I partiti avranno un controllo molto più forte sul prossimo parlamento
Per via della legge elettorale e della riduzione dei parlamentari, i leader potranno contare su una maggiore disciplina dei propri eletti
Le elezioni politiche del 25 settembre potrebbero cambiare radicalmente gli equilibri e i rapporti di forza nel parlamento italiano, stando a quanto dicono i sondaggi. Una cosa che cambierà di sicuro sarà il controllo che le dirigenze dei partiti avranno sui lavori del parlamento: da sfilacciato e imprevedibile per via di scissioni, liti interne e continui passaggi da un partito all’altro, una serie di circostanze consentirà ai leader politici di garantirsi almeno un paio di anni di presa molto salda sui propri eletti.
In generale, è normale che subito dopo un’elezione i leader possano contare su una maggiore fedeltà e disciplina tra i propri eletti: col proseguire della legislatura di solito poi subentrano malcontenti, si formano nuove correnti, cambiano i rapporti di forza interni, e dopo alcuni anni è comune che qualcuno se ne vada o faccia una forte opposizione interna, rendendo la vita più difficile alle segreterie di partito. Ma con le elezioni del 25 settembre ci saranno due nuovi fattori che aumenteranno ulteriormente il controllo iniziale dei leader sui partiti, e che probabilmente lo renderanno più duraturo: la riduzione del numero dei parlamentari, che passeranno da 945 eletti a 600 per via del referendum del 2020, e la legge elettorale con cui voteremo, il Rosatellum. Era in vigore già alle ultime elezioni politiche del 2018, ma con un terzo dei parlamentari in più e meccanismi ancora da scoprire, i partiti non sfruttarono a fondo il suo potenziale.
La legge fu elaborata in un periodo di grande frammentazione parlamentare, fra 2016 e 2017. Il partito che godeva della maggioranza dei seggi – il Partito Democratico – aveva come segretario Matteo Renzi, che era stato eletto a capo del partito quasi un anno dopo le elezioni del 2013. Renzi perciò si era ritrovato a inizio legislatura con gruppi parlamentari pieni di persone che non aveva scelto. Anche Matteo Salvini, eletto segretario federale della Lega a dicembre 2013, aveva un problema simile: le liste dei candidati erano state compilate dal suo predecessore Roberto Maroni. Non è un caso che la Lega sostenne convintamente l’approvazione del Rosatellum.
Il Rosatellum prevede che due terzi dei seggi vengano assegnati con un sistema proporzionale a listino “chiuso”. In ogni collegio ciascun partito presenta quattro candidati. Per come funziona la redistribuzione dei seggi dopo il voto, i partiti più grandi sono certi di eleggere il primo nome della lista, e in molti casi anche il secondo. I leader quindi al momento della compilazione delle liste hanno di fatto già deciso una buona parte dei parlamentari che verranno eletti col proprio partito. Del resto l’obiettivo del Rosatellum era proprio questo: «garantire ai leader di partito il controllo dei gruppi parlamentari generati dal voto», come ha notato il Corriere della Sera.
Con la riduzione dei posti in parlamento, poi, ci sarà una differenza piuttosto intuitiva: per un grosso partito tenere a bada e controllare meno persone sarà più facile. Se per esempio il Partito Democratico eleggerà un’ottantina di deputati, saranno meno quelli che potenzialmente potrebbero contestare la linea del partito, rispetto al centinaio che ha attualmente. È anche vero che un singolo deputato avrà più potere, e anche per questo compilare le liste è diventato un momento più delicato. «Meno sono i posti da spartire, più importante diventa controllarli», ha commentato la giornalista politica Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa.
Le cronache politiche delle scorse settimane, prima del termine del 22 agosto per consegnare le liste elettorali, hanno raccontato degli sforzi di diversi leader di partito di riempire le liste di persone fidate in posti sicuri di elezione. Enrico Letta del Partito Democratico ha ridotto moltissimo la presenza in lista degli ex “renziani” e premiato diversi dirigenti a lui vicini. Matteo Salvini ha escluso dalle liste molti parlamentari della Lega vicini al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, considerato un suo rivale interno. «Di giorgettiani, nel prossimo parlamento, rischia di non esserci più nessuno», ha detto al Foglio una fonte interna al partito. Anche Giuseppe Conte ha di fatto scavalcato le primarie interne del M5S, le cosiddette “parlamentarie”, facendo approvare dagli iscritti al partito una lista di 15 nomi scelti da lui che sono stati piazzati nei posti più favorevoli delle liste.
Certo, molto dipenderà anche dal risultato elettorale: se la Lega otterrà una percentuale deludente, diciamo inferiore al 10 per cento, e decidesse di rimuovere Matteo Salvini, il nuovo segretario si ritroverebbe con liste fatte da un’altra persona (esattamente come capitò a Salvini nel 2014). Al momento però nessun partito sembra sulla traiettoria di un disastro elettorale.
Un maggiore controllo del parlamento da parte dei partiti può avere una serie di vantaggi. Avere meno oppositori interni potrebbe significare per esempio portare a un iter legislativo più spedito di alcune misure: non è un caso che dal punto di vista delle riforme il primo governo guidato da Giuseppe Conte, sebbene sia durato solo un anno, fu molto più prolifico del secondo, arrivato a metà della legislatura.
I rischi di una minore eterogeneità nei nuovi parlamentari invece sono abbastanza evidenti. Se un deputato o un senatore deve la propria elezione esclusivamente al segretario del proprio partito, sarà spinto a privilegiare la fedeltà nei suoi confronti rispetto ad altri criteri con cui valutare provvedimenti e decisioni politiche. «Il rapporto con il territorio sfuma, così come le capacità e il ruolo delle singole personalità politiche diventano irrilevanti», scrive il costituzionalista Gaetano Azzariti sul Manifesto.
Dall’altra parte, ma su questo è in corso un dibattito, partiti più compatti e omogenei potrebbero garantire maggiore stabilità alla legislatura e allontanare il rischio di elezioni anticipate, che in questi anni è stato alimentato soprattutto dalla confusione e dall’instabilità generata da scissioni, tensioni e polemiche interne. Che non sono affatto scongiurate, ovviamente: meno sono i parlamentari, e più i singoli eletti vedranno aumentare il proprio potere di veto su partiti e governo, in caso di una crisi.