Negli Stati Uniti c’è un certo interesse per l’“altruismo efficace”
È un approccio alla beneficenza teorizzato da un influente e facoltoso gruppo di pensatori e imprenditori, non esente da critiche
Nelle ultime settimane diversi giornali e siti di news statunitensi hanno dedicato ampio spazio – il TIME anche la copertina di un numero – a un influente movimento sorto verso la fine degli anni Duemila e da tempo noto come «altruismo efficace» (effective altruism, EA). È parte di una sottocultura anglosassone che sostiene e finanzia stabilmente numerose attività filantropiche, gestendo risorse nell’ordine di decine di miliardi di dollari all’anno, e a cui fanno capo molti facoltosi imprenditori e pensatori della Silicon Valley, tra cui il CEO e cofondatore della società di criptovalute FTX Sam Bankman-Fried e il co-fondatore di Facebook Dustin Moskovitz.
Il trentacinquenne filosofo scozzese William MacAskill è considerato l’autore di riferimento del movimento. Il suo libro più recente, What We Owe the Future, in cui sostiene «che influenzare positivamente il futuro a lungo termine sia una priorità morale chiave del nostro tempo», è da settimane oggetto di recensioni critiche e approfondimenti. E viene considerato il segno di un’evoluzione del movimento, oggi molto interessato a questioni come gli sviluppi futuri dell’intelligenza artificiale, per esempio, ma in passato più interessato a obiettivi a breve termine come la prevenzione delle malattie nei paesi in via di sviluppo o la riduzione degli allevamenti intensivi.
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Del movimento dell’altruismo efficace si sta parlando molto in relazione sia all’attuale capacità di influenza del dibattito che al potere politico acquisito nel corso degli ultimi anni, conseguenza della cospicua quantità di risorse filantropiche che il movimento amministra. E che in parte sono state destinate direttamente alla politica americana sotto forma di finanziamenti delle campagne elettorali: è avvenuto sia durante le presidenziali del 2020, sia in elezioni locali (e, come preannunciato da Bankman-Fried, avverrà anche durante le prossime presidenziali nel 2024).
In termini più generali e teorici, si parla di altruismo efficace perché molte delle riflessioni condivise da MacAskill e dai suoi sostenitori pongono dilemmi etici e questioni da tempo alla base della problematica definizione dei comportamenti umani, politici e morali maggiormente compatibili con il bene comune, sia quello presente sia quello futuro.
All’altruismo efficace viene in particolare contestato un limite che molte persone – comprese alcune all’interno del movimento stesso – attribuiscono anche ad altri approcci alla filantropia nei paesi occidentali: di essere, nonostante ogni buona intenzione e pretesa di efficacia, una parte del problema anziché una soluzione. E lo sarebbe nella misura in cui le attività collegate al movimento, secondo i suoi critici, non mettono in discussione né alterano in concreto le strutture e lo status quo da cui dipendono diseguaglianze e ingiustizie, agendo sui sintomi invece che sulle cause della povertà.
Le origini del movimento
L’origine dell’espressione «altruismo efficace» viene fatta risalire a riflessioni portate avanti fin dalla fine degli anni Duemila da MacAskill e dal filosofo australiano Toby Ord all’Università di Oxford, dove entrambi lavorano oggi come responsabili di due importanti centri di ricerca (rispettivamente, il Global Priorities Institute e il Future of Humanity Institute). MacAskill e Ord fondarono nel 2009 l’organizzazione Giving What We Can (GWWC), i cui membri si impegnano a donare ogni anno in beneficenza almeno il 10 per cento del proprio reddito.
Due anni dopo, MacAskill fondò insieme a un altro collega a Oxford il gruppo 80.000 Hours, collegato a GWWC e pensato per fornire a studenti e studentesse consigli di «ottimizzazione etica della vita» (80 mila ore sarebbero quelle di lavoro calcolate moltiplicando 40 ore per 50 settimane per 40 anni). L’obiettivo del progetto è suggerire sulla base delle attitudini e delle abilità individuali di ciascuno le carriere professionali che possono essere più di aiuto per altre persone.
All’epoca, nel 2011, come racconta il New Yorker in un lungo articolo, MacAskill tenne una seguita conferenza a Oxford intitolata «Medico, lavoratore in una ONG, o qualcos’altro? Quali carriere fanno più bene». Secondo MacAskill, fare il medico in un paese povero avrebbe forse potuto portare a salvare complessivamente qualcosa come 140 vite durante tutta una carriera. Ma accettare un lavoro nella finanza o in una società di consulenza avrebbe potuto salvarne dieci volte di più, a patto di donare stabilmente e in modo intelligente parte del proprio reddito.
Il nome «altruismo efficace» fu la proposta più votata tra i membri di Giving What We Can e 80.000 Hours al momento di scegliere il nome da dare al progetto di beneficenza fondato nel 2011 dall’unione dei due gruppi: Centre for Effective Altruism. Alla base di quel movimento e delle scelte dei suoi sostenitori, riassume il New Yorker, c’era il presupposto che le persone debbano «fare del bene nel modo più chiaro, ambizioso e spassionato possibile».
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Il principale riferimento intellettuale del gruppo era il filosofo australiano Peter Singer, da tempo noto per le sue riflessioni nell’ambito delle filosofie animaliste ma anche per il tema dell’altruismo efficace da lui approfondito nel libro La cosa migliore che tu puoi fare. Già in un saggio del 1972, intitolato Carestia, ricchezza e morale, Singer aveva proposto un esperimento mentale poi divenuto molto famoso e spesso citato tra i sostenitori dell’altruismo efficace.
Secondo Singer, se un bambino sta annegando in uno stagno poco profondo e ci troviamo a passare da lì, presumibilmente correremo in aiuto di quel bambino senza preoccuparci affatto di sporcarci i vestiti nel tentativo di salvarlo. Se ammettiamo come moralmente irrilevante il posto in cui si trovi il bambino – se in uno stagno vicino a noi o in uno distante migliaia di chilometri – utilizzare risorse per beni superflui anziché per le donazioni, secondo Singer, equivale a scegliere di non aiutare un bambino che rischia di morire annegato solo perché si ha paura di sporcarsi i vestiti.
Singer scrisse che «la trasformazione del mondo in un “villaggio globale” ha creato un’importante, anche se non ancora riconosciuta, differenza nella nostra situazione morale». Ma aggiunse che «se è in nostro potere impedire un male, senza con ciò sacrificare nulla che abbia un’analoga importanza morale, allora siamo di fronte all’obbligo morale di agire».
Nel libro La cosa migliore che tu puoi fare Singer citò come esempio di altruismo efficace la storia di Zell Kravinsky, un dottorando in scienze della educazione alla University of Pennsylvania che aveva lasciato gli studi per lavorare nel settore degli investimenti immobiliari e ottenere redditi maggiori. Come raccontato anche in un articolo che il New Yorker gli dedicò nel 2004, Kravinsky investì quasi tutto il suo patrimonio di 45 milioni di dollari in beneficenza, lasciando da parte circa 60 mila dollari all’anno per sé e la sua famiglia.
Pensando di non avere ancora fatto abbastanza per le altre persone, Kravinsky si accordò con un ospedale a Philadelphia per donare un rene a una donna sconosciuta che ne aveva bisogno. Citando studi che indicavano il rischio di morire per una donazione di un rene pari a un caso su 4 mila, disse che rifiutarsi di donare un rene sarebbe equivalso ad attribuire alla propria vita un valore 4 mila volte superiore rispetto a quello della vita di un estraneo. E riteneva questa presunzione totalmente ingiustificata. Il motivo per cui molte persone non capivano il suo desiderio di donare un rene, disse al New Yorker, è che «non capiscono la matematica».
L’approccio analitico alle donazioni
Il giro dei sostenitori dell’altruismo efficace, influenzato dalle riflessioni di Singer e di cui MacAskill e Ord furono considerati i capiscuola fin dai primi anni Dieci del Duemila, attrasse da subito molte persone interessate a «conciliare un’ampia sensibilità morale con un atteggiamento mentale analitico», racconta il New Yorker. Ritenevano che ogni comportamento debba essere oggetto di valutazioni non basate sulla conformità a regole universali, ma sulla base dei risultati che quei comportamenti producono.
Consideravano quindi ogni possibile atto morale in termini di ottimizzazione, con l’obiettivo di ottenere «il massimo bene per il maggior numero di persone», riprendendo una nozione filosofica nota come utilitarismo. E credevano fosse evidentemente preferibile salvare molte vite ogni anno tramite donazioni anziché sentirsi eroicamente appagati per tutta la vita dopo aver salvato, per esempio, una decina di persone da un edificio in fiamme.
Di quel giro facevano parte studenti come Matt Wage, all’epoca allievo di Singer alla Princeton University. Invece di proseguire gli studi di specializzazione in filosofia, Wage trovò impiego nella finanza e cominciò a destinare metà del proprio reddito in beneficenza. «Puoi pagare per la fornitura e l’addestramento di un cane guida per una persona americana non vedente, a un costo complessivo di circa 40 mila dollari», disse Wage al Washington Post. «Ma con quei soldi potresti anche curare dalla cecità da glaucoma tra 400 e 2 mila persone nei paesi in via di sviluppo, a un costo di circa 20 dollari a persona», aggiunse.
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Secondo MacAskill e Ord, se si ammette che sia un obbligo morale dei residenti dei paesi più ricchi aiutare quelli dei paesi meno ricchi, è moralmente obbligatorio per quelle persone trovare anche i modi più convenienti di aiutare. Che è il punto in cui generalmente sorgono difficoltà e divergenze.
Analizzando nel 2005 un vecchio rapporto della Banca Mondiale sugli interventi per il controllo delle malattie nei paesi in via di sviluppo – rapporto in cui i benefici erano misurati in vite salvate e anni di vita che potevano essere assicurati alle popolazioni – Ord si soffermò sul profondo squilibrio relativo all’efficacia presunta dei vari interventi. «I migliori interventi oggetto di studi erano di circa 10 mila volte migliori rispetto a quelli meno validi», ha detto Ord al sito Vox.
L’interesse riguardo alle opportunità più convenienti ed efficaci per fare donazioni era condiviso anche negli Stati Uniti all’interno di altre organizzazioni, come per esempio l’associazione non profit GiveWell, fondata nel 2007 a New York dai due ex analisti finanziari Holden Karnofsky ed Elie Hassenfeld. L’obiettivo di GiveWell era fornire indicazioni ai donatori e raccomandazioni di determinati enti di beneficenza sulla base della valutazione del rapporto tra costi ed efficacia degli interventi.
Le risorse economiche e le prospettive
All’altruismo efficace e, in particolare, al lavoro di GiveWell si interessarono dal 2011 anche il cofondatore di Facebook Dustin Moskovitz, che aveva lasciato l’azienda nel 2008, e l’ex giornalista del Wall Street Journal e moglie di Moskovitz Cari Tuna. Dalla collaborazione tra GiveWell e un’associazione di beneficenza fondata da Moskovitz e Tuna (Good Ventures) nacque nel 2014 il progetto Open Philanthropy, il cui principale obiettivo era trovare i modi più efficienti di utilizzare le cospicue risorse destinate in beneficenza da Moskovitz e Tuna.
Più o meno nello stesso periodo Tuna e Moskovitz, il cui attuale patrimonio stimato è di 13 miliardi di dollari, furono anche tra i primi ad aderire alla Giving Pledge di Warren Buffett e Bill Gates, una campagna che chiede ai miliardari di tutto il mondo di impegnarsi a donare in beneficenza almeno la metà del proprio patrimonio.
Per la vastità delle risorse che gestisce, oltre che per il rigore da molti attribuito ai suoi rapporti di ricerca sulle aree e sugli enti da finanziare, nel tempo Open Philanthropy è diventata «di gran lunga l’entità singola più potente nel mondo dell’altruismo efficace», ha scritto Vox. E nel corso degli anni è stata responsabile, tra le altre cose, di estesi investimenti in iniziative di sviluppo internazionale, programmi di riforma del sistema penale statunitense e campagne per il benessere degli animali da allevamento.
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Oltre a quello di Tuna e Moskovitz, l’altruismo efficace attirò l’interesse di altri facoltosi imprenditori tra cui il trentenne CEO di FTX Sam Bankman-Fried, fin dagli anni dei suoi studi in fisica al Massachusetts Institute of Technology (MIT), tra il 2010 e il 2014. Bankman-Fried, che è sia membro dell’organizzazione di Ord e MacAskill Giving What We Can che tra i firmatari della Giving Pledge, ha affermato in più occasioni di volere donare nel corso della sua vita la maggior parte del suo patrimonio – stimato intorno a 20 miliardi di dollari – a enti di beneficenza efficaci.
Il flusso costante di miliardari che scelgono di sostenere l’altruismo efficace, ha scritto Vox, ha procurato ingenti disponibilità economiche ma ha generato allo stesso tempo «grande incertezza su dove mettere tutto quanto, incertezza che tende a crescere piuttosto che diminuire con le fortune del movimento».
Nel 2021 il cofondatore di 80.000 Hours Ben Todd stimò che il movimento disponeva complessivamente di circa 46 miliardi di dollari: una somma in crescita del 37 per cento ogni anno dal 2015 ma di cui soltanto l’1 per cento è stato investito ogni anno.
Rischi e incertezze sono legati inoltre alle frequenti oscillazioni di mercato che condizionano i patrimoni da cui dipendono molte delle risorse a disposizione del movimento. Secondo stime di Bloomberg, a causa del crollo del mercato delle criptovalute a giugno scorso il patrimonio di Bankman-Fried è passato da 25,9 miliardi di dollari il 29 marzo a 8,1 miliardi il 30 giugno. E un discorso simile vale in parte anche per le ripercussioni del valore delle azioni di Meta e di altre aziende sul patrimonio di Tuna e Moskovitz.
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I programmi a lungo termine
In tempi più recenti, come spiegato da MacAskill in What We Owe the Future, l’interesse del movimento si è spostato verso obiettivi a lungo termine. E questo è avvenuto in un modo così condiviso e sistematico da indurre MacAskill e altri autori vicini al movimento a descrivere questa evoluzione come una corrente di pensiero, attraverso l’espressione «longtermism» (qualcosa come «lungoterminismo»).
Insieme ad altri suoi colleghi di lavoro, Bankman-Fried ha annunciato a febbraio il progetto Future Fund, un fondo con cui collabora anche MacAskill e il cui obiettivo è «migliorare le prospettive a lungo termine dell’umanità» attraverso lo «sviluppo sicuro dell’intelligenza artificiale, la riduzione del biorischio catastrofico, il miglioramento delle istituzioni, la crescita economica» e altre misure. A giugno Future Fund ha annunciato di aver già distribuito 132 milioni di dollari.
La politica del lungo termine ha portato di fatto a considerare come aree di intervento prioritario quelle che mettono a rischio l’esistenza futura delle persone anziché quella strettamente presente. Tramite Open Philanthropy e altre organizzazioni legate al movimento, molte donazioni sono confluite in progetti di prevenzione delle guerre nucleari e delle pandemie, un’area che generava molta preoccupazione tra i sostenitori dell’altruismo efficace già prima della pandemia da coronavirus.
Tra i progetti, per esempio, ce ne sono alcuni che prevedono lo sviluppo di «sistemi di rilevamento precoce per agenti patogeni sconosciuti» e altri che cercano di sviluppare fonti alimentari coltivabili anche in assenza di luce solare.
Le preoccupazioni più recenti riguardano invece l’evoluzione dell’intelligenza artificiale, e sono legate a convinzioni molto diffuse all’interno del movimento, sebbene non pienamente condivise. Secondo queste convinzioni i futuri sistemi di intelligenza artificiale potrebbero avere un impatto negativo nella misura in cui, nel giro di pochi decenni, potrebbero rendere impossibile per gli esseri umani il controllo di quei sistemi.
Per esempio, strumenti biotecnologici di editing genetico sempre più evoluti, diffusi ed economici potrebbero permettere a uno scienziato di creare un batterio in grado di mettere potenzialmente a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Oppure, come in un famoso esperimento mentale proposto dal filosofo svedese Nick Bostrom, un’intelligenza artificiale benintenzionata potrebbe trasformare una semplice direttiva riguardo alla produzione di graffette in un’incontrollata ottimizzazione del lavoro che utilizzi tutti gli atomi dell’universo per realizzarle.
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L’attenzione alle iniziative di lungo termine è considerata da una parte del movimento una contraddizione rispetto ai principi originari dell’altruismo efficace. Secondo i suoi critici sarebbe pretestuosa: un modo per finanziare ricerche informatiche nei paesi sviluppati anziché occuparsi di povertà e altre questioni più urgenti nei paesi del sud del mondo.
Un’altra contraddizione risiederebbe nel fatto che proprio i laboratori responsabili dei più recenti e importanti sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale hanno beneficiato in passato di cospicue donazioni da parte di enti legati all’altruismo efficace. Uno dei primi investimenti di Open Philanthropy fu una sovvenzione di 30 milioni di dollari nel 2017 a OpenAI, l’organizzazione non profit responsabile di innovazioni come le intelligenze artificiali generative GPT-3 e DALL-E.
Da un lato tali sovvenzioni sono intese dal movimento dell’altruismo efficace come un modo per permettere di «svolgere efficacemente ricerche tecniche sulla sicurezza dell’intelligenza artificiale». Ma dall’altro, ha scritto Vox, non possiamo sapere se queste ricerche hanno semplicemente accelerato i progressi «in un modo che amplifica i pericoli che l’intelligenza artificiale rappresenta».
Le critiche all’altruismo efficace
Al netto delle obiezioni ai programmi di lungo termine, da alcuni considerati pretestuosi e fumosi, l’altruismo efficace è da tempo oggetto di critiche più estese che interessano in generale anche altre forme di filantropia nei paesi sviluppati. L’opinione condivisa tra i critici è che in tutti questi anni l’altruismo efficace non abbia prodotto alcuna sostanziale alterazione di ordini e sistemi che sono da alcuni ritenuti causa stessa delle disuguaglianze nel mondo.
«L’altruismo a lungo termine e l’altruismo efficace hanno molte intuizioni preziose ma soffrono degli stessi problemi di qualsiasi ideologia della classe dirigente: finiscono per servire in gran parte come giustificazioni per il governo delle élite attuali».
Long-termism and effective altruism have lots of valuable insights, but they suffer from the same problems as any ideology of the ruling class: they end up largely serving as justifications for the rule of current elites.
— Max Berger (@maxberger) August 21, 2022
Nel 2015, recensendo un libro di MacAskill sulla rivista London Review of Books, la filosofa e docente di teoria politica all’Università di Oxford Amia Srinivasan attribuì ai sostenitori dell’altruismo efficace una prospettiva più da «capitalisti benevoli» che da altruisti in senso profondo, definendoli «uomini bianchi della classe media che combattono la povertà attraverso mezzi ampiamente convenzionali». Ma attribuì alla retorica del movimento anche una fondamentale e preziosa capacità di condizionare positivamente le persone, favorendo un «cambiamento sistemico» su questioni come gli allevamenti intensivi.
In un recente articolo pubblicato sul Wall Street Journal e intitolato L’altruismo efficace non è né l’uno né l’altro, l’investitore americano Andy Kessler ha scritto che miliardari come Bankman-Fried hanno accumulato ingenti risorse sfruttando pienamente il sistema in cui operavano, non tentando di scardinarlo. Ha inoltre ricordato che, per quanto siano considerate affidabili da alcuni, le valutazioni fatte da organizzazioni come GiveWell sulla presunta efficacia di certe misure altruistiche sono pur sempre contestabili.
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Kessler ha poi ricordato che Bankman-Fried, uno dei principali autori di donazioni a sostegno della campagna del presidente Joe Biden nel 2020, ha recentemente affermato di voler donare una somma compresa tra 100 milioni e un miliardo di dollari per le presidenziali del 2024.
La tendenza del movimento a finanziare tramite donazioni alcune campagne politiche anziché altre è descritta da Kessler come «non esattamente altruistica». Parlando delle iniziative sostenute dall’altruismo efficace riguardo alla prevenzione delle pandemie, Kessler ha citato una donazione da 19 milioni di dollari per l’organizzazione di un referendum in California. La legge oggetto del referendum (California Pandemic Early Detection and Prevention Institute Initiative) prevede un aumento delle tasse dello 0,75 per cento per 10 anni per i redditi superiori a 5 milioni di dollari, in modo da raccogliere fino a 15 miliardi in 10 anni.
È il classico programma dei progressisti: aumentare le tasse per finanziare i loro progetti preferiti ma non i tuoi o i miei. Non mi interessa se gli altruisti spendono i propri soldi cercando di prevenire i rischi futuri legati alle invasioni dei robot o alle nanotecnologie autoreplicanti, però dovrebbero smettere di chiedere ai contribuenti americani di sprecare soldi per le loro bizzarre preoccupazioni.
Altri critici dell’altruismo efficace, al contrario di Kessler, ritengono invece che le tasse siano il migliore strumento per cercare di contrastare le disuguaglianze. E che siano le tasse, e non la beneficenza, il modo più appropriato di coinvolgere i miliardari nella redistribuzione delle ricchezze. La maggior parte degli atti di filantropia, come afferma la ricercatrice americana in scienze politiche Emma Saunders-Hastings, sono piuttosto «usurpazioni dell’autorità pubblica», che «impongono gerarchie di giudizio e status» e «sovvertono preziose relazioni di uguaglianza sociale e politica».