Una canzone di Keziah Jones
E storie di programmazione radiofonica
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Anche Severance , serie tv di quelle incasinate che ci si appassiona a cercare di capire le cose misteriose e intricate e ad aspettare che si spieghino, e poi si resta delusi, ha alcune ottime canzoni e soprattutto un grande uso di Times of your life di Paul Anka. Certo, nessuna puntina appoggiata su un vinile in una serie tv è più la stessa dopo quella della prima puntata della seconda stagione di Lost .
Ieri mi sono distratto ed erano 40 anni dall’indimenticabile concerto dei Genesis alla Festa de l’Unità a Tirrenia.
Negli anni Ottanta, miei piccoli lettori, tra molte band di prolungata popolarità e produzione ce ne furono anche di passeggere, meteore, di enormi successi istantanei e poi scomparse, almeno per il mondo. Tra queste, durò sì un lampo ma con almeno tre canzoni vendutissime e suonatissime nelle radio, una band tedesca che si chiamava Alphaville: il loro pezzo buono in effetti era Big in Japan , ma quello che conobbe più eternità è una cosa micidiale in ogni senso che forse avrete sentito anche voi, miei piccoli lettori: Forever young (titolo di ben altri onori , già un po’ rovinato da Rod Stewart ), con cui si ballavano i lenti nelle feste in garage. Ecco, si dà il caso che gli Alphaville abbiano continuato a fare gli Alphaville e siano ancora in circolazione e abbiamo appena fatto delle insopportabili versioni con orchestra di Forever young e di Big in Japan.
Where’s life?
Keziah Jones
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È passato del tempo e le cose cambiano in fretta, quindi non so più come sia, ma quello è un mondo in cui invece le cose sono rimaste molto immobili e quindi tendo a pensare che funzioni ancora così: quando facevamo un programma tutti i giorni su una radio nazionale, ormai fino a dodici anni fa, i conduttori dei programmi erano responsabili solo di una metà circa del tempo a loro disposizione. Il resto del programma era occupato da contenuti non decisi da loro, ma da altri, i “programmatori musicali”: le canzoni, ovvero.
Da ascoltatori non ci si pensa, ma quando il conduttore si interrompe e annuncia una canzone, sta leggendo titolo e musicista su un foglio che gli è stato dato prima dell’inizio del programma: un pezzo importantissimo di quello che le persone ascoltano e di ciò che è il suo programma è scelto da qualcun altro. Con le rare eccezioni, naturalmente, dei programmi più specificamente dedicati alla musica (pochi, in giro, e questo è davvero strano per un mezzo come la radio, se ci pensate).
Non che questo sia sbagliato, ci mancherebbe: in molti casi il conduttore ha scarsa competenza musicale e non saprebbe scegliere delle canzoni da intervallare alle sue chiacchiere che siano adeguate a quel programma, che abbiano una qualità, un’identità, con cui si possa “dire” qualcosa. E che esistano sapienti programmatori dedicati a fare questo, con una linea editoriale generale, sarebbe prezioso: dico “sarebbe” perché i programmatori, e chi dirige le radio, fanno le loro scelte trascurando l’identità o i contenuti dei programmi, e privilegiando una ripetizione continua e indistinta legata soprattutto alle canzoni nuove che ricevono in promozione dalle case discografiche, e coerente con un’idea di “flusso” che definisce le scelte di molte delle radio nazionali. Ma anche per quelle con programmi più definiti e riconoscibili, la musica è un riempitivo, un intervallo.
Questa consuetudine spiega il conflitto e la trattativa – che ho citato qualche volta qui – di quando facevamo Condor, trattativa con cui ottenemmo una moderatissima quota di canzoni da scegliere noi, fuori dalla “scaletta”, e che io e Matteo Bordone ci spartivamo. E pretendemmo anche un veto generale sulla maggior parte delle nuove uscite abitualmente trasmesse dagli altri programmi, che escludeva quasi tutte le canzoni italiane, per esempio. Il risultato fu una playlist quotidiana più che buona, in cui il programmatore – credo fosse Giuseppe Barbieri, allora – si adattò con evidente piacere ai nostri capricci, alternando al salvabile della programmazione generale certe sue scelte dal cappello, tra cui alcune che non avevo mai sentito e che imparai grazie a lui. Meglio di tutte, che in radio è sempre una dote di grande efficacia, quelle con un grande attacco, che creano quell’effetto eccitante nel passaggio dal parlato dei conduttori.
Where’s life? la mise in scaletta lui ed è un ibrido, in questo senso: il giro di chitarra iniziale è effettivamente una perla rara e tiene su tutto il pezzo, anche se “entra” in punta di piedi. Ma sarebbe sventato rovinarla – in radio – parlando sulla sua “testa”, come viene chiamata la durata iniziale delle canzoni che invece partono piano e su cui i conduttori prendono tempo (ci sono molte pratiche vecchie e nuove per gestire e adattare quella durata).
Lui è nigeriano di adozione londinese e ora ha 54 anni, è un gran chitarrista, ha suonato da giovane per strada e poi qualcuno gli ha fatto fare un disco nel 1992, in cui era Where’s life? . Ebbe un qualche successo passeggero nel Regno Unito, e un po’ più continuo in Francia, dove le musiques du monde hanno sempre avuto maggiori attenzioni, anche quando lo sono solo sulla carta di identità (Jones fa una musica nera di maggiori influenze americane che africane) e dove ha ancora un suo seguito.
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