Le formiche ci guardano
«Ma cos’è che ancora non abbiamo capito, digerito, risolto fino in fondo, e che sta alla base di tutti questi tentennamenti che impediscono anche ai più progressisti di abbracciare le istanze del nuovo? O meglio, c’è forse una paura che non abbiamo ancora affrontato legata all’autodeterminazione e al diritto di disporre di sé e del proprio corpo in modo consapevole e davvero libero?»
Il signore delle formiche è il nuovo film di Gianni Amelio, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e al cinema dall’otto settembre, che racconta il processo a cui tra il 1964 e il 1968 fu sottoposto Aldo Braibanti, un poeta e intellettuale, reo di essersi innamorato – ricambiato – di un membro del gruppo di artisti che lui dirigeva in produzioni musicali e teatrali sperimentali, che aveva all’epoca 22 anni e si chiamava Giovanni Sanfratello. Le formiche c’entrano solo perché erano la seconda grande passione di Braibanti dopo la poesia. Era uno dei più accreditati mirmecologi – gli studiosi dei comportamenti delle formiche, appunto – del mondo.
Fu un caso, quello di Braibanti, su cui l’Italia di fine anni Sessanta che evidentemente aveva ancora molte radici, quantomeno culturali, affondate nei valori del Ventennio fascista, sembrò sfogare i suoi rancori verso quel “nuovo” libero e anarchico che i giovani del Sessantotto gridavano con forza, ingenuità e carnalità per le strade del mondo.
Ecco, al riparo dalla realtà, che era ormai cambiata, aperta, diversa, e invece dentro alle mura di uno stantio tribunale, si consumò la rievocazione della Santa Inquisizione, fatta ai danni di un uomo che rappresentava un adulto che, a differenza di quel che di solito fanno gli adulti rispetto alle nuove generazioni, era pronto non solo ad ascoltarne ed accoglierne le nuove istanze, ma ad incoraggiarle, incarnando lui stesso un modo di essere non previsto dal rigido codice del binarismo patriarcale e sacramentale che prevede un solo tipo di società, costruito su un solo tipo di famiglia, cristiana.
Suona maledettamente attuale, vero?
Braibanti venne accusato di plagio.
Una follia dal punto di vista legale. Ma dato che non esisteva, per fortuna, il reato di omosessualità, bisognava trovare qualcosa per cui incastrarlo. Il pubblico ministero preposto (pare chiamato dalle alte aderenze cardinalizie di cui beneficiava la piissima e militante famiglia Sanfratello), Antonio Lo Iacono, decise di costruire l’impianto accusatorio su una tesi, certo che questa avrebbe trovato appiglio nelle menti di tutti: la minaccia delle nuove teorie, delle nuove dottrine sui “nostri” giovani.
Anche questo vi suonerà familiare. Oggi si chiama “complotto gender contro i nostri bimbi”.
Ed è davvero la stessa cosa. È lo stesso tentativo di far presa su una parte del nostro immaginario collettivo. Perché accusare di aver plagiato un ventiduenne del Sessantotto – si diventava brutalmente grandi molto presto allora – è come quando i politici oggi usano pubblicamente, parlando agli adulti, il termine “bimbi”, un vezzeggiativo con cui normalmente si indicano i bambini quando si parla ai bambini stessi. O al massimo in ambito prescolare tra insegnanti e genitori, tra mamme. Non certo in dichiarazioni alla stampa.
Usare in pubblico il termine bimbi anziché bambini, figli, prole, (immaginate lo stesso politico che dicesse, dopo aver rilasciato dichiarazioni ai giornalisti: “ora scusate è già l’una, vado a mangiare la pappa”) serve a fare quello che fece allora Lo Iacono: condurci all’idea tanto ancestrale quanto non vera di figli e figlie come angeli senza età, nostri bimbi per sempre, fragilissimi, incorporei e incorrotti da ogni umano istinto, dubbio, contraddizione; esseri senza malizia che noi abbiamo il compito di proteggere da ogni variabile rispetto alle linee educative che li preparino ad incarnare i nostri stessi valori.
Niente di più irreale tanto per bambine e bambini, che hanno già personalità, pensieri, desiderio di esplorazione e sogni, quanto più per Giovanni Sanfratello, che era già più che maggiorenne. Quei giovani del Sessantotto, i fluidi ante litteram, erano definiti da Lo Iacono come delle vittime delle teorie della rivoluzione sessuale. Oggi i nostri figli, i nostri bimbi – anche quando crescono – sarebbero minacciati dalle teorie gender. E chi le propina queste minacciose teorie? Gli insegnanti progressisti. Di ieri e di oggi. Quelli dell’educazione sessuale, quelli delle giornate contro il bullismo.
E infatti Lo Iacono chiamò Braibanti sempre “il professore” quando professore non lo fu mai. Ma bisognava alimentare il sospetto verso le figure educative, fuori e dentro la scuola. Gli adulti, i genitori di allora dovevano diffidare di tutti quei professori comunisti; quelli di oggi invece, devono diffidare di tutte le Cloe Bianco, l’insegnante di fisica che, per il fatto di aver aderito al suo orientamento di genere e di essersi presentata tra i banchi di un istituto superiore, in quanto donna trans, è stata, allontanata dal suo lavoro, emarginata, umiliata.
Diffidare, perché la loro stessa esistenza plagia i nostri figli, i nostri bimbi. Anche se hanno ventidue anni, sono sempre i nostri bimbi. Antonio Lo Iacono definirà Braibanti una “intelligenza viscida, omosessualmente intellettuale”.
L’assessora regionale del Veneto Donazzan si è riferita a Cloe Bianco sempre, anche dopo il suo suicidio, al maschile, e ha definito il suo aspetto femminile “una follia”, un “andare in giro vestito in maniera ridicola”.
E dunque sospettare, accusare, processare, far sparire.
In un documentario disponibile su Sky sul caso Braibanti si racconta che i Sanfratello fossero una famiglia ultracattolica con la doppia disgrazia di avere due figli maschi diventati uno comunista, curato mandandolo in pellegrinaggio da Padre Pio, e uno gay, Giovanni appunto. Che farà la fine che vi racconto tra poco.
Le domande di Lo Iacono ai giovani che frequentavano i laboratori di Braibanti erano di questo tono:
“Parlavate di sesso?”
“No.”
“Parlavate di formiche?”
“Sì.”
“Come si riproducono le formiche?”
“Con le uova.”
“Allora vede che parlavate di sesso!”
Incredibile ma vero, la requisitoria andava proprio così. E ricorda in modo sinistro i toni usati in Senato per discutere del DDL Zan.
Una studentessa di Cloe Bianco ha raccontato su Facebook come dal giorno in cui si presentò come donna a scuola, i genitori facessero a gara per ottenere dei colloqui con lei, per poi deriderla e insultarla nelle chat di classe.
Chi fu a battersi per Braibanti, intellettuale ex partigiano e comunista? Artisti, come Moravia, Morante, Maraini, Pasolini. E i radicali di Pannella. L’Unità non metteva nemmeno il caso in prima pagina: la classe operaia aveva altre priorità. Benaltrismo sui diritti. E dire che Braibanti era un noto comunista, ex partigiano sopravvissuto a torture. Ma c’era un problema di fondo, anche nella matrice culturale di sinistra. Che non si è mai adeguatamente scusata con Braibanti, né con Pasolini per l’esclusione dal partito comunista.
Perché sotto sotto, allora come oggi, anche tra i progressisti, certe questioni generano imbarazzo. E infatti, chi si è battuto per Cloe Bianco? Si poteva fare di più?
Allora come oggi, se non si tace, si fa comunque troppa confusione. È tutto un sì ma no. Un giro di parole. O al massimo, al meglio dei risultati ottenuti, come con le unioni civili, un mezzo contentino. Un umiliante compromesso al ribasso.
Perché a sinistra non sono tutti già pacificamente a favore del matrimonio egualitario. Né del riconoscimento della genitorialità delle famiglie arcobaleno, o dell’adozione da parte di una coppia gay o di un single. Né al diritto al cambio di genere sui documenti delle persone trans. Non sono poi così sicuri che serva una legge sul fine vita. O che sia urgente e tardivo lo ius soli. Non sono convinti ma soprattutto non si sono informati a sufficienza, non hanno sentito l’esigenza di conoscere le storie, incontrare le persone, approfondire i percorsi giuridici negli altri paesi prima di prendere una posizione, per dare un peso specifico al loro pensiero in materia.
C’è un pregiudizio non ideologico ma culturale. Quel grembo tribale in cui le persone difformi generano imbarazzo, toccate di gomito, risate, battute, fastidio.
Braibanti era un eroe della Repubblica, ma non gli bastò a non essere perseguitato. La sua difformità – o devianza? – era troppo per quella cultura condivisa, da destra e sinistra. Fu condannato, dopo un processo durato quattro anni, a nove anni di carcere, ridotti poi a sei. Ne sconterà due.
Cloe non ce la faceva più a scontare. Non una colpa, ma la solitudine in mezzo ad una feroce ottusità. E il vuoto del diritto.
In cui – e grazie al quale – chi può esercitare un po’ della sua autorità (Lo Iacono, o un poliziotto, o un’infermiera, o un addetto postale) può decidere di infliggere umiliazione, discriminazione, disparità di trattamento verso una persona trans, una coppia omosessuale, una giovane donna che chiede di abortire, il genitore 2 di una famiglia arcobaleno. O la donna che denuncia la violenza subita in famiglia. O la persona dai tratti somatici non caucasici.
Oltre ai notissimi artisti già citati, a difendere Braibanti ci furono molti cittadini, i suoi collaboratori, i frequentatori dei suoi laboratori. Tra loro uno contro cui spuntò l’accusa di un conoscente, che sosteneva che un amico americano giurasse che il tale in questione gli avesse venduto una canna. Fu condannato e scontò, sulla base di questa accusa senza prove costruita da Lo Iacono, due anni di carcere (vi sembra familiare la questione droghe leggere?).
Ma cos’è che ancora non abbiamo capito, digerito, risolto fino in fondo, e che sta alla base di tutti questi tentennamenti che impediscono anche ai più progressisti di abbracciare le istanze del nuovo? O meglio, c’è forse una paura che non abbiamo ancora affrontato legata all’autodeterminazione e al diritto di disporre di sé e del proprio corpo in modo consapevole e davvero libero?
Lə scrittorə attivista americanə di origine indiana di genere non conforme Alok Vaid-Menon sostiene che la società patriarcale viva un feroce rifiuto di ciò che non rientra nei suoi schemi normativi perché teme che non sia possibile essere molto felici senza, prima o poi, pagarla cara per essere usciti dai binari. Siamo ammalati di binarismo, sostiene, un codice che non prevede che non ci si adegui, che non si aderisca, che non ci si conformi.
Quella libertà consapevole fatta di difficili domande a se stessə e di oneste risposte è un percorso che l’impianto sociale scoraggia ad intraprendere. Lo capiamo ancor di più guardando chi era giovane nel Sessantotto. Ma sappiamo, proprio guardando il passato, che quella libertà la puoi perseguitare, ma non fermare. E che quindi minacce, persecuzioni, umiliazioni, discriminazioni, sono infelicità inflitta e diffusa senza che questo abbia alcun senso.
Elsa Morante, a difesa di Braibanti e delle istanze di liberazione dei giovani di allora usò le definizioni di F.P. – ovvero Felici Pochi – per questi ultimi, e di I.M. – Infelici Molti – per il resto della società di allora.
E mi torna in mente la battuta fatta nel film di Alessandro Benvenuti dal titolo Benvenuti in casa Gori: “Certo per voi cattolici l’è semplice: perché qualcuno deve stare bene, quando si può stare tutti male uguale?”
Ecco, senza dare la colpa ai cattolici tutti ovviamente, sembra un po’ questa però la faccenda. Per essere un’alternativa sufficiente a quella corrente politica – ma soprattutto culturale – che nega il presente e le sue possibilità di felicità per pura nostalgia, bisogna che l’altra parte le domande se le faccia e si dia risposte credibili. E poi delinei la sua idea di mondo libero, e la scriva nei programmi elettorali, e combatta fino in fondo perché si protegga la libertà con delle leggi serie, che le permettano di esistere per sufficiente tempo da cambiare, guarire, la cultura tossica che ci ha lasciato il passato e che ci ha formati.
Quattro fieri maschi della famiglia Sanfratello andranno a fare irruzione nell’appartamento romano in cui Giovanni e Aldo erano andati ad abitare – c’era un solo letto matrimoniale, testimonierà uno di loro, a giustificazione del gesto – per portar via il giovane innocente deviato e destinarlo alle cure amorevoli della sua famiglia e dei medici di fiducia: quaranta elettroshock, a seguito dei quali, benché devastato irreversibilmente e molto spaesato, Giovanni non rinnegherà mai il suo orientamento, né il suo amore per Aldo. Che non avrebbe rivisto mai più, se non incrociandolo occasionalmente in tribunale, per la durata del processo.
Allora gli I.M. sconfissero gli F.P., e perdemmo tuttə. Ma domani?