Perché esistono ancora le monarchie?
Diverse ragioni storiche, economiche e culturali rendono per molti accettabile un sistema di governo per altri illogico e antidemocratico
La morte della regina Elisabetta II e la fine del regno più longevo nella storia del Regno Unito hanno generato, oltre che estese attenzioni e commozione, una serie di riflessioni parallele sul senso, sul valore e sulle prospettive attuali delle monarchie. Sono riflessioni che, rimettendo in circolazione argomenti noti e dibattuti da decenni, tendono a descrivere la monarchia – nelle sue varie forme – come un anacronismo per certi versi inconcepibile nelle società del XXI secolo. Tanto più in un’epoca in cui spesso il potere di quei monarchi è molto limitato rispetto al passato e il loro ruolo è perlopiù cerimoniale.
Su un piano puramente concettuale, tenendo da parte le pur fondamentali ragioni storiche e culturali, a molte persone appare oggi paradossale che in diversi paesi democratici – e quindi basati sul principio di uguaglianza tra i cittadini nell’esercizio del potere pubblico – sia ritenuto accettabile un principio di successione ereditaria, cioè un privilegio di sangue. In alcuni casi, peraltro, quel principio è non solo accettato ma anche gradito: in un sondaggio (pdf) condotto da YouGov nel Regno Unito a maggio, il 62 per cento della popolazione sosteneva la monarchia e solo il 22 per cento dichiarava di preferire un sistema con un capo di stato eletto.
L’impressione condivisa da una parte dei commentatori è che la predisposizione favorevole verso le monarchie da parte della popolazione dei paesi monarchici sia, in ogni caso, influenzata in parte dalla capacità dei sovrani di esprimere valori in cui le persone si riconoscano o a cui ambiscano. E da questo punto di vista, nel caso del Regno Unito, è quindi possibile che il gradimento della monarchia in quanto tale possa in futuro dipendere dalla capacità di Carlo III di raccogliere la complessa eredità storica di Elisabetta II mantenendo un pieno sostegno pubblico.
In generale, gli esperti che cercano di spiegare le ragioni che rendono oggi accettabile la monarchia – non soltanto nei paesi con storie democratiche più recenti e travagliate, ma anche in quelli democratici da secoli – si concentrano sulla stabilità politica e sociale che tende a generare in molti contesti. E a prescindere dalle varie manifestazioni storiche di questa forma di governo e dai diversi fattori di legittimazione di ciascuna monarchia – assoluta o costituzionale che sia – la stabilità viene in generale associata all’incontrovertibilità del principio di base comune a tutte le forme di monarchia: la rappresentanza senza elezione.
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In un articolo sul sito The Conversation in cui cerca di contestualizzare le monarchie moderne, il ricercatore inglese Craig Prescott, docente di giurisprudenza alla Bangor University, in Galles, le ha distinte in quattro grandi gruppi: monarchie cerimoniali, costituzionali, forti e assolute.
Il Giappone, la cui costituzione prevede che l’imperatore «non abbia poteri relativi al governo», è citato come esempio di monarchia esclusivamente cerimoniale. L’imperatore nomina il primo ministro secondo il volere della Dieta Nazionale del Giappone, l’assemblea formata dalle due camere del parlamento e considerata l’organo con più poteri nel paese. Ma questo non vuol dire che l’imperatore sia una figura superflua: come affermato nel 2019 dal direttore degli studi asiatici all’Università di Tokyo Jeff Kingston, «in tutte le nazioni ci sono alcuni rituali di identità e appartenenza che sono importanti per le persone, e l’imperatore è un simbolo di chi sono i giapponesi come popolo».
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Nel caso delle monarchie costituzionali – in cui Prescott include anche quelle convenzionalmente più note come monarchie parlamentari – si potrebbe invece avere l’impressione che i monarchi abbiano poteri politici rilevanti anziché ruoli cerimoniali. Secondo la costituzione danese, per esempio, il monarca è «l’autorità suprema in tutti gli affari del Regno». Ma nella pratica, scrive Prescott, «le convezioni costituzionali e altre regole riducono considerevolmente il ruolo del monarca a una formalità».
Prescott indica un’importante qualità richiesta ai monarchi, nei casi in cui il loro potere sia limitato dalla costituzione e implichi un’azione subordinata alle indicazioni fornite dai governi che si instaurano di volta in volta. I monarchi devono mantenere un ruolo di imparzialità politica per evitare il rischio di essere coinvolti in polemiche, dal momento che durante il loro regno avranno presumibilmente a che fare con politici di diversi partiti.
Secondo alcuni è proprio il fatto che, per definizione, non ricoprano una carica elettiva a rendere oggi i monarchi tendenzialmente più inclini a mantenere quel tipo di imparzialità. E secondo altri questo tipo di qualità è anche in parte il risultato di una formazione che fin dalla nascita addestra i futuri monarchi, in sostanza, all’esercizio di una sola funzione: guidare il paese.
Una variazione delle monarchie costituzionali sono poi quelle che Prescott definisce monarchie «forti», presenti tipicamente in piccoli stati come il Liechtenstein e il principato di Monaco. In questi casi, sebbene coadiuvato dal governo, il monarca può avere il compito di firmare qualsiasi legge o avere un coinvolgimento diretto ancora più ampio. Nel principato di Monaco, per esempio, il principe ha – tra le altre cose – l’autorità per concedere a sua discrezione la cittadinanza per naturalizzazione anche nei casi in cui il richiedente non risieda nel principato da almeno dieci anni (sono casi tuttavia piuttosto rari).
Ed esistono infine monarchie assolute come Oman, Brunei e Arabia Saudita, contraddistinte da una pressoché totale concentrazione dei poteri in una sola persona. Ma sono esempi a cui è solitamente più difficile associare le riflessioni sull’accettabilità concettuale, politica e sociale delle monarchie moderne, non avendo quei paesi alcuna storia recente di democrazia ed essendo contraddistinti da crimini, gravi violazioni dei diritti umani e alti livelli di corruzione. Niente che generi quindi una contraddizione concettuale rispetto alla diffusione di un sistema di governo apparentemente illogico.
Considerando la storia del Regno Unito, che da monarchia con un potere quasi assoluto sui propri sudditi diventò già in epoca vittoriana una «repubblica mascherata», Prescott si chiede se questo processo evolutivo della monarchia britannica sia giunto al termine e se riguardi in una certa misura qualsiasi monarchia in Europa. E conclude che la sopravvivenza della monarchia britannica dipenderà, a suo avviso, dalla capacità di questa istituzione cerimoniale di adattarsi tempestivamente a un’epoca di profonde trasformazioni in modo da mantenere la propria centralità nella vita pubblica del paese.
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Ma altre persone ritengono l’esistenza stessa della monarchia del tutto incompatibile con un’idea di progresso, e la considerano anzi un’istituzione intrinsecamente in contraddizione con qualsiasi evoluzione che porti a una condizione di uguaglianza tra le persone.
In seguito ad alcune commentate accuse di razzismo rivolte alla famiglia reale del Regno Unito, nel 2021 il giornalista americano Hamilton Nolan scrisse sul New York Times che l’esistenza delle monarchie nei paesi democratici non risponde a un bisogno di governare meglio ma soltanto di offrire spettacolo. «È sempre stato più facile elevare una famiglia a una vita lussuosa da favola piuttosto che eseguire il triste lavoro di elevare ogni singola famiglia a un tenore di vita dignitoso», scrisse Nolan.
Il «culto della monarchia» è di conseguenza considerato da Nolan l’indizio di una «mortificante mancanza di coraggio rivoluzionario» e «la più alta venerazione della disuguaglianza». Che non significa che altri paesi con diverse forme di governo siano poi necessariamente più attenti all’uguaglianza di fatto tra i cittadini, o che i presidenti di quei paesi non possano essere «fonte di imbarazzo nazionale», scrisse Nolan riferendosi all’allora presidente Donald Trump. Ma quantomeno in quei paesi alle persone «non è richiesto di inchinarsi davanti a qualche ricco perdigiorno del tutto casuale la cui pretesa di legittimità è essere il figlio del figlio del figlio di qualcuno che, secoli fa, era il più grande gangster della nazione».
Animati da sentimenti anti-monarchici di questo tipo, diversi paesi che fanno parte del Commonwealth – l’organizzazione di ex colonie britanniche in relazioni politiche ed economiche tra loro – hanno più volte manifestato in tempi recenti l’intenzione di interrompere qualsiasi legame non soltanto sostanziale ma anche formale con la monarchia britannica. Un esempio è l’Australia, un paese fondato su una democrazia parlamentare e costituito da una federazione di sei stati e territori, il cui capo di stato è simbolicamente il monarca britannico, Carlo III, rappresentato dal governatore generale del paese, David Hurley.
Dopo aver perso un referendum nel 1999, un movimento australiano che promuove da tempo la completa indipendenza dalla monarchia britannica ha recentemente ripreso vigore ed è oggi sostenuto da diversi partiti politici tra cui i Verdi, che fanno parte della maggioranza di governo. Il primo ministro laburista Anthony Albanese non ha escluso la possibilità di un futuro referendum, pur definendo «inappropriato» discuterne durante le commemorazioni della regina Elisabetta II.
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Esistono poi argomenti che legano l’esistenza e l’accettabilità della monarchia a ragioni storiche particolari e che richiedono di adottare prospettive e categorie diverse da quelle prevalenti oggi nelle riflessioni avverse ai sistemi monarchici.
In un articolo pubblicato sul Guardian nel 2007, il filosofo e scrittore inglese John Gray difese le ragioni dei sistemi monarchici e descrisse come «parte di un credo progressista» la tendenza a considerare un anacronismo sia la monarchia che l’imperialismo. Dell’una appare inconcepibile il principio ereditario, scrisse Gray, e dell’altro è ritenuta inaccettabile l’idea stessa di esercitare un dominio su altri paesi, che secondo la prospettiva progressista dovrebbero invece autogovernarsi ed evolvere, idealmente, verso società basate sulla pace e sull’uguaglianza.
Questa interpretazione delle dinamiche politiche, secondo Gray, tende però a trasformare «i paradossi della storia in un semplice morality play [un genere di dramma medievale]»: esercizio che può risultare affascinante in momenti storici in cui un innalzamento delle qualità morali è visto da molti come necessario. «Eppure questa narrativa progressista implica una massiccia semplificazione degli eventi», aggiunse Gray, e la fiducia nell’ideale dell’autodeterminazione può nella pratica generare e ha generato vari orrori a seconda delle circostanze.
Gray fece l’esempio delle conseguenze dell’«esportazione della democrazia» e della dottrina della «guerra preventiva» adottata dagli americani in Iraq nel 2003. E le stesse considerazioni possono valere anche rispetto al più recente ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan dopo vent’anni di guerra. «Nessuno di coloro che hanno progettato la guerra si è preso la briga di chiedersi se lo stato governato da Saddam potesse sopravvivere a un’improvvisa iniezione di democrazia», scrisse Gray a proposito della guerra in Iraq, sostenendo argomenti in seguito divenuti molto popolari.
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Anche l’Iraq ha una storia di influenze coloniali, ricordò Gray, durante la quale la monarchia fu considerata non una forma inconcepibile di governo ma per molti aspetti l’unica forma possibile. L’occupazione britannica cominciata durante la Prima guerra mondiale portò alla formazione del Regno dell’Iraq, poi rovesciato nel 1958 con un colpo di stato in cui fu ucciso il giovane re Faysal II. Come nella maggior parte dei casi di paesi sorti dalle province dell’Impero ottomano, dell’Iraq facevano parte diverse comunità distinte, nessuna delle quali era mai stata autonoma.
Fu un’azione repressiva e non pacifica, scrisse Gray, quella che permise agli inglesi di stabilire le condizioni per la creazione di un regno: regno che, per il tempo in cui durò, evitò «una guerra di tutti contro tutti» tra le diverse comunità presenti. Ai paesi colonizzatori era infatti noto che l’Iraq non potesse essere democratico, perché «la maggioranza della popolazione sciita era destinata a rifiutare il dominio sunnita, e la minoranza curda si sarebbe separata non appena fosse stato instaurato un governo democratico».
Ed esistono altri casi storici noti, scrisse Gray, di conseguenze nefaste di tentativi di rimodellare una regione post-imperiale su un modello progressista. Il presidente americano Woodrow Wilson, in carica dal 1913 al 1921, immaginò che promuovere l’autodeterminazione in Europa centrale e orientale dopo la caduta dell’Impero asburgico avrebbe portato a una civile formazione di stati-nazione. Portò invece a un «nazionalismo etnico, basato sull’odio per le minoranze interne, e decenni di guerre e dittature».
La costruzione di uno stato-nazione, osservò Gray, «è quasi sempre un affare sanguinario» e che tende a «minare i valori moderni della libertà personale e del cosmopolitismo». Gli Stati Uniti diventarono una nazione soltanto dopo una guerra civile, la Francia soltanto dopo Napoleone. E dovrebbe far riflettere, secondo Gray, il fatto che «le poche democrazie genuinamente multinazionali che esistono oggi siano per lo più monarchie e resti di imperi», per quanto «irrazionali» e anacronistiche possano apparire.
Nel Regno Unito, scrisse Gray, la costituzione monarchica – «un misto di resti di antiquariato e telenovele postmoderne» – può sembrare assurda ma è ciò che permette a una società estremamente diversificata di sopravvivere senza eccessivi attriti. «I progressisti tendono a considerare l’essere sudditi della regina come un insulto alla loro dignità», concluse Gray, che è inglese, «ma le strutture arcaiche da cui siamo governati non ci obbligano a definirci per sangue, per suolo o per fede, e ci proteggono dalla velenosa politica dell’identità».
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Altre opinioni che descrivono le monarchie in termini positivi si concentrano sulle condizioni economiche e sociali di alcuni dei 43 paesi che utilizzano oggi questa forma di governo.
L’ipotesi alla base di queste opinioni è che nelle moderne monarchie costituzionali le famiglie reali agiscano come potente simbolo e come forza unificante. E che questo si rifletta poi in una maggiore ricchezza e stabilità politica, come mostrano peraltro alcuni indicatori statistici internazionali tra cui l’indice di percezione della corruzione (la maggioranza dei paesi nelle prime dieci posizioni sono monarchie costituzionali).
Secondo uno studio dell’economista e sociologo spagnolo Mauro Guillén, direttore della business school dell’Università di Cambridge, esistono «prove quantitativamente significative che le monarchie superino le repubbliche» in termini economici. E in particolare risultano sistemi più efficienti in termini di controllo degli abusi di potere da parte dei funzionari eletti e in termini di «protezione dei diritti di proprietà, il che si traduce in un PIL pro capite più elevato».
Ma a prescindere dalle presunte ripercussioni positive sull’economia, scrisse nel 2012 il giornalista britannico della BBC Mark Easton, nel caso del Regno Unito esistono ragioni più profonde alla base dell’«affetto per un sistema che appare in contrasto con i principi meritocratici di una moderna democrazia progressista».
Easton citò il giornalista britannico del XIX secolo Walter Bagehot, secondo il quale non avrebbe senso cercare di giustificare razionalmente la monarchia: una «società vecchia e complicata» come l’Inghilterra, secondo Bagehot, «richiedeva qualcosa di più di una logica banale e noiosa».
In un’epoca segnata dal declino del potere coloniale e delle ricchezze dell’impero britannico, scrisse Easton, Bagehot identificò una caratteristica nazionale in via di sviluppo: «Un crescente desiderio di definire la grandezza come qualcosa di diverso dalla ricchezza e dal territorio», la volontà della Gran Bretagna di credere di essere «intrinsecamente speciale». E attraverso ciò che Bagehot definì uno «spettacolo teatrale della società», al cui apice si trovava la regina, il paese mantenne e rafforzò la deferenza legata in precedenza soprattutto al dominio e alle ricchezze.
Secondo Easton, al «razionalismo straniero» gli inglesi hanno sempre preferito le stranezze della loro storia: «I romani portarono strade diritte e sistemi decimali. Non appena se andarono, tornammo a misure imperiali incredibilmente complicate e tortuose strade di campagna». E qualcosa di simile riguarda anche il sistema di governo, rispetto al quale la logica non è il fattore più importante: «Siamo felici di accettare eccentricità e stranezze perché riflettono una parte importante del nostro carattere nazionale».