genere: sono conferenze che si svolgono solitamente in teatri o altri luoghi adatti a ospitare un pubblico, e interviene un certo numero di persone con discorsi per lo più brevi, quasi sempre tra i 10 e i 15 minuti, invitate dagli organizzatori dell’evento in virtù di una loro competenza su un qualche argomento. L’obiettivo dichiarato degli interventi, chiamati anche TED Talk, è “ispirare” le persone che li ascoltano con «idee che meritano di essere diffuse», come recita il motto principale dell’organizzazione (ideas worth spreading).
Gli interventi vengono sempre registrati e poi condivisi su internet, dove spesso riescono a raggiungere un pubblico assai ampio: molti video di TED diventano virali, e capita spesso di trovarseli di fronte anche senza volerlo, magari leggendo un articolo, scorrendo un social network o facendo una qualsiasi ricerca su internet. I temi sono spesso legati al futuro: quello che mangeremo tra un tot di anni, le tecnologie che useremo, eccetera; ma ci sono anche consigli per sviluppare un’idea imprenditoriale o semplici spunti sull’attualità.
Il format dei TED Talk è di grande successo, esiste da più di trent’anni e ha influenzato moltissimo un certo modo di parlare in pubblico considerato efficace e persuasivo, contribuendo a far conoscere storie interessanti e potenzialmente utili a molte persone. Nell’ultimo decennio però – in concomitanza con il picco della sua diffusione – ha ricevuto anche molte critiche proprio per il suo stile, che secondo molti commentatori finisce spesso per essere troppo retorico e svuotare di significato i discorsi, all’interno dei quali qualsiasi idea, anche la più banale, viene proposta sempre con una certa gravità, come se avesse un qualche valore profetico e di assoluta verità.
A tutto questo contribuisce un “codice” di comportamento e svolgimento che si è ormai imposto in quasi tutti i TED Talk che si vedono, e che li rende molto riconoscibili: lo sfondo nero, un unico fascio di luce che illumina la persona che parla sul palco, le grosse lettere tridimensionali che compongono la scritta “TED” dietro, il telecomandino in mano all’oratore o oratrice per mandare avanti un’eventuale presentazione, le pause durante il discorso per rendere più perentori i concetti.
Lo scrittore e giornalista australiano Oscar Schwartz ha descritto con lunghe argomentazioni sul magazine The Drift cosa secondo lui non funziona nella deriva che hanno preso i TED Talk. C’è un passaggio un po’ ironico del suo articolo che riassume efficacemente le critiche mosse da lui e da molti altri: «Funziona così: ci sono problemi nel mondo che rendono il futuro spaventoso. Fortunatamente, però, ci sono soluzioni per ognuno di questi problemi, e le soluzioni sono state formulate da persone estremamente intelligenti e che hanno a che fare con la tecnologia. Per realizzare le loro idee, basta solo esporle e diffonderle il più possibile. E il modo migliore per diffonderle è attraverso storie».
L’ultimo riferimento è al fatto che i TED cominciano spesso con il racconto di una storia personale, in un modo che secondo Schwartz è diventato in molti casi eccessivamente autocelebrativo e ormai talmente abituale da apparire in certi casi un po’ finto.
Secondo la giornalista Julie Bindel la «gestualità pretenziosa» e le «pause e i tratti del discorso» che contribuiscono a distinguere gli oratori dei TED dalle altre persone che parlano in pubblico hanno finito per diventare più importanti dei contenuti stessi: «Sembra che abbiano imparato l’arte di far apparire complesse le cose semplici». Bindel ha scritto sul Guardian che molti oratori dei TED «affermano in continuazione cose palesemente ovvie», ma lo fanno «come se avessero scoperto di nuovo la teoria della relatività».
C’è poi un problema che riguarda il ruolo informale di TED come “editore”, e la sua capacità di controllare l’efficacia e l’attendibilità di tutti i contenuti che vengono associati al suo nome. Negli ultimi anni le conferenze di TED si sono moltiplicate fino a un punto che per l’organizzazione centrale è diventato molto difficile avere contezza di tutti gli interventi e dei loro contenuti, soprattutto da quando nel 2009 sono stati introdotti i cosiddetti TEDx: eventi di TED minori e indipendenti che potenzialmente chiunque può organizzare, compilando dei moduli online e ottenendo una licenza dopo aver dimostrato di avere un luogo ideale, di poter garantire un certo pubblico, eccetera.
È un processo controllato e molto strutturato, che spesso ha come esito eventi ben organizzati e con contenuti interessanti, ma è chiaro che sono troppi perché lo standard qualitativo rimanga sempre di alto livello: si svolgono in più di cento paesi, e in ognuno ce ne sono decine, se non centinaia ogni anno. In Italia, solo nei tre mesi e mezzo da qui alla fine dell’anno ne sono in programma più di 50, per il momento. A ottobre del 2017 venne raggiunto il traguardo dei 100mila TEDx: quello che chiedono polemicamente i critici è se tutte quelle esposte in questi eventi fossero “ideas worth spreading”.
L’evento TED originale in realtà è uno solo, e si svolge ogni anno a Vancouver, in Canada, con alcune eccezioni. A questo TED partecipano solitamente persone molto ricche e influenti, anche perché i biglietti possono costare dai 5 ai 50mila dollari. Tra gli oratori si ricordano l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, alcune delle persone più ricche al mondo come Bill Gates, Elon Musk e Jeff Bezos, ex primi ministri britannici e molti Premi Nobel.
Poi ci sono altri TED organizzati in diverse città del mondo, alcuni dei quali molto importanti e con biglietti sempre sulle migliaia di euro, e infine i moltissimi TEDx. In nessun evento TED gli oratori vengono pagati e la piattaforma appartiene a un’organizzazione non profit.
Il problema della qualità di quello che viene detto nei TED però esiste anche agli eventi più importanti, e anzi, proprio per la loro importanza se qualcosa va storto le conseguenze rischiano di essere molto maggiori. Il caso più eclatante fu probabilmente quello di Elizabeth Holmes, la fondatrice di Theranos, una startup biomedica fallita dopo che un’inchiesta aveva dimostrato che i suoi prodotti non funzionavano (proponevano un modo per rendere più efficienti le analisi del sangue).
Holmes fece un intervento in un TEDMED (un evento indipendente che opera con una licenza di TED per l’uso del marchio, e che si occupa di argomenti medici) nel 2014, raccontando la storia di Theranos e l’innovazione comportata dalla tecnologia che introduceva: poco tempo dopo però si rivelò una delle più grosse truffe di sempre dell’industria tecnologica. Non era colpa di TED, ma di fatto Holmes si era servita anche del suo funzionamento per attirare attenzioni sulla sua startup e arrivare a una valutazione di 10 miliardi di dollari.
Quel palcoscenico, e il suo pubblico, sono comprensibilmente molto ambiti da chi vuole lanciare un proprio prodotto, anche in buona fede. Secondo Oscar Schwartz però per lo stesso motivo TED è stato anche «una calamita per personaggi narcisisti e in cerca di riconoscimenti per i loro progetti simili a Theranos».
– Leggi anche: La storia di Theranos, spiegata bene
In realtà, nelle intenzioni del suo creatore, inizialmente TED voleva tenere sotto controllo i contenuti anche da un punto di vista che si potrebbe definire editoriale. La storia dell’organizzazione però è stata lunga, e negli anni sono cambiate molte cose.
Il primo TED di sempre fu organizzato a Monterey, in California, nel 1984, da un architetto di nome Richard Saul Wurman e un designer di trasmissioni televisive, Harry Marks. Quest’ultimo era convinto che tre campi distinti del sapere, la tecnologia, l’intrattenimento e il design stessero sempre di più convergendo, e che in futuro questa convergenza avrebbe cambiato il mondo (se pensiamo ad alcune delle aziende più di successo degli ultimi decenni, si può dire che la sua intuizione fosse valida: basta pensare a Apple).
Dall’acronimo delle tre parole inglesi venne scelto il nome dell’evento: Technology, Entertainment, Design. TED nacque negli ambienti della Silicon Valley, il distretto californiano dove oggi si concentra la maggior parte delle grandi aziende tecnologiche, e dove allora avevano già cominciato a stabilirsi: era naturale quindi che si parlasse di futuro, e di un futuro legato in particolare modo alla tecnologia.
Così come la Silicon Valley e le sue aziende influenzarono TED e i suoi argomenti, allo stesso modo TED plasmò il modo in cui quei temi venivano presentati, stabilendo un canone che è valido ancora oggi. Come piattaforma di conferenze più in vista e influente degli ultimi decenni, TED è stata molto coinvolta nella diffusione di una certa idea di futuro promossa dalla Silicon Valley: ma lo ha fatto anche con le idee che hanno fallito.
Di quel TED di Monterey sono rimaste solo due registrazioni, e una è il discorso di un professore del MIT (il Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università tecniche americane) che fa cinque previsioni di tecnologie che sarebbero nate negli anni successivi: libri elettronici, touchscreen, teleconferenze, un’industria di servizi mediata dal calcolo e computer portatili per ogni studente a scuola. Se consideriamo la quarta come una previsione dei motori di ricerca, ne sbagliò una sola, l’ultima (per ora).
Il primo TED dopo quello del 1984 fu organizzato nel 1990, e Wurman decise di introdurre oratori con competenze più varie: tra gli altri c’erano filosofi, musicisti, filantropi e religiosi. Nella sua idea, l’evento doveva essere improntato alla tecnologia e al futuro, ma anche essere divertente e visionario, con poche dimostrazioni pratiche e più prediche. Dal 1990, TED si tenne ogni anno.
Wurman voleva avere sempre un grande controllo su quello che veniva detto nelle conferenze. Stava seduto sul palco durante ogni intervento e se gli oratori divagavano o stavano andando male, li faceva andar via. Nel 2001 si stufò e vendette TED a un imprenditore britannico attivo nel settore digitale, Chris Anderson, grazie al quale negli anni seguenti il successo di TED aumentò.
Negli anni successivi Anderson cominciò a organizzare eventi anche in altre zone del mondo e dal 2005 a pubblicare gli interventi su internet, un’intuizione vincente. Uno dei primi caricati online fu quello dell’educatore britannico Ken Robinson, dal titolo Le scuole uccidono la creatività?, che a oggi è stato visto più di 73 milioni di volte.
Fu in quel periodo, con la maggiore diffusione degli interventi, che i TED Talk cominciarono a distinguersi per il loro stile retorico, anche a causa di una “guida ufficiale” su come tenere un TED Talk pubblicata da Anderson in quel periodo. Nella guida Anderson diceva che chiunque era in grado di tenere un TED Talk: bastava avere un tema interessante e legarlo a una storia motivante.
Oggi TED oltre alle conferenze e ai video produce newsletter, podcast, blog e ha una casa editrice che pubblica piccoli libri con contenuti simili a quelli dei talk. Il canale principale su YouTube ha quasi 22 milioni di iscritti, quello TEDx oltre 36 milioni, i video hanno complessivamente miliardi di visualizzazioni. L’organizzazione guadagna attraverso i biglietti venduti per gli eventi, molte sponsorizzazioni, la vendita dei libri e poi reinveste tutto nei progetti di TED.
Proprio per le sue attuali dimensioni però, secondo i suoi critici bisognerebbe cominciare a guardare TED in un modo diverso: Owen Carter, fondatore di un’impresa sociale che si occupa di migliorare l’istruzione di bambini e ragazzi, ha scritto che la maggior parte dei TED Talk sono ottimi, se li si prende per quello che sono, cioè «intrattenimento». Carter dice che i TED Talk «non sono scienza, non sono prove» e a proposito del suo ambito «non sono certamente una buona fonte per farsi venire idee sull’istruzione».
Una delle critiche più incisive ai TED Talk è stata fatta proprio in un TEDx a San Diego dal teorico dei media Benjamin Bratton, dal titolo “Cosa c’è di sbagliato nei TED Talk”. Nel suo discorso, Bratton raccontò la storia di un suo amico che aveva presentato una complessa ricerca davanti a un donatore per ottenere un finanziamento. Quest’ultimo rifiutò di finanziarlo perché riteneva che la sua presentazione non fosse abbastanza «stimolante». Secondo Bratton, i TED Talk hanno ampiamente influenzato la ricerca di questo genere di «infotainment» di basso livello, cioè l’unione tra intrattenimento e informazione, nel lavoro intellettuale.
Un altro problema è che i TED hanno mantenuto l’intenzione iniziale di raccontare il futuro, ma ormai per molte conferenze è passato abbastanza tempo che si può verificare se le cose che promettevano, o prevedevano, sono poi avvenute. Oscar Schwartz ne fa una questione più ampia, e dice che la mobilità sociale, l’uguaglianza e le altre promesse che hanno fatto per anni certi discorsi sulla tecnologia si sono già rivelati «come semplici fantasie».
Uno dei TED più famosi al mondo, molto condiviso negli ultimi due anni, è quello in cui Bill Gates spiegava nel 2015 che il problema dell’umanità nel breve periodo non sarebbero state le guerre, ma le pandemie, e che ancora i governi non si erano preparati a sufficienza.
La diffusione dell’idea brillante di Gates e di molte altre, dice Schwartz, non hanno affatto cambiato le cose: «Un presidente ha ottenuto l’incarico per il suo talento nel bullismo online. Le auto senza conducente non sono lontanamente diffuse come previsto, e quelle che vanno sulle nostre strade continuano a schiantarsi. Il Covid ha ucciso 5 milioni di persone e ancora ne ucciderà» (i numeri di Schwartz si riferiscono a gennaio di quest’anno).
Spesso inoltre il pubblico non ha le competenze per valutare quello che viene detto su argomenti molto complessi, condensato in 10 o 15 minuti. Nel 2012 il giornalista Martin Robbins scrisse che «il fenomeno TED», più che sulle idee, è «tutto incentrato sul pubblico»: sul far sentire le persone che ascoltano intelligenti e competenti e «dar loro l’impressione di far parte di un’élite che rende il mondo un posto migliore». «Il fatto che l’intelligenza sia facoltativa e che sia necessario essere ricchi e ben collegati per accedere alle conferenze e alle feste ed eventi esclusivi che le accompagnano, non fa che aumentarne il fascino irresistibile».
Naturalmente sono tutte critiche che parlano di una tendenza e che non riguardano ogni singolo intervento nei TED, dove secondo gli stessi critici si trovano spesso anche spunti interessanti senza che necessariamente vogliano spiegare verità da considerare assolute.
Secondo diverse persone che hanno partecipato come oratori ad alcuni eventi in Italia, nei TEDx – quelli più diffusi e comuni – molto dipende dall’organizzazione. La sociolinguista Vera Gheno, che ha partecipato quattro volte, dice di aver notato «un’impronta più o meno professionale, più o meno controllata rispetto ai contenuti» nei vari eventi che ha visto.
Solitamente si viene contattati dall’organizzazione, che spesso lascia una certa libertà sull’argomento specifico da trattare, anche se naturalmente si contatta una certa persona conoscendo la sua area di competenza. Alcune persone che hanno parlato nei TEDx raccontano di aver poi avuto diversi incontri con dei “coach” che ascoltano il discorso e danno una mano a sistemarli se c’è qualcosa che non va: anche questo processo può essere più o meno invasivo a seconda delle organizzazioni dei TEDx.
Gheno per esempio dice di aver sempre fatto poche prove (ma è una persona abituata a parlare in pubblico, come docente universitaria e come divulgatrice sui temi della lingua). «La filosofia con cui li ho sempre fatti è quella di un evento divulgativo, non per forza motivazionale. Uno magari riesce a dare una pillola su un certo tema, che poi fa nascere una curiosità», dice Gheno, «nel complesso ho avuto delle belle esperienze».
Le persone che intervengono sono scelte su giudizio dell’organizzazione di turno, che cerca persone in vista per qualche ragione, che si sono fatte notare per qualche idea imprenditoriale o culturale. Ormai molti TEDx sono anche molto locali, perciò si cerca spesso di invitare persone che hanno legami con il territorio in cui vengono organizzati. Basandosi molto sulla rete degli organizzatori, c’è sempre il rischio che qualcuno venga invitato per uno scambio di favori o meccanismi simili, ma in generale il sistema cerca di evitarlo con la regola che ogni evento deve essere senza scopo di lucro.
Il giornalista Francesco Oggiano racconta di aver partecipato a eventi molto strutturati, uno più come spettatore e uno in cui era stato invitato a parlare con sei mesi d’anticipo rispetto alla data del TEDx. Il suo discorso era stato abbastanza «rivoluzionato» in tre confronti con una “coach”, dice, ma ne era rimasto comunque soddisfatto. Il consiglio che gli era stato dato era quello di trasformarsi da giornalista in «opinion leader».