«Ogni forma di posterità forse è un oltraggio»
Lo scriveva Javier Marías, riflettendo su ciò che resta di una persona dopo la sua morte
Ci sopravvive quasi tutto ciò che emaniamo o ci accompagna o causiamo, duriamo meno delle nostre intenzioni. Lasciamo troppe cose messe in movimento e la loro inerzia così debole ci sopravvive: le parole che ci sostituiscono e che talvolta qualcuno ricorda o trasmette, non sempre confessandone la provenienza; le lettere levigate e le fotografie incurvate e le note lasciate su una carta gialla a colei che va a dormire sola dopo gli abbracci desti, perché ce ne andiamo di notte come miserabili di passaggio; gli oggetti e i mobili che sono stati al nostro servizio e con i quali siamo stati in contatto – una sedia rotta, una penna, una scena indiana, un soldatino di piombo, un pettine -, i libri che abbiamo scritto ma anche quelli che abbiamo soltanto comprato e che una volta abbiamo letto o che sono rimasti rinchiusi fino alla fine nel loro scaffale e proseguiranno rassegnati in un altro posto la loro vita di attesa in attesa di altri occhi più avidi o tranquilli; i vestiti che rimarranno appesi tra la naftalina perché forse qualcuno addolorato si impegnerà a conservarli – anche se non so se c’è la naftalina, le stoffe scolorando e illanguidendo e senz’aria, dimenticando ogni giorno di più le forme che davano loro un senso, e l’odore di quei volumi -; le canzoni che si continueranno a cantare quando noi non le canteremo né le canticchieremo né le ascolteremo, le strade che ci accolgono come se fossero interminabili corridoi e dimore che non badano ai loro inquilini effimeri e commutabili; i passi che non si possono riprodurre e non lasciano traccia sull’asfalto e sulla terra si cancellano, o no, quei passi non rimangono ma vengono via con noi o anche prima, con la loro innocuità o con il loro veleno; e le medicine, la nostra grafia frettolosa, le foto amate che teniamo in vista e che non ci guardano più, il cuscino e la nostra giacca appoggiata su una spalliera; un casco coloniale venuto da Tunisi negli anni trenta a bordo della nave Ciudad de Cádiz ed è di mio padre e ancora conserva il soggolo, e quel servitore indù di legno dipinto che ho appena portato a casa con una certa esitazione, a sua volta durerà più di me quella figura, probabilmente. […]
Perdiamo tutto perché tutto rimane, tranne noi. Per questo ogni forma di posterità forse è un oltraggio, e magari lo è anche allora ogni ricordo.
da Nera schiena del tempo di Javier Marías, pubblicato da Einaudi nella traduzione di Glauco Felici
Nera schiena del tempo (1998), nella definizione di Marías, grande scrittore spagnolo morto l’11 settembre 2022, è un «falso romanzo» in cui «la maggior parte dei fatti raccontati è vera, ma alcuni sono inventati per la riuscita di una particolare pagina». Racconta storie di scrittori dimenticati, spesso ricostruite da Marías attraverso libri usati e cose lasciate al loro interno, ma anche di un fratello dello scrittore, morto prima della sua nascita, e di sua madre.
Il libro tra le altre cose è una ricca riflessione su come la storia della maggior parte delle vite si perda nel tempo, con la scomparsa delle persone che quelle vite avevano conosciuto, ma anche su come certe storie restino legate, spesso in modo nascosto, a oggetti che durano molto di più nel tempo. Alcune volte sono libri, nel senso di opere letterarie ma anche di singoli libri passati di mano in mano.
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