Com’è nato il culto del fallo
Ha a che fare con il sole e con la rappresentazione del sacro: se ne riparla dopo la scoperta della più grande rappresentazione fallica di epoca romana mai conservata
Qualche settimana fa, nel sud della Spagna, è stato scoperto un bassorilievo a forma di fallo lungo quasi cinquanta centimetri, la più grande e importante rappresentazione fallica di epoca romana mai conservata, secondo gli archeologi. La scoperta è avvenuta durante gli scavi al sito archeologico di El Higuerón, nella città di Nueva Carteya, in Andalusia. Il bassorilievo si trova su una pietra angolare, a sua volta parte della base di un edificio di epoca romana a forma di torre la cui funzione è oggi ancora sconosciuta, costruito sulle rovine di un insediamento iberico ancora più antico e risalente al Quinto secolo a.C.
L’annuncio del ritrovamento è stato fatto lo scorso 19 agosto dal Museo Histórico Local de Nueva Carteya. Il direttore del museo, Andrés Roldán, ha spiegato che in epoca romana le rappresentazioni falliche erano molto diffuse: «Era comune mettere dei falli sulle facciate delle case, e i soldati portavano piccoli amuleti fallici come simboli di virilità». Incisioni e rappresentazioni di falli si trovavano poi sui luoghi di confine, muri o porte, perché al fallo era anche attribuito il potere di tenere lontane le influenze negative.
Ma questa rappresentazione, ha detto Roldán, «è insolitamente grande: stiamo facendo varie ricerche e, per il momento, non siamo riusciti a trovarne un’altra delle stesse dimensioni».
Testimonianze del culto degli organi genitali, e di quello maschile in particolare, sono state ritrovate nelle civiltà antiche praticamente di tutto il mondo: in Nuova Guinea, nelle isole di Sumatra e in Congo; nelle antiche religioni dell’America Centrale e nello scintoismo in Giappone.
Il culto del fallo svolgeva un ruolo di primaria importanza nell’antica religione egizia, era diffuso nell’antica civiltà della valle dell’Indo e nella religione induista come rappresentazione del dio Śiva. In Grecia era centrale nei culti di Ermete e di Dioniso; era itifallico, cioè con il pene in erezione, anche il tirso di Dioniso, e la falloforia, la processione solenne, era un elemento fondamentale della sua religione. Nella religione romana il fallo stesso era personificato dal dio Fascinus, a cui rendevano culto le Vestali. E una falloforia, simile a quella greca, aveva luogo durante la vendemmia.
Il culto dedicato al fallo, nonostante le differenze che può aver assunto, ha la particolarità di essere presente in tutto il mondo e nelle società più diverse. E, in alcuni casi, ha resistito anche alla prova del tempo, come testimonia la festa scintoista del Kanamara Matsuri che si svolge ancora oggi ogni anno in Giappone.
Il mensile francese Philosophie Magazine, a partire dalla recente scoperta archeologica fatta in Spagna, ha raccontato l’origine di questo culto: ha a che fare con l’adorazione del sole, con le sue rappresentazioni in forma di animale e poi con le sue personificazioni. È un simulacro, ma non degli organi genitali del corpo maschile. La questione se l’era già posta nel 1805 lo storico Jacques-Antoine Dulaure nel libro Des divinités génératrices: ou du culte du phallus, in cui c’è un capitolo intitolato “L’origine del fallo e il suo culto”.
«Scrittori antichi e moderni» scriveva Dulaure «hanno parlato del Fallo, senza dire nulla sull’origine del suo culto. Alcuni di questi scrittori, moralisti più zelanti che abili nell’arte di scrutare l’antichità, ne hanno semplicemente attribuito l’origine alla corruzione e alla licenziosità di certi popoli». Se questo culto può sembrare «indecente alla maggior parte dei moderni», non era così nell’antichità, spiegava lo storico. La vista delle rappresentazioni falliche «non suscitava alcuna idea oscena: anzi, il Fallo era venerato come uno degli oggetti di culto più sacri».
Dulaure spiegava che gli antichi, praticamente ovunque, scelsero il simulacro della mascolinità «per rappresentare la forza rigeneratrice del sole in primavera e l’azione di questa forza su tutti gli esseri della natura». E scriveva: «Trionfante sulle gelate e sulle lunghe notti, il sole, più alto all’orizzonte, prolunga la durata delle giornate, diffonde sulla terra il suo calore fertilizzante, penetrando piante, animali, fa risorgere la natura e semina ovunque vita, verde, speranza, fiori e amori».
Questo legame iniziale con il culto del sole celebrato a primavera si ritrova nell’etimologia stessa della parola “fallo” che deriva dal greco φαλλός e che a sua volta si rifà alla radice del sanscrito phalati, che significa “germogliare, fruttificare”.
Questo culto alimentò ben presto un’interpretazione «astronomico-astrologica», spiega Philosophie Magazine. Dulaure scriveva che «il riconoscimento popolare e l’omaggio reso al dio del giorno, al sole che riportava la primavera, si diressero in modo spontaneo verso una forma più alla portata dei sensi, verso il segno dello zodiaco che ne era il simbolo»: il toro perché era con quella costellazione che il sole sorgeva all’equinozio di primavera.
Tutte le parti del corpo del toro, le corna ma anche i genitali, diventarono dunque un emblema di potenza e fecondità. Queste parti «esprimevano in un modo particolare e molto energico, per la mente e per gli occhi, la forza rigeneratrice, la sorgente della fecondità attribuita al sole primaverile».
Da lì in poi, attraverso le rappresentazioni zoomorfe e antropomorfe delle divinità, l’attributo fallico venne di fatto staccato dall’animale e attaccato a figure umane, ma questo solo in un secondo momento. Basti pensare a Priapo, antica divinità dei Greci, simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile, e quindi anche della fecondità della natura.
Dulaure precisava dunque che ciò che veniva adorato e considerato sacro non era il “fallo” degli uomini, ma il “Fallo”: «In origine il Fallo era isolato e non aderiva a un corpo umano». Questa adesione si è verificata solo in un secondo momento. Ed è per questo, spiega, che tutte le figure antropomorfe che lo portano hanno qualcosa di “mostruoso”, che le pone a metà tra un uomo e un animale. Ed è anche per questo che il sacro Fallo appare sproporzionato rispetto al corpo maschile che lo esibisce: «La dimensione sproporzionata del Fallo indica chiaramente che non apparteneva alla figura umana a cui aderiva».