L’Ungheria è davvero nei guai con l’Unione Europea?
Il Parlamento Europeo dice che è un'autocrazia, la Commissione potrebbe ridurre i fondi europei e Viktor Orbán è sempre più isolato
Il voto con cui il parlamento europeo giovedì ha definito l’Ungheria di Viktor Orbán «un regime ibrido di autocrazia elettorale» e quindi non più una democrazia, potrebbe avere un seguito concreto domenica, quando la Commissione Europea dovrebbe proporre per la prima volta un taglio dei fondi europei destinati all’Ungheria, attivando il nuovo meccanismo che lega il trasferimento dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto da parte degli stati membri, approvato nel 2020.
Sono due passaggi, il primo molto simbolico, il secondo con effetti molto più concreti, che segnano il sempre maggiore isolamento dell’Ungheria in ambito europeo e che potrebbero rappresentare l’inizio di problemi maggiori per il governo di Orbán.
L’eventuale decisione della Commissione non potrà essere considerata una diretta conseguenza del voto del parlamento europeo, che però nel definire l’Ungheria «una minaccia sistemica ai valori dell’UE» ha invitato il Consiglio dell’Unione Europa e la Commissione a smettere di «finanziare con i fondi di coesione i programmi che contribuiscono alle violazioni dello stato di diritto», e a non sbloccare le risorse del cosiddetto Recovery Fund destinate al paese.
In tutto si parla di circa 22 miliardi di euro che l’Ungheria dovrebbe ricevere dai cosiddetti fondi strutturali dell’attuale bilancio pluriennale dell’Unione Europea, in vigore dal 2021 al 2027, e di circa 7 miliardi stanziati dal Recovery Fund. Non è chiaro quanti soldi possano essere bloccati: due fonti hanno detto a Politico che il blocco riguarderà una «porzione significativa» dei fondi destinati all’Ungheria.
Un’eventuale decisione della Commissione non sarebbe definitiva: aprirebbe un tavolo di trattative, lascerebbe qualche mese di tempo al governo di Orbán per dimostrare di aver avviato riforme reali nei campi contestati, su tutti quello della lotta alla corruzione. Ma renderebbe evidente un cambio di approccio delle istituzioni europee nei confronti dell’Ungheria e del suo primo ministro, le cui violazioni di diversi principi fondanti dell’Unione Europea e la cui retorica euroscettica e filorussa sono state tollerate per oltre un decennio.
Il pronunciamento del parlamento europeo, votato ad ampia maggioranza (433 voti favorevoli, 123 contrari, fra cui i rappresentanti italiani di Lega e Fratelli d’Italia), riguardava un rapporto che individua diversi problemi sistemici nell’Ungheria di Orbán in vari settori: si parla di scarsa indipendenza della magistratura, corruzione, conflitti d’interesse, di un pluralismo dei media svuotato, di scarso rispetto della libertà di culto e di associazione, e di ripetute violazioni di diritti delle persone LGBT+, delle minoranze etniche e dei richiedenti asilo.
Nel 2019 l’Ungheria era stato il primo paese dell’Unione Europea a perdere lo status di “democrazia completa” secondo Freedom House, organizzazione non governativa con sede a Washington che valuta libertà civili e diritti politici. E Transparency International, che invece si occupa di valutare la pervasività della corruzione, la considera il paese più corrotto fra i 27 dell’Unione. Proprio sulla corruzione si concentra l’azione della Commissione che secondo alcune fonti potrebbe bloccare il 70 per cento dei fondi del bilancio 2021-27.
La minaccia non ha lasciato indifferente il governo ungherese: se Orbán in Ungheria continua a utilizzare la sua retorica contro i «burocrati» di Bruxelles, ha recentemente dovuto concedere che separerà «le esistenti differenze d’opinione sulle questioni di genere dai temi economici», annunciando quindi che avrebbe interrotto la campagna, portata avanti da un anno, che sosteneva che le sanzioni dall’Unione Europea fossero causate da una «propaganda omosessuale».
In questi giorni alcuni suoi ministri hanno poi annunciato l’imminente presentazione agli organi europei di una grande operazione anti-corruzione. La reale realizzazione ed efficacia di questi progetti sono da valutare (dovrà farlo anche la Commissione) e negli anni il governo di Budapest ha considerevolmente eroso il suo patrimonio di credibilità, ma la manifestata volontà di trovare una soluzione è già un segno di come Orbán sia cosciente di dover scendere a patti.
In questi anni il leader ungherese, in carica dal 2010 e rieletto più volte, l’ultima delle quali ad aprile, ha portato avanti riforme del sistema giudiziario, dei media e della società civile in aperto conflitto con i principi fondanti dell’Unione Europea, ma continuando a incassare i fondi dell’Unione. Quei fondi hanno finanziato e legittimato una classe dirigente di fedelissimi che controllano i vertici industriali, accademici e dei media ungheresi.
Nonostante abbia cercato e ostentato rapporti diplomatici ed economici con Russia e Cina, nessuna delle potenze è in grado di garantire il sostegno che l’Unione Europea ha fornito all’Ungheria negli ultimi anni. I fondi europei valgono il 3-4 per cento del PIL del paese, i cui principali partner commerciali si trovano ad ovest. Lasciare l’Unione Europea, nonostante i proclami bellicosi, non è mai stata una vera opzione.
Orbán ha invece provato a condizionare l’Unione dall’interno, con i suoi veti e con la creazione di un asse di paesi dell’Est fortemente conservatori, che comprende Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, soprattutto sul tema dei migranti. Ma il cosiddetto “Gruppo di Visegrad”, oggi è molto meno unito che in passato, principalmente per ragioni legate all’invasione russa dell’Ucraina. Gli altri paesi del gruppo, con la Polonia in testa, sono fortemente schierati a favore di sanzioni contro la Russia, mentre Orbán è su posizioni molto più concilianti con il regime di Putin, risultandone il principale alleato in ambito europeo.
Un altro motivo del crescente isolamento del suo governo è la fine del rapporto con il Partito Popolare Europeo, principale forza di centrodestra del parlamento europeo. Fidesz ha annunciato l’addio al PPE nel marzo 2021, evitando così di esserne espulso: era stato sospeso dal partito dal 2019, dopo innumerevoli richiami per posizioni euroscettiche, ma non dal gruppo parlamentare. L’uscita ha fatto sì che gli europarlamentari di Fidesz non potessero incidere sulle questioni più importanti e farsi difendere dai colleghi del PPE. Da allora inoltre Orbán non ha potuto coordinarsi con i leader che appartengono al PPE negli importanti vertici che precedono le riunioni del Consiglio Europeo, cioè l’organo che riunisce i 27 capi di stato e di governo dell’Unione.
Inoltre il governo di Budapest ha perso la protezione, a dir la verità negli ultimi anni sempre meno convinta, dei Popolari. In passato, e in particolar modo sotto la guida dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, Orbán era stato ospitato e difeso dai Popolari nell’idea che fosse più sicuro mantenerlo all’interno di strutture moderate e consolidate piuttosto che permettergli di creare un pericoloso fronte sovranista all’interno delle istituzioni.
Grazie alla protezione politica di cui Orbán ha goduto per anni, numerose cause europee intentate per le modifiche della Costituzione ungherese, per l’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici, per il trattamento dei migranti e dei rifugiati e per lo smantellamento delle organizzazioni non governative avevano portato a poche o nessuna conseguenza, nonostante le vittorie nei tribunali.
Per anni le istituzioni europee sono state accusate da molti osservatori di avere un atteggiamento troppo morbido nei confronti dell’Ungheria: oggi le cose potrebbero cambiare, grazie anche all’unità ritrovata nella definizione delle sanzioni alla Russia. I valori della democrazia e dei diritti civili hanno ritrovato una centralità nelle attenzioni degli organi del governo europeo proprio per reazione alle conseguenze delle azioni di un regime, quello di Putin.
Nei prossimi mesi il governo ungherese presenterà i progetti di riforma nell’intento di sbloccare i fondi strutturali e del Recovery Fund: l’Unione Europea si aspetta un’inversione di tendenza rispetto all’ultimo decennio, ma una reale campagna per estirpare l’ormai endemica corruzione sembrano improbabili ad osservatori esterni e opposizione interna. Bisognerà capire se le aperture verranno ritenute soddisfacenti dall’Unione Europea.