L’abolizione del numero chiuso all’università risolverebbe la carenza di medici?
La propone la Lega, ma non è così semplice: anche perché bisognerebbe comunque introdurre una forma di selezione
Il segretario della Lega Matteo Salvini è tornato a proporre l’abolizione delle iscrizioni a numero chiuso ai corsi di medicina con l’obiettivo di risolvere la carenza di medici e mediche negli ospedali italiani. È una misura che negli ultimi anni ha ricevuto ciclicamente molte attenzioni, in particolare durante il periodo dell’emergenza del coronavirus, quando l’assistenza sanitaria è stata spesso carente. Salvini ha spiegato che l’abolizione del numero chiuso non costa nulla allo stato, premia il merito e contrasta la carenza di medici. «È semplice buonsenso: io credo nei giovani italiani», ha scritto sui suoi profili social.
In realtà la questione non è così semplice, perché i meccanismi di accesso alla professione medica riguardano settori e responsabilità diverse come l’università e le strutture sanitarie, e soprattutto perché c’è un significativo ritardo tra le decisioni e gli effetti delle stesse: gli attuali problemi, infatti, sono il risultato di un lavoro di programmazione approssimativo da parte di molti dei governi che si sono succeduti negli ultimi due decenni. Salvini, così come è successo ad altri politici in passato, sembra trascurare il fatto che le decisioni prese oggi avranno effetto soltanto tra qualche anno: l’abolizione del numero chiuso – che si dovrebbe chiamare più correttamente numero programmato – secondo molti esperti e diversi sindacati non serve a risolvere l’attuale carenza dei medici.
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Oggi una persona che vuole diventare medico deve superare due grosse barriere di accesso, nella formazione e nella professione. La prima è il test di ingresso alle facoltà di medicina e chirurgia, che mettono a disposizione su base nazionale un numero limitato di posti. Il prossimo test di ingresso, per esempio, garantirà l’accesso alle facoltà di medicina a 14.740 persone a fronte delle circa 60mila persone che ogni anno si candidano per un posto (si parla per questo di numero programmato, mentre a rigore sono a numero chiuso le singole facoltà, che decidono quanti studenti ammettere e si occupano localmente dei test).
La seconda barriera consiste nella specializzazione richiesta per l’assunzione negli ospedali. In breve, i medici specialisti per diventare tali devono vincere un concorso nazionale del ministero dell’Istruzione e ottenere una borsa di studio per praticare una specializzazione in ospedale. Una volta specializzati, possono partecipare ai concorsi per essere assunti a tempo indeterminato dal servizio sanitario nazionale (SSN).
Il percorso per diventare medici di famiglia è leggermente diverso: se una persona si è laureata dopo il 1994 può partecipare a un esame che permette di accedere al corso di formazione specifica in medicina generale, organizzato e finanziato con borse di studio dalle Regioni e non dalle università. Concluso questo corso, i medici possono entrare nelle graduatorie regionali e convenzionarsi con il servizio sanitario nazionale come medico di famiglia.
L’ingresso a numero chiuso nelle università e il numero di borse di studio messe a disposizione ogni anno determinano quindi la quantità di medici e mediche che in futuro lavoreranno negli ospedali e sul territorio come medici di famiglia.
La programmazione, per essere ottimale, dovrebbe tenere conto di diversi indicatori: quanti professionisti sono prossimi alla pensione, quanti e quali servizi servono agli ospedali, quanti medici abbandonano gli studi, quanti decidono di lasciare le strutture pubbliche per passare al privato. Secondo una stima di ANAAO Assomed, uno dei principali sindacati di medici ospedalieri, entro il 2024 mancheranno almeno 40mila medici a causa della programmazione sbagliata.
Questo problema è il risultato di previsioni approssimative, tagli e correttivi insufficienti. Ci sono stati periodi, come all’inizio degli anni Settanta, in cui sono stati formati molti più medici di quanti ne servissero, e altre fasi in cui le borse di studio e in generale le risorse economiche per la sanità sono state ridotte in modo eccessivo, come nei dieci anni tra il 2010 e il 2020.
Quando la quantità di borse di studio per le specializzazioni non è sufficiente a garantire un posto alle persone appena laureate si crea uno squilibrio che i sindacati chiamano “imbuto formativo”. Negli ultimi anni molti medici laureati non hanno potuto accedere ai corsi di specializzazione perché sono state messe a disposizione poche borse di studio. Per rimediare all’imbuto formativo, con l’ultima legge di Bilancio è stato deciso di finanziare 12mila borse di studio ogni anno.
I calcoli fatti da ANAAO Assomed aiutano a capire quale sarà la situazione nei prossimi anni. Nell’anno accademico 2021/2022 le iscrizioni nelle università sono state portate a 14mila: questi studenti termineranno gli studi tra il 2031 e il 2032 e solo a quel punto potranno lavorare. L’analisi dell’andamento degli ultimi anni mostra che circa 13mila persone arriveranno alla laurea, al netto degli abbandoni. Duemila di loro seguiranno il corso di formazione per diventare medici di famiglia, mentre 11mila diventeranno specialisti. Quindi non mancano e non mancheranno medici, cioè laureati in medicina e chirurgia, visto che tra il 2021 e il 2030 se ne formeranno circa 117mila. «Chi in piena corsa al voto vuole abolire lo sbarramento a medicina non ha capito nulla dei problemi della formazione dei medici e del servizio sanitario nazionale», ha detto Pierino Di Silverio, segretario nazionale dell’ANAAO Assomed. «Come può una università sostenere 60mila iscritti ogni anno? Con i maxischermi in piazza? E poi come si garantiscono le specializzazioni?».
Il rischio, secondo il sindacato, è che anche l’aumento delle borse di studio deciso con l’ultima legge di Bilancio non risolverà i problemi. Anzi, potrebbe crearne uno nuovo: l’imbuto lavorativo. Le 12mila borse di studio all’anno, infatti, non sembrano tenere conto delle esigenze né del territorio, né degli ospedali o del numero di professionisti che andranno in pensione.
Il fabbisogno per sostituire i pensionati nel servizio sanitario nazionale è stato stimato in 3.000 medici all’anno dopo il 2030 e 2.000 dal 2034. Anche considerando che una parte degli specializzandi sarà assunta dalle strutture private, almeno 6.000 nuovi medici pronti per lavorare avranno difficoltà a trovare un posto. «Questo è l’ennesimo risultato di una assenza di programmazione e di confronto con le parti. Non sempre i soldi risolvono i problemi, soprattutto se non utilizzati al meglio», ha detto Di Silverio.
I programmi dei principali partiti che si presentano alle prossime elezioni affrontano questi problemi in modo diverso. Secondo il PD il limite dell’imbuto formativo è stato definitivamente superato grazie alle borse di studio finanziate negli ultimi anni. «Adesso, forti di questo risultato che ci consente di guardare con maggiore fiducia al futuro della sanità pubblica, serve uno sforzo straordinario per superare l’attuale condizione di stanchezza ed insoddisfazione delle professioni sanitarie messe a dura prova dall’emergenza Covid», si legge nel programma.
Verdi e Sinistra Italiana propongono di assumere 40mila operatori sanitari nei prossimi tre anni «per riportare la dotazione di operatori ai livelli precedenti alla crisi, riducendo contestualmente la spesa per il lavoro precario, le collaborazioni esterne e le esternalizzazioni di servizi».
Azione, che insieme a Italia Viva forma il cosiddetto terzo polo, sostiene che la carenza dei medici si possa risolvere con «una più rapida ascesa di carriera in campo sanitario e una remunerazione adeguata al carico di lavoro e soprattutto alle responsabilità, così da limitare contestualmente il fenomeno dell’emigrazione di professionisti sanitari verso l’estero», una soluzione proposta anche dal Movimento 5 Stelle. In merito alla formazione dei medici, Azione spiega che è «fondamentale l’adozione di un contratto specifico di formazione e lavoro che superi il meccanismo delle borse di studio».
Nel programma di Fratelli d’Italia e di Forza Italia non ci sono indicazioni, mentre secondo la Lega la carenza dei medici è causata dal mancato ricambio dei medici pensionati «a causa soprattutto del numero chiuso imposto dall’università sia alle iscrizioni alla facoltà di Medicina e sia al numero delle borse di studio per l’accesso alle specializzazioni, indispensabili per essere assunti e inseriti nel servizio sanitario nazionale». La Lega sostiene che le iscrizioni debbano essere libere, senza test d’ingresso.
Nonostante le parole di Salvini, la proposta leghista prevede comunque alcune barriere: «al termine del primo semestre, sarà previsto un test nazionale su quesiti relativi alle sole materie studiate (come fisica, biologia, istologia e anatomia). Potranno sostenere il test annuale soltanto coloro che avranno superato tutti gli esami previsti dal piano di studi relativo al primo semestre comune. Gli studenti che avranno superato il test potranno perfezionare la loro iscrizione al corso di studi. Chi, invece, non sarà riuscito a superare tutti gli esami del primo semestre o a superare il test di ammissione dovrà abbandonare il percorso di studi. Tuttavia, sarà riconosciuta la convalida di tutti degli esami sostenuti per altri corsi di laurea».
Il modello a cui si ispira la proposta leghista è quello francese, che nel 2020 è stato riformato perché aveva alcuni limiti. Uno dei problemi più significativi di questo modello è la forte selezione, imposta dall’impossibilità di formare decine di migliaia di medici, che ogni anno causa una certa disillusione tra gli studenti costretti a cambiare indirizzo di studi. In Italia la tensione legata al processo di ammissione dura il tempo del test di ingresso, in Francia almeno sei mesi. «Togliere il numero chiuso rischierebbe di aprire le porte a studenti meno bravi e motivati e di ridurre la qualità della didattica», ha scritto sul Sole 24 Ore Giovanni Fattore, professore di economia sanitaria dell’università Bocconi. «La forte selezione all’ingresso ai corsi di laurea in medicina garantisce studenti con alte potenzialità e la possibilità ai corsi di laurea di insegnare in classi con pochi studenti, unendo alla formazione frontale attività di tutoraggio e attività pratiche».