I pro e i contro delle leggi per costringere Google e Facebook a pagare i giornali
Quella australiana è diventata un modello che altri parlamenti vogliono imitare, compreso quello degli Stati Uniti: funziona e ha rischi, è giusta e ingiusta
di Mathew Ingram - CJR
La scorsa settimana un gruppo bipartisan di legislatori statunitensi guidato da Amy Klobuchar, senatrice Democratica per il Minnesota, ha presentato una versione rivista di un disegno di legge che a detta loro consentirà alle testate giornalistiche di negoziare «condizioni eque con le piattaforme gatekeeper, che accedono regolarmente ai contenuti delle notizie senza pagarne il valore»: ovvero piattaforme digitali come Google e Facebook che ottengono traffico dai link ai contenuti dei giornali. Il disegno di legge, chiamato Journalism Competition and Preservation Act, era stato originariamente presentato l’anno scorso da Klobuchar e modellato su un disegno di legge simile, con un nome identico, presentato nel 2018 dal deputato David Cicilline. La legge assicurava alle aziende giornalistiche «una protezione dalle leggi antitrust […] per poter negoziare collettivamente con distributori di contenuti online» come Google e Facebook, dietro compenso, il permesso a quegli stessi distributori di raccogliere e/o distribuire i loro articoli.
La legge è inoltre simile a una legge australiana, nota come News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code (Codice di contrattazione obbligatoria per i media e le piattaforme digitali), approvata l’anno scorso in una tempesta di polemiche. Prima che il progetto diventasse legge, Facebook aveva cercato di scoraggiare il parlamento australiano dall’approvarlo impedendo ai media di postare sul social network i loro stessi contenuti, e agli utenti di Facebook in Australia di condividere notizie fornite da mezzi di informazione non australiani. (Google invece aveva mostrato agli utenti un popup che li avvertiva che la legge avrebbe peggiorato la loro esperienza su internet.) Come la legge australiana, anche il Journalism Competition and Preservation Act prevede che Google e Facebook entrino in trattativa, con singole testate o con gruppi, per il pagamento dei loro contenuti. Qualora le due parti non riuscissero a raggiungere un accordo, allora, come la versione australiana, il Journalism Competition and Preservation Act richiederebbe alle piattaforme digitali di sottoporsi a un arbitrato vincolante.
In Australia non ci sono stati finora ricorsi all’arbitrato vincolante, da quando è stato approvato il codice nel marzo del 2021. Google e Facebook si sono affrettate a firmare numerosi accordi con editori ed emittenti, compreso uno secondo cui Google si sarebbe impegnata a versare alla Nine Entertainment – che a Melbourne possiede un canale TV, stazioni radio, il Sydney Morning Herald e The Age – 22 milioni di dollari l’anno per cinque anni. Facebook ha accettato di pagare alla stessa società circa 15 milioni di dollari (15 milioni di euro), pur dichiarando che il pagamento non sarebbe legato in alcun modo alla legge.
I critici sostengono che delle nuove regole beneficino esclusivamente i grandi conglomerati di media come quelli di proprietà di News Corp Australia, che dalle piattaforme suddette ha ricevuto l’equivalente di circa 50 milioni di euro. I sostenitori della legge, tuttavia, ritengono che non sia così. A marzo Bill Grueskin, professore alla Scuola di giornalismo della Columbia University, ha scritto che alcuni giornalisti locali sostengono che la legge australiana abbia rilanciato il business dell’informazione. Monica Attard, professoressa di giornalismo, gli aveva rivelato che, dall’approvazione del codice, non riesce a «convincere gli studenti a intraprendere uno stage perché trovare un lavoro a tempo pieno è diventato facilissimo».
Gli Stati Uniti non sono l’unico paese a trarre ispirazione dalla legge australiana. «Il Canada e il Regno Unito si stanno muovendo per emanare norme simili» per le proprie industrie mediatiche, scriveva Grueskin, «mentre i legislatori in Indonesia e Sudafrica hanno espresso l’intenzione di fare lo stesso». Nonostante il flusso di denaro arrivato nel business dei media australiani, osservava Grueskin, uno degli aspetti negativi di quell’approccio è la quasi totale mancanza di trasparenza negli accordi.
«Quella dell’Australia appare come una storia di successo agli occhi di chi ha a lungo desiderato costringere Big Tech a sostenere le redazioni sofferenti. Ma è un affare torbido, con dettagli cruciali custoditi come se fossero codici di lancio nucleare» scriveva Grueskin. «Se vuoi sapere quanto hanno pagato le piattaforme alle testate giornalistiche, stai fresco». La stessa mancanza di trasparenza, osservava, si estende al modo in cui le testate giornalistiche spendono quei soldi, che li usino per «rafforzare il giornalismo» o per «aumentare gli stipendi dei dirigenti».
La versione rivista del disegno di legge di Klobuchar chiede invece alle testate di rivelare annualmente quanto abbiano ricevuto dalle piattaforme. Obbliga inoltre queste ultime a negoziare con i media «in buona fede», restringe il processo alle aziende editoriali con meno di 1.500 dipendenti e limita la portata della legge a chi abbia «una redazione professionale dedicata che crea e distribuisce notizie originali, e contenuti correlati concernenti questioni di interesse pubblico a livello locale, nazionale o internazionale».
La News Media Alliance, l’associazione che rappresenta più di duemila giornali statunitensi, che sostiene il disegno di legge, segnala che il Journalism Competition and Preservation Act «riguarda testate conservatrici come Breitbart, il Daily Caller, Newsmax e il Washington Times» (sul sito web della NMA compare un elenco di articoli di opinione ed editoriali a sostegno dell’atto, inclusi certi tratti dal Daily Caller e da Newsmax).
Nonostante l’apparente successo della legge australiana, un certo numero di osservatori rimane critico nei confronti dell’applicazione dell’idea negli Stati Uniti. Jack Shafer di Politico scrive che «tassare le società tecnologiche per il fallimento dell’industria delle notizie è semplicemente ingiusto», perché Google e Facebook non hanno ucciso i giornali; piuttosto, i danni alle aziende giornalistiche sono «autoinflitti». Il calo pro capite della diffusione dei giornali è iniziato nel secondo dopoguerra, osserva, «e gli introiti pubblicitari hanno raggiunto il loro picco nel 2005». Da parte sua, il sindacato NewsGuild dice che il disegno di legge «manca ancora di barriere sufficienti ad assicurarsi che le entrate aggiuntive siano utilizzate per assumere giornalisti e per servire meglio i lettori».
Su Techdirt Mike Masnick sostiene che il requisito secondo cui gli organi di stampa non debbano avere più di 1.500 dipendenti potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio: «Questo disegno di legge in pratica suggerisce di acquistare grandi testate e ridurre il personale a meno di 1.500 dipendenti». Masnick mette in dubbio anche la logica alla base della proposta: «Gli organi giornalistici supplicano questi siti per ottenere un po’ di traffico. Assumono esperti di SEO per provare a conquistarne di più. E ora per quel traffico si fanno addirittura PAGARE dalle internet company?»
La legge vieterebbe inoltre alle piattaforme di rimuovere collegamenti o contenuti per eludere le trattative sui pagamenti.
Altri osservano che, anche se con questo tipo di leggi il denaro fluisce dalle piattaforme tecnologiche all’industria delle notizie, tale dinamica potrebbe portare le testate di informazione più piccole a dipendere da quell’àncora di salvezza, a loro rischio. «E se Google poi decidesse che è un cattivo affare?» ha chiesto a Grueskin Matt Nicholls, che cura e scrive la maggior parte delle notizie per il Cape York Weekly, nel Queensland. «Se per sostenere il tuo giornalismo, per mantenere occupati i tuoi giornalisti, hai bisogno di finanziamenti da Google, allora non è sostenibile».
Questo articolo è stato pubblicato in inglese il primo settembre nella newsletter The Media Today della Columbia Journalism Review. La traduzione è di Sara Reggiani.