Il massacro di Sabra e Shatila, quarant’anni fa
Nel 1982 le milizie cristiane libanesi uccisero centinaia di civili palestinesi vicino a Beirut, con la complicità dell’esercito israeliano
Il 16 settembre di quarant’anni fa, le milizie cristiane libanesi uccisero un numero mai precisato di civili palestinesi e di sciiti libanesi che si trovavano nei campi profughi di Sabra e Shatila, vicino a Beirut, con la complicità dell’esercito israeliano. Il giornalista britannico Robert Fisk fu tra i primi ad arrivare dopo il massacro e in un famoso reportage lo definì «un crimine di guerra».
Il massacro di Sabra e Shatila si inseriva nel contesto più ampio della guerra civile libanese, iniziata a metà degli anni Settanta. Fino a quel momento il Libano era il paese più ricco, moderno e laico di tutto il Medio Oriente. Era considerato una sorta di modello, visto che entro i suoi confini convivevano in maniera piuttosto pacifica sunniti, sciiti e cristiani, oltre a molte altre minoranze. Nel corso degli anni Settanta il Libano venne attirato nell’orbita dei conflitti tra Israele, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e la Siria. I vari gruppi etnici e religiosi del Libano cominciarono dunque a formare milizie appoggiate dai vari attori regionali e il paese entrò in un lungo periodo di guerra civile.
Nel 1976 la Lega Araba – un’organizzazione di coordinamento e collaborazione politica tra stati del Nordafrica e della penisola araba – approvò l’invio di una “forza di pace” composta in gran parte da truppe siriane, ma questo non servì a fermare gli scontri tra le milizie musulmane, che comprendevano anche gruppi palestinesi, e quelle cristiane alleate con Israele, come le Falangi Libanesi e l’Esercito del Libano del Sud: entrambi i gruppi, per anni, si scontrarono con violenza e commisero massacri contro i civili.
Il governo siriano, più che pensare alla pace, cercò di trasformare il Libano in una base per lanciare attacchi contro Israele. E Israele, con lo scopo dichiarato di espellere i miliziani dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che si erano insediati in alcuni quartieri di Beirut e nei campi di rifugiati, decise di invadere il Libano, nel giugno del 1982.
In quello stesso anno, dopo lunghe trattative mediate dagli Stati Uniti, si arrivò a un accordo fra le parti, firmato il 19 agosto: prevedeva l’abbandono di Beirut da parte dell’OLP sotto la protezione di una forza multinazionale composta da statunitensi, francesi e italiani. L’esercito israeliano e le milizie alleate con Israele assicurarono che non avrebbero attaccato i palestinesi.
Gli Stati Uniti ottennero l’assicurazione anche del primo ministro israeliano Menachem Begin e del presidente libanese Bashir Gemayel, che era stato da poco eletto e che era figlio di Pierre Gemayel, uno dei fondatori delle Falangi Libanesi. Il mandato della forza multinazionale sarebbe dovuto durare un mese, dal 21 agosto al 21 settembre: serviva a garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP da Beirut e a collaborare con l’esercito libanese per mettere in sicurezza tutta la zona delle operazioni.
Nel giro di pochi giorni, però, la situazione precipitò. Il primo settembre l’evacuazione dell’OLP fu completata, e poche ore dopo l’esercito israeliano e le milizie falangiste iniziarono a dispiegare le truppe intorno ai campi palestinesi del paese, andando contro l’accordo mediato dagli Stati Uniti. Il 3 settembre, gli Stati Uniti ordinarono il ritiro delle loro forze, a cui seguì il ritiro dei contingenti francesi e italiani e subito dopo le milizie cristiano-falangiste legate a Israele presero posizione nel quartiere Bir Hassan di Beirut, ai margini dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila dove, secondo la versione dell’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon, erano rimasti duemila guerriglieri dell’OLP.
Il 14 settembre il presidente libanese Bashir Gemayel e altri 26 membri delle Falangi Libanesi furono uccisi in un attentato nel quartier generale falangista. La sera di quello stesso giorno, per ordine del primo ministro Menachem Begin e del ministro della Difesa Ariel Sharon, l’esercito israeliano invase la zona ovest di Beirut, rompendo definitivamente l’accordo. Begin spiegò che l’intenzione era proteggere i rifugiati palestinesi dai possibili attacchi che i gruppi cristiani avrebbero potuto organizzare per la morte di Gemayel, mentre Sharon al parlamento israeliano parlò esplicitamente di un attacco per «distruggere l’infrastruttura creata in Libano dai terroristi» palestinesi.
Gli israeliani cominciarono dunque a militarizzare le zone intorno ai campi di Sabra e Shatila, prendendo il controllo di tutte le uscite.
Il 16 settembre i miliziani delle Falangi e dell’Esercito del Libano del Sud guidati da Elie Hobeika entrarono nel campo e iniziarono a fare strage di civili. Il massacro durò quasi due giorni, fino al 18 settembre, e l’esercito israeliano continuò a circondare il campo per tutto il tempo. I miliziani non commisero soltanto omicidi, ma anche stupri e altri atti brutali. Il numero esatto dei morti non è ancora chiaro. A seconda delle fonti le stime riportano fra le 700 e le 3.500 persone.
Nel dicembre del 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio». Una commissione indipendente confermò le violazioni del diritto internazionale portate avanti da Israele in Libano, mentre la commissione istituita dal governo israeliano indicò come diretti responsabili del massacro i miliziani delle Falangi e come indirettamente responsabili i rappresentanti israeliani coinvolti, innanzitutto Ariel Sharon.
Nessuno venne però processato né condannato per il massacro. Sharon, che si dimise ma ottenne subito dopo un ministero, divenne primo ministro nel 2001. Elie Hobeika ricoprì diversi incarichi nei successivi governi libanesi come ministro o deputato. Morì in un attentato il 24 gennaio del 2002, poco dopo l’apertura di un processo contro Sharon per crimini di guerra che era iniziato in Belgio su richiesta di alcuni parenti delle vittime del massacro. Nel 2003 il processo venne interrotto, e dopo quarant’anni i campi libanesi con centinaia di profughi palestinesi sono ancora lì.