Le discriminazioni contro i coreani che vivono in Giappone
Il razzismo contro gli “zainichi”, i discendenti dei coreani che si trasferirono nel paese decenni fa, è ancora molto presente nonostante gli sforzi dello stato
di Guido Alberto Casanova
La settimana scorsa una sentenza della Corte Suprema del Giappone ha condannato una società immobiliare di Osaka a pagare un compenso per aver procurato traumi psicologici a una propria dipendente di origini coreane. L’azienda, chiamata Fuji Corp, per anni ha distribuito materiale informativo ispirato ai messaggi xenofobi e anti-coreani dell’estrema destra giapponese al suo personale. Negli opuscoli venivano inserite frasi come “i coreani sono bugiardi” e “nessuno rimarrebbe turbato anche se la Corea sparisse”.
Casi di xenofobia come questo sono relativamente frequenti in Giappone, e mostrano come il paese non abbia ancora fatto pienamente i conti coi propri problemi di razzismo. Negli ultimi anni, tuttavia, le amministrazioni locali e i tribunali stanno adottando misure più rigide per contrastare questi fenomeni, anche se non sempre con successo.
Benché il Giappone sia un paese noto per una forte omogeneità etnica, le minoranze nazionali sono una presenza consistente. Una delle comunità più numerose è quella degli zainichi, cioè quei coreani arrivati nel paese tra il 1910 e il 1945, quando la Corea era una colonia giapponese, e rimasti in Giappone dopo la fine della guerra. A distanza di decenni, e benché ormai siano arrivati alla terza o alla quarta generazione, molti di loro non possiedono ancora la cittadinanza e sono oggetto di discriminazioni ed emarginazione.
Proprio i coreani sono una delle minoranze maggiormente colpite dall’estrema destra, soprattutto a causa degli scontri tra il governo giapponese e quello sudcoreano sulle riparazioni chieste per gli abusi subiti nel periodo coloniale. In Corea, negli anni della dominazione coloniale, il Giappone commise crimini e violenze – tra cui rientrano prostituzione forzata, deportazioni e lavoro coatto – per i quali da almeno un decennio la Corea del Sud chiede giustizia.
Queste rivendicazioni, secondo la visione negazionista dell’estrema destra giapponese, sono un tentativo di infangare la memoria storica dell’impero e di spingere il Giappone in un perpetuo stato di vergogna per il proprio passato. In questo contesto i coreani residenti in Giappone, gli zainichi, sono considerati una specie di quinta colonna nel paese, e oggetto di particolari attacchi e discriminazioni.
Internet è il luogo di preferenza dove l’estrema destra diffonde le proprie teorie revansciste e xenofobe. Grazie a internet la visione razzista e revisionista degli estremisti di destra è riuscita a ottenere una notevole influenza e alcuni successi: sui libri di scuola, per esempio, il racconto degli abusi del periodo coloniale è edulcorato e a volte perfino assente, nonostante le piccole dimensioni di questi gruppi. In un’intervista al Time, il professore dell’Università di Osaka Daisuke Tsuji ha stimato che solo il 2 per cento degli utenti di internet in Giappone appartiene all’estrema destra, ma le loro opinioni sono ampiamente sovrarappresentate.
Le piattaforme online faticano a controllare questi fenomeni: Yahoo! News Japan, il più diffuso sito di notizie nel paese, riceve circa 10,5 milioni di commenti al mese da parte degli utenti ma ha solo 70 moderatori di contenuti. Anche Wikipedia ha un problema simile. Alcuni articoli della versione giapponese dell’enciclopedia online ripropongono una versione edulcorata del passato coloniale. Il titolo della pagina giapponese sul massacro di Nanchino – un episodio della Seconda guerra mondiale durante il quale l’esercito imperiale trucidò almeno 200.000 civili cinesi – invece di usare il titolo più adatto per descrivere gli eventi utilizza l’eufemismo “incidente di Nanchino”, contestando implicitamente la realtà storica documentata.
Questa narrazione negli ultimi anni ha avuto un’influenza non solo su internet. L’anno scorso nella cittadina di Uji, vicino Kyoto, un ventiduenne ha appiccato un incendio in un quartiere abitato da una comunità di coreani zainichi. Sebbene non ci siano state vittime, diversi edifici della comunità sono stati bruciati danneggiando anche alcune proprietà del museo locale che doveva ricordare le vicende dei deportati coreani. Il colpevole, per cui questo non è il primo rogo motivato da odio razziale, ha ammesso di aver deciso di compiere questo attacco per intimorire i residenti zainichi e spingerli ad andarsene. Secondo quanto ricostruito dai media, la sua radicalizzazione sarebbe avvenuta online.
Il sistema giudiziario però sta pian piano cercando di affrontare questi fenomeni e il mese scorso l’attentatore di Uji è stato condannato a quattro anni di carcere, in linea con quanto chiesto dall’accusa per crimini di odio. La sentenza della settimana scorsa contro la Fuji Corp è un altro caso importante, che riconosce la responsabilità dell’azienda nella creazione di un ambiente di lavoro adatto alla proliferazione di incitamento all’odio e atteggiamenti discriminatori.
Tuttavia, la normativa giapponese è ancora poco sviluppata. Una legge contro le discriminazioni, l’Hate Speech Act, è stata approvata solo nel 2016 e la sua funzione principale è di stabilire un quadro normativo all’interno del quale iscrivere nuovi provvedimenti contro l’incitamento all’odio. La legge descrive la discriminazione come inaccettabile ma non impone alcuna punizione per i trasgressori. È quindi toccato alle amministrazioni locali prendere l’iniziativa tramite ordinanze.
Kawasaki ad esempio ha reso l’hate speech un crimine punibile con multe fino a 3.500 euro, mentre Osaka ha emesso un’ordinanza che permette di rendere pubblici i nomi di chi incita all’odio online e di rimuoverne i contenuti da internet. Lo scorso febbraio, con una decisione storica, la Corte Suprema ha stabilito che le misure prese da quest’ultima città non violano la libertà di espressione dei cittadini – come sostenuto dall’estrema destra – ma invece sono una restrizione razionale e proporzionata.
Molti ritengono tuttavia che sia necessario un intervento legislativo più vigoroso, soprattutto da parte delle autorità centrali. Un caso piuttosto noto è stato per esempio quello di Choi Kang-ija, una funzionaria della pubblica amministrazione di Kawasaki che essendo zainichi è stata oggetto di centinaia di attacchi online, pubblicati su blog, forum e social network: quasi tutti questi attacchi sono stati valutati come lesivi dei suoi diritti umani, ma la loro cancellazione è stata estremamente lenta e oggetto di un tortuoso processo burocratico.