Nel PD non c’è molto entusiasmo

La narrazione di una sconfitta annunciata si è insinuata anche nel partito, e in un diffuso malcontento si parla già di anticipare il congresso

di Luca Misculin

(Vincenzo Livieri - LaPresse)
(Vincenzo Livieri - LaPresse)
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Il Partito Democratico è rimasto ormai l’ultimo grande partito radicato in tutta Italia. Dopo la caduta del governo di Mario Draghi e la convocazione delle elezioni anticipate, a fine luglio, ha mobilitato la sua enorme macchina organizzativa e in pochi giorni migliaia di militanti, dirigenti e funzionari si sono messi a distribuire volantini nei mercati, attaccare manifesti, organizzare raccolte fondi, cene, feste, concerti e tour elettorali per sostenere i propri candidati. Basta grattare sotto la superficie, però, per rendersi conto che l’entusiasmo non è quello dei tempi migliori.

La diffusa narrazione di una sconfitta annunciata si è insinuata anche dentro al partito, e in molti temono l’ennesimo stravolgimento interno, dopo 11 segretari in 15 anni di storia. «Nessuno pensa di vincere», racconta un ex parlamentare rimasto attivo nel partito. La sensazione di molti è che il prossimo congresso, teoricamente previsto per marzo, sarà anticipato all’autunno e che non si limiterà ad analizzare una cocente sconfitta elettorale ma dovrà anche provvedere a una sostituzione dei vertici, e forse a immaginare una nuova direzione da prendere.

Eppure le premesse per il voto del 25 settembre non erano così drammatiche, sulla carta. Ormai da un anno il PD si contendeva con Fratelli d’Italia il posto di partito più popolare nei sondaggi. Il suo segretario Enrico Letta è stato il più autorevole e credibile sostenitore del governo Draghi, popolarissimo secondo tutti gli indicatori del consenso. L’alleanza col Movimento 5 Stelle si stava faticosamente stabilizzando grazie a una serie di candidature condivise alle elezioni regionali e amministrative. La vittoria in una città come Verona, a giugno, sembrava il preludio per la costruzione di un centrosinistra allargato al Movimento 5 Stelle competitivo con la coalizione di destra anche a livello nazionale.

(ANSA/FABIO FRUSTACI)

Secondo diversi pareri il clima all’interno del partito si è guastato con la compilazione delle liste elettorali. A causa della riduzione del numero dei parlamentari e degli effetti della legge elettorale cosiddetta “Rosatellum”, entrambi approvati con i voti del PD, i posti che assicuravano un’elezione erano meno del solito, e cercando di assecondare le varie correnti del partito Letta ha scontentato un po’ tutti creando un malumore diffuso.

Alcune scelte, poi, non sono state spiegate né capite. Un esempio fra tanti: a Milano sono state candidate due persone molto forti a Bergamo, la deputata Elena Carnevali e il viceministro Antonio Misiani, mentre a Bergamo l’unico posto in lista certo di un’elezione è andato a un milanese, il segretario regionale del partito Vinicio Peluffo, e un’altra milanese, la senatrice Simona Malpezzi, è candidata al collegio uninominale del Senato.

Ancora prima il partito era rimasto scontento per la gestione delle alleanze portata avanti da Letta. Il fatto che un terzo dei seggi venga assegnato attraverso collegi uninominali, in cui vince il candidato o la candidata che ottiene anche un solo voto in più degli avversari, spinge i partiti a radunarsi in coalizioni. Quando fu approvata, nel 2017, fu fortemente voluta dal PD di Matteo Renzi. L’allora segretario sperava di ridimensionare molto il M5S – tradizionalmente meno forte nei collegi uninominali rispetto ai partiti che dispongono di coalizioni – mentre importanti dirigenti del partito come Dario Franceschini e Andrea Orlando se la fecero andare bene perché speravano di riproporre un’alleanza il più larga possibile simile all’Ulivo, con cui il centrosinistra si presentò alle elezioni fra 1996 e 2006.

Dopo l’uscita di Renzi dal partito e l’avvicinamento del M5S al PD, Letta aveva effettivamente provato a immaginare un “campo largo” che andava dal M5S fino ai principali partiti centristi, passando per una serie di partiti più piccoli. Alla fine dentro all’alleanza sono rimasti solo questi ultimi: +Europa, il cartello elettorale di Verdi e Sinistra Italiana e Impegno Civico di Luigi Di Maio.

La già fragile alleanza col M5S è stata archiviata dallo stesso Letta in modo molto netto, secondo alcuni dirigenti troppo frettoloso, nel giro di pochi giorni dopo la caduta del governo Draghi. Azione di Carlo Calenda è stato inseguito per molto tempo – era l’unico rimasto libero fra i partiti medio-piccoli – ma dopo un primo accordo, in cui aveva strappato condizioni molto favorevoli su seggi e proposte comuni, ha poi lasciato il centrosinistra per formare un Terzo Polo centrista con Italia Viva di Matteo Renzi.

A prescindere dalle circostanze puntuali, il PD si è ritrovato a gestire quasi da solo il peso di una campagna elettorale da avviare in fretta e furia in piena estate. Anche dal punto di vista organizzativo. Fuori dalle grandi città e dal Nord Italia, gli alleati rimasti nel centrosinistra sono praticamente inesistenti.

«Abbiamo la sensazione di essere rimasti soli», dice un segretario provinciale del partito nel Centro Italia. «Ai nostri eventi a volte ci siamo solo noi. Le forze con cui ci siamo alleati non potranno sovvertire l’ordine delle cose».

A peggiorare il quadro si sono messi i sondaggi. Nelle ultime settimane in cui si potevano diffondere il PD non ha guadagnato alcun punto dal bacino degli indecisi e dagli elettori degli avversari, e ha continuato a perdere terreno rispetto a Fratelli d’Italia. Dai sondaggi pubblicati il 9 settembre, ultimo giorno prima che scattasse il divieto di diffusione previsto dalla par condicio, il PD era staccato da Fratelli d’Italia anche di 3-4 punti. E all’orizzonte non si vedono elementi che possano invertire questa tendenza.

«L’appello al voto utile di Letta non sta funzionando», dice un dirigente del partito molto vicino al segretario. Nei giorni scorsi Letta aveva invitato gli elettori del M5S e del Terzo Polo a votare il PD o il centrosinistra per evitare che la destra stravinca soprattutto nei collegi uninominali. Il timore di alcuni dirigenti del partito è che l’appello abbia ottenuto l’effetto opposto. Dato che Letta ha dato per scontata la sconfitta, ponendo come obiettivo quello di impedire alla destra di stravincere, alcuni potenziali elettori potrebbero sentirsi ancora meno vincolati al PD e decidere di votare per partiti più piccoli alla sua sinistra o alla sua destra, a cui magari si sentono più vicini.

I dirigenti più ottimisti fanno notare che la situazione è comunque molto fluida. I sondaggisti più vicini al partito sostengono che ci siano molti più indecisi fra gli elettori che si sentono vicini al centrosinistra che fra quelli di destra. La campagna di estrema polarizzazione che Letta sta portando avanti ormai da settimane, in cui rientrano sia i manifesti divisi a metà fra rosso e nero sia la scelta di tenere un dibattito pubblico con la sola Giorgia Meloni, potrebbe portare i suoi frutti soltanto negli ultimi giorni di campagna elettorale, senza quindi che i sondaggi riescano a tenerne traccia.

Il manifesto elettorale del PD mostra l’intenzione di Letta di portare avanti una campagna di estrema polarizzazione

Fonti vicine alla segreteria nazionale del PD parlano di un partito più unito di quanto lo si descriva da fuori, compatto e concentrato sull’obiettivo di vincere le elezioni.

Negli ultimissimi giorni poi il partito sembra aver rilevato un aumento di consensi per il M5S in alcune regioni del Sud, a spese dei partiti di destra. Secondo il PD questa dinamica renderà contendibili molti collegi uninominali per il centrosinistra: il M5S infatti non otterrebbe abbastanza voti per eleggere il proprio candidato o la propria candidata nei collegi uninominali, ma impedirebbe comunque ai candidati di destra di essere eletti.

Un membro della direzione nazionale del partito, l’organo intermedio fra l’assemblea nazionale dei delegati del partito e la segreteria, spiega che in caso di un risultato mediocre ma non pessimo alle elezioni del 25 settembre alcuni piccoli risultati potrebbero essere sfruttati da Letta per ridimensionare l’eventuale sconfitta: per esempio la vittoria in alcuni collegi uninominali particolarmente difficili o simbolici.

Realisticamente però il PD potrebbe ottenere un risultato molto meno soddisfacente. Alcuni dirigenti si stanno già portando avanti e immaginano che a meno di una insperata vittoria il congresso nazionale del partito, ad oggi previsto per marzo del 2023, possa essere anticipato all’autunno.

La sensazione è che in questo caso non sarà un congresso come un altro. Negli ultimi anni il PD ha preferito lasciare in sospeso molte questioni strutturali che lo riguardano: come ad esempio la collocazione politica – guardare più a sinistra, come i suoi alleati in Spagna e in Germania, o più al centro come hanno fatto quasi tutti gli ultimi segretari –, il rinnovamento della classe dirigente, l’abbandono o la ripresa dello strumento delle primarie. Ma anche la struttura stessa del partito e il coordinamento un po’ farraginoso fra assemblea nazionale, direzione, segreteria, organi locali.

Negli interstizi di questa struttura fin dalla fondazione del partito sono riusciti a sopravvivere dei capi di fazione, le cosiddette “correnti”, che hanno prima sostenuto e poi fatto cadere ogni segretario, e che non hanno promosso alcun vero tentativo di riforma del partito. Che il PD sia ancora piuttosto prigioniero di queste dinamiche lo testimonia il fatto che i tre ministri espressi nel governo Draghi sono i capi di importanti correnti: Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini. Tutti e tre sono stati ricandidati in posizioni sicure di un’elezione, e il potere che hanno accumulato negli anni per ora non sembra minimamente in discussione. Le correnti esistono in ogni grande partito, ma nel PD sembrano particolarmente impermeabili agli stimoli esterni e ai risultati elettorali.

Queste enormi questioni non sono finora state affrontate da Enrico Letta, ma nessuno sembra fargliene una colpa: rimane stimatissimo dentro al PD, viene ancora considerato una delle sue personalità migliori, ma i problemi del partito sembrano a molti troppo grandi per essere risolti da una sola persona, in carica fra l’altro da poco più di un anno.

In una specie di intervista-retroscena apparsa qualche giorno fa sulla Stampa il ministro del Lavoro Andrea Orlando, ritenuto il leader dell’ala sinistra del partito, ha chiesto che in caso di sconfitta elettorale venga organizzato «un evento rifondativo del campo progressista», e non «un congresso del PD per scegliere un nuovo segretario, magari tra tesi contrapposte. Bisognerebbe invece interrogarsi più a fondo su cosa fa e dove va la sinistra in Europa o nel mondo».

Anche la corrente più moderata del partito, Base Riformista, sembra dello stesso avviso. «Una riflessione sarà comunque inevitabile», spiega Andrea Romano, deputato uscente e portavoce di Base Riformista. «E la riflessione sul segretario è solo un piccolo pezzo di una più ampia che va fatta sul partito. Il congresso non potrà basarsi solo sull’individuazione di un nuovo segretario».

Eppure i nomi dei possibili sostituti di Letta circolano già, nelle chiacchiere e nelle chat del partito. Il più frequente è quello del presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, diventato molto influente dopo avere vinto le elezioni regionali del 2020. Bonaccini ha una storia di solida militanza a sinistra – fu eletto per la prima volta col PDS, l’erede del Partito Comunista Italiano – ma negli ultimi anni si è molto spostato verso il centro. Non è chiaro però quanti consensi possa raccogliere dalle varie correnti del partito, molte delle quali sono ancora in attesa di capire se avrà degli avversari credibili per la segreteria e quali saranno.

Intanto, però, c’è da chiudere una campagna elettorale al meglio delle proprie possibilità. «Pancia a terra» è una delle espressioni più citate per descrivere gli sforzi di questa fase e quelli previsti per gli ultimi giorni prima del 25 settembre.