L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, quarant’anni fa

Era arrivato a Palermo da pochi mesi per combattere la mafia: con lui furono assassinati la moglie e un agente di scorta

Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro nel 1982 (Ansa)
Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro nel 1982 (Ansa)
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Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro furono uccisi da un gruppo di sicari della mafia la sera del 3 settembre 1982 in via Carini, a Palermo. Insieme a loro venne ucciso anche l’agente di scorta Domenico Russo. Dalla Chiesa e la moglie erano a bordo di una Autobianchi A112, mentre l’agente di scorta li seguiva con un’Alfetta a poco più di una decina di metri. Li affiancarono due auto e due moto di grossa cilindrata da cui furono sparati circa 300 colpi con un mitra AK-47, un Kalashnikov.

Setti Carraro era alla guida e Dalla Chiesa tentò di farle scudo con il proprio corpo, ma furono raggiunti da decine di proiettili e morirono sul colpo. Il poliziotto di scorta cercò di reagire ma fu colpito a sua volta e morì in ospedale dopo 15 giorni. Sul fatto che quella sera fosse stato destinato alla scorta di Dalla Chiesa un solo agente ci furono poi molte polemiche.

Tommaso Buscetta, ex mafioso e il più celebre collaboratore di giustizia della storia italiana, disse, interrogato da Giovanni Falcone: «La sera del 3 settembre, qualche ora dopo l’assassinio di Dalla Chiesa ero all’hotel Regent di Belem, sul Rio delle Amazzoni, con Gaetano Badalamenti e guardavamo la televisione [sia Buscetta sia Badalamenti si erano rifugiati in Brasile per sfuggire ai corleonesi guidati da Totò Riina, ndr]. Quando venne trasmessa la notizia, Badalamenti commentò dicendo che quel delitto doveva essere stato un atto di spavalderia dei corleonesi».

I corleonesi di Totò Riina erano allora nel pieno della cosiddetta “Seconda guerra di mafia” contro i clan Inzerillo e Badalamenti. La guerra durò dal 1981 al 1984: causò, secondo una stima, circa 600 morti e si concluse con la vittoria dei corleonesi. Furono loro, dieci anni più tardi, gli autori delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e della strategia stragista contro lo Stato.

Nello stesso interrogatorio Buscetta rivelò a Falcone anche altro: «Badalamenti disse ancora che qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante del generale».

L’auto su cui erano Emanuela Setti Carraro e Carlo Alberto Dalla Chiesa (Ansa)

Pochi mesi prima di morire, precisamente il 6 aprile 1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato nominato prefetto di Palermo dal Consiglio dei ministri. Il governo, allora presieduto da Giovanni Spadolini, sperava che il generale riuscisse a ottenere, con la mafia siciliana, gli stessi risultati che aveva avuto nel contrasto al terrorismo, soprattutto grazie al cosiddetto “fenomeno del pentitismo”. Dalla Chiesa era infatti riuscito a spingere un consistente numero di militanti delle Brigate Rosse, di Prima Linea e di altre formazioni armate, a collaborare con la giustizia. Le loro rivelazioni avevano consentito centinaia di arresti e, di fatto, lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche.

Inizialmente Dalla Chiesa disse di essere stato molto perplesso e indeciso sulla risposta da dare alla proposta che gli era stata fatta dal governo. A convincerlo fu poi il ministro dell’Interno Virginio Rognoni con cui aveva collaborato a lungo nel periodo più duro di lotta al terrorismo.

Quando accettò l’incarico, Dalla Chiesa aveva 62 anni. Era nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, il 27 settembre 1920 ed era entrato nell’Arma dei Carabinieri durante la Seconda guerra mondiale. Aveva partecipato alla Resistenza e, dopo la Liberazione, si era impegnato contro il banditismo nelle campagne, prima in Campania e poi in Sicilia. Era stato comandante della Legione di Palermo dal 1967 al 1973, e poi generale di brigata a Torino. Aveva creato e comandato il Nucleo speciale antiterrorismo; nel 1978 era stato nominato “Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo” con poteri speciali. Comandò poi la divisione Pastrengo (un’unità militare) a Milano e nel 1981 divenne vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri.

Carlo Alberto Dalla Chiesa (Ansa)

A Palermo si insediò il 30 aprile del 1982. Quel giorno, in piazza generale Turba alle 9 e 20 del mattino, venne assassinato Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano e autore della legge che aveva introdotto il reato di “associazione di tipo mafioso”.

Il governo aveva assicurato a Dalla Chiesa che lo avrebbe dotato di “poteri speciali”, così come era stato per la lotta al terrorismo. In un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca per Repubblica tre settimane prima di essere ucciso, però, Dalla Chiesa disse di essere in attesa che il governo gli fornisse quegli strumenti che lui aveva chiesto per la lotta alla mafia. Spiegò «non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati» e poi disse: «Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze». E aggiunse: «Chiunque pensasse di combattere la mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo».

In quella lunga intervista Dalla Chiesa diceva di essere comunque ottimista, «sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire».

Due mesi dopo l’arrivo a Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva sposato in seconde nozze Emanuela Setti Carraro, che aveva allora 32 anni. Il matrimonio era stato celebrato in Trentino il 10 luglio.

Carlo Alberto Dalla Chiesa ed Emanuela Setti Carraro pochi giorni dopo il matrimonio (Ansa)

L’agguato del 3 settembre venne preparato per settimane nel cosiddetto “fondo Pipitone”, nel quartiere dell’Acquasanta di Palermo, vicino ai cantieri navali. La famiglia mafiosa Galatolo, che controllava la zona, mise a disposizione la proprietà per farne il quartier generale in cui pianificare l’attentato. Totò Riina assegnò il compito di organizzare l’omicidio ad Antonino Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino e Pino Greco detto Scarpuzzedda. Vennero studiate strade, itinerari, possibili punti dove colpire. Alle riunioni preparatorie parteciparono anche quelli che avrebbero dovuto eseguire il colpo, i cosiddetti “soldati”: Giuseppe Lucchese, Raffaele Ganci, Antonino Rotolo, Giovanni Montisi, Francesco Paolo Anzelmo e Vincenzo Galatolo.

Furono poi Anzelmo e Ganci, nel Duemila, dopo essere diventati collaboratori di giustizia, a raccontare ai magistrati come venne preparato e come si svolse l’attentato. 

La mattina del 3 settembre Emanuela Setti Carraro parlò con la madre al telefono e le disse di non poter andare a Milano perché avrebbe dovuto lasciare il marito da solo. Disse anche che erano stati dimenticati da coloro che li avrebbero dovuti tutelare. Come ricorda Luciano Mirone nel libro A Palermo per morire, il magistrato Giuseppe Ayala, pubblico ministero al maxiprocesso contro la mafia, disse che «c’era uno scenario inquietante, non si capiva perché il governo non gli desse i poteri che gli aveva promesso. Lui pressava e loro nicchiavano. Ci fu la netta sensazione che fosse stato mandato in Sicilia e poi abbandonato a se stesso perché c’erano pezzi dello Stato contrari al conferimento di questi poteri, pezzi dello Stato che non lavorano nell’interesse dello Stato».

Domenico Russo (ANSA / ARCHIVIO STORICO)

Nel pomeriggio del 3 settembre 11 uomini della mafia si riunirono al fondo Pipitone e da lì andarono in un garage di proprietà di Antonino Madonia, dove presero auto e moto precedentemente rubate. Quindi tornarono al fondo Pipitone e ne uscirono poco prima delle 19. Si fermarono in uno slargo all’inizio di via Carini.

Quella sera Emanuela Setti Carraro andò in prefettura a prendere il marito. I due uscirono da villa Whitaker, sede della prefettura, alle 21 e Dalla Chiesa disse a Roberto Sorge, il suo capo di gabinetto: «Stiamo andando a Mondello a mangiare il pesce». 

L’auto dei coniugi Dalla Chiesa imboccò via Carini alle 21 e 10. Di quello che successe dopo Giovanni Falcone scrisse: «Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo venivano attaccati e investiti da una pioggia di piombo che cagionava la morte dei tre maciullandone ferocemente e svisandone quasi del tutto i lineamenti del viso. Alle forze dell’ordine si presentò una scena pietosamente agghiacciante». 

A sparare contro Dalla Chiesa e Setti Carraro fu Antonino Madonia che era a bordo di una BMW con Calogero Ganci. Domenico Russo fu ucciso da Pino Greco “Scarpuzzedda” che era su una delle due moto. La Fiat 131 guidata da Anzelmo aveva una funzione di scorta. Le moto e le auto usate nell’agguato furono successivamente bruciate.

Gli investigatori si interrogarono a lungo sul motivo per cui fu uccisa anche Emanuela Setti Carraro. La mafia aveva come regola, però già infranta altre volte, quella di non uccidere le donne. Ayala disse che «Non c’è dubbio che il codice mafioso non prevedeva l’uccisione di una donna. Fu detto che la povera Emanuela potesse essere destinataria degli sfoghi e delle confidenze del generale ma processualmente è rimasto un punto interrogativo…».

Poco dopo l’agguato in via Carini, qualcuno entrò nella residenza del generale e svuotò la cassaforte. Nel libro di Mirone, Nando Dalla Chiesa, figlio del generale, ricorda: «Il mattino andammo a Palermo, vedemmo la cassaforte e cercammo di capire cosa ci fosse dentro. Cercammo la chiave, non si trovava. Allora chiedemmo al personale “Dov’è la chiave?”, qualcuno ci disse che la cassaforte era stata aperta ma non era stato trovato niente. Ci mostrarono un cassetto dove io e Rita avevamo già guardato ma era vuoto. La cassaforte era stata aperta e svuotata la notte dell’omicidio, poi fu fatta sparire la chiave che ben tre giorni dopo fu fatta ritrovare nel cassetto dove avevamo guardato. Un classico dei servizi segreti».

Il funerale si svolse il giorno dopo, 4 settembre, nella chiesa di San Domenico. Tranne il presidente della Repubblica Sandro Pertini, le autorità presenti vennero fischiate. Il ministro Rognoni rischiò di essere colpito da una bottiglia lanciata dalla folla. Giulio Andreotti non andò. Quando il giornalista Giampaolo Pansa gli chiese il motivo lui rispose: «Preferisco andare ai battesimi». Il cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, nell’omelia citò Tito Livio: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», cioè «mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata». E aggiunse: «Stavolta non è Sagunto a essere espugnata, ma Palermo. Povera Palermo nostra».

Il ministro dell’Interno Virginio Rognoni lascia, dopo le contestazioni, la chiesa di San Domenico (Ansa Archivio)

Per l’omicidio di Emanuela Setti Carraro, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Domenico Russo, furono condannati all’ergastolo come mandanti Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Come esecutori materiali, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia furono condannati all’ergastolo, mentre Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci furono condannati a 14 anni di carcere ciascuno. Gli altri esecutori dell’attentato nel frattempo erano morti.

Il 4 settembre 2013 Totò Riina venne intercettato nel carcere di Opera, a Milano, mentre discuteva con un altro detenuto dell’omicidio Dalla Chiesa:

Perciò appena è uscito lui con sua moglie … lo abbiamo seguito a distanza … tun … tun …. Potevo farlo là, per essere più spettacolare nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio.

A primo colpo, a primo colpo abbiamo fatto… eravamo qualche sette, otto… di quelli terribili… eravamo terribili… L’A112 … 0 uno, due tre erano appresso… eh… l’abbiamo ammazzato; nel frattempo… altri due o tre … … lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato… là dove stava, appena è uscito fa … ta … ta .. , ta … ed è morto. 

E poi, ancora:

Questo qua cominciò da Corleone. L’hanno fatto tenente a Corleone, nella caserma di Corleone… E Corleone lo disossò.