Perché un blocco navale dei migranti è irrealizzabile e problematico
Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia lo propongono da anni, ma non è davvero praticabile né auspicabile per i diritti umani
di Luca Misculin
Ormai da diversi anni la principale proposta di Fratelli d’Italia sull’immigrazione prevede di attuare un “blocco navale” per fermare le navi e le imbarcazioni di migranti che partono dal Nord Africa, soprattutto dalla Libia, e arrivano in Italia. Ancora pochi giorni fa la leader del partito, Giorgia Meloni, l’ha definita l’«unica proposta seria» per gestire l’immigrazione irregolare. In realtà è una misura irrealizzabile e molto problematica dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. E una prima questione, a monte, è che “blocco navale” è un’espressione sbagliata per descrivere quello che propone Meloni.
Il blocco navale è una misura prevista dal diritto internazionale, e prevede in estrema sintesi un’operazione militare per impedire con la forza l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave da uno o più porti di un paese coinvolto in un conflitto militare. Al di fuori di un conflitto la Carta dell’ONU lo prevede all’articolo 42 come misura che il Consiglio di Sicurezza può decidere solo nel caso sia necessario per «mantenere o preservare la pace e la sicurezza internazionale». È una norma che diplomatici ed esperti di diritto concepiscono soltanto nell’ambito di un conflitto: concretamente, comporta che un esercito spari a vista contro le navi nemiche.
«La sua adozione nei confronti di uno Stato terzo equivale a dare inizio a un attacco armato», spiegò nel 2018 l’allora governo italiano a una interrogazione parlamentare presentata proprio da Fratelli d’Italia.
Nel programma ufficiale di Fratelli d’Italia (PDF) si legge che il partito propone un «blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del Nord Africa, la tratta degli esseri umani». È una cosa molto diversa da un blocco navale. «Non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui lo si fa», ha sintetizzato efficacemente Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale dell’Università Bicocca, a Redattore Sociale: nessun paese avrebbe interesse a fare circondare i propri porti da navi nemiche col compito di impedire ogni ingresso e uscita.
La proposta di Fratelli d’Italia sembra simile all’accordo stretto con alcune milizie libiche nel 2017 dal governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni, e da allora sempre rinnovato, per potenziare la cosiddetta Guardia Costiera libica in modo che blocchi le partenze dei migranti. Non è chiaro perché Meloni e Fratelli d’Italia continuino a parlare di “blocco navale”: forse perché suona più aggressivo e minaccioso nei confronti dei migranti che arrivano via mare. Nelle ultime settimane i giornali italiani sono tornati a occuparsi con regolarità di immigrazione per via di un aumento, sebbene piuttosto contenuto, degli sbarchi dal Nord Africa.
Il programma di Fratelli d’Italia contiene altre due righe sul cosiddetto blocco navale: viene proposta la «creazione di hotspot nei territori extra-europei, gestiti dall’UE, per valutare le richieste d’asilo e distribuzione equa solo degli aventi diritto nei 27 Paesi membri».
Nonostante la scarna descrizione, è evidente che la proposta di Fratelli d’Italia sia irrealizzabile e problematica dal punto di vista del rispetto dei diritti umani delle persone migranti.
UE sostituisce missione Sophia con pattugliamento navale e aereo per garantire embargo di armi alla Libia. Bene, ma se si può impedire arrivo armi si può impedire anche partenza barconi degli scafisti. Ora basta, serve il #blocconavale per fermare l’immigrazione illegale di massa pic.twitter.com/LVs6V3f2uY
— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) February 18, 2020
Perché è irrealizzabile
Il primo ostacolo alla realizzazione di centri per la valutazione delle richieste di ingresso in Italia sul territorio libico è l’instabilità ormai cronica della Libia. Nel paese è in corso una sanguinosa guerra civile dal 2011, mai risolta. Appena qualche giorno fa violenti scontri fra milizie armate hanno causato decine di morti e feriti nella capitale, Tripoli. Da febbraio ci sono due primi ministri che sostengono di essere i legittimi capi di governo. A luglio durante una manifestazione di piazza è stato incendiato il Parlamento. In una situazione del genere è impossibile trovare interlocutori affidabili che garantiscano il funzionamento – per non parlare della sicurezza – di centri come quelli proposti da Fratelli d’Italia.
Il secondo problema è che nessuna fazione politica o gruppo militare libico, al momento, vuole circondare le coste libiche di navi militari straniere, o tantomeno aprire nei territori che controlla un centro per migranti gestito dai paesi occidentali. Le milizie – ma anche gli stati nazionali più giovani, se mai la Libia dovesse stabilizzarsi – tengono molto a esercitare una sovranità piena nei posti che governano, in modo da controllarne più efficacemente l’economia e la società. Una forte presenza occidentale risulterebbe probabilmente troppo ingombrante.
Tutti i famigerati centri di detenzione per migranti, in cui le persone vengono sottoposte quotidianamente ad abusi, violenze e torture, sono gestiti da funzionari e miliziani libici, che praticano una scarsissima cooperazione con le organizzazioni occidentali presenti in Libia. Oggi gli unici ad avere accesso ai centri di detenzione sono i funzionari delle agenzie ONU, e in maniera molto saltuaria.
Dal primo gennaio al 23 agosto 2022 l’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, ha stimato di avere compiuto 313 visite ai centri di detenzione in Libia. Nell’estate del 2021 secondo l’UNHCR erano aperti 29 centri di detenzione ufficiali (oltre ad alcuni centri informali a cui l’ONU non ha accesso). In media significa che ciascuno dei centri ufficiali è stato visitato una decina di volte dall’inizio del 2022, quindi poco più di una volta al mese.
Nessuna altra organizzazione internazionale o ong occidentale ha un accesso regolare ai centri di detenzione. Di recente l’ong Amnesty International ha notato che la potente milizia armata SSA, creata dal primo ministro del governo che ha sede a Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, non permette l’accesso nei propri centri di detenzione per migranti ad alcuna organizzazione indipendente.
Anche realizzare una «distribuzione equa nei 27 paesi membri» dei migranti a cui verrebbe garantito l’accesso in Europa, come sostiene il programma di Fratelli d’Italia, è al momento irrealizzabile. In sede europea ogni proposta di riforma del sistema di accoglienza per una maggiore gestione degli arrivi da parte di tutti i paesi viene sistematicamente bloccata da quelli dell’Est, tradizionalmente ostili all’integrazione di persone che provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Questo gruppo di paesi è guidato da Polonia e Ungheria: con i cui governi peraltro Giorgia Meloni ha ottimi rapporti.
Perché è problematico per i diritti umani
Se anche un governo guidato da Giorgia Meloni riuscisse a convincere un eventuale governo libico ad ammettere nelle acque libiche navi straniere per fermare le partenze dei migranti, esistono diverse norme del diritto internazionale che impedirebbero alle navi e ai loro equipaggi di bloccare le imbarcazioni che trasportano migranti.
I respingimenti indiscriminati di persone che vogliono chiedere protezione in un certo stato sono esplicitamente vietati dall’articolo 33 della convenzione sullo status dei rifugiati firmata a Ginevra nel 1951, e dal protocollo 4 che integra la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, entrato in vigore nel 1968.
«Impedire a qualcuno di scappare dalla Libia, indipendentemente dal motivo per cui ci è arrivato, significa costringerlo a restare in una situazione in cui subisce violazioni gravissime dei diritti umani, crimini contro l’umanità. Non è un caso se nessun giudice italiano si sognerebbe mai di confermare un respingimento verso la Libia», ha spiegato allo HuffPost Francesca De Vittor, che insegna Diritti dell’uomo all’Università Cattolica di Milano.
Anche l’apertura di appositi centri per valutare chi possa entrare o meno in Italia e in Europa sarebbe assai problematico per il rispetto dei diritti umani. Valutare una richiesta di asilo è una procedura lunga e complessa, che prevede indagini, colloqui e ricerche che vengono compiute con molta fatica in paesi anche molto attrezzati per l’accoglienza come quelli europei. Spostare la macchina organizzativa in Libia comporterebbe uno sforzo enorme – bisognerebbe trasferire materialmente migliaia di funzionari in territorio libico – per un risultato non assicurato: l’esame delle richieste d’asilo sarebbe comunque meno efficiente che in un paese europeo. I richiedenti asilo potrebbero contestare, probabilmente a ragione, che le loro richieste non vengano gestite con le dovute attenzioni e scrupolosità.
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Infine, l’affermazione ribadita più volte da Meloni secondo cui in Italia andrebbero ammesse soltanto le persone «aventi diritto allo status di rifugiato», ripetuta di recente anche in una lettera al Corriere della Sera, contiene un’interpretazione molto restrittiva dei diritti umani.
Lo status di rifugiato ha parametri molto stringenti. Si ottiene dimostrando che la persona in questione è stata perseguitata individualmente per ragioni di etnia, religione, politica: una tesi difficilissima da sostenere senza indagini approfondite nel paese di provenienza, e così specifica che negli anni in Europa sono state create forme di protezioni con maglie più larghe, per esempio per proteggere le donne vittime di tratta. Per tutelare persone che ne hanno bisogno, ma per cui è difficile rientrare nello status di rifugiato. L’Unione Europea nel 2021 ha accolto 201mila richiedenti asilo, di cui “solo” 112mila rifugiati. In Italia su 21.823 richieste di protezione accolte nel 2021, solo un terzo riguardava lo status di rifugiato.
Fare entrare in Italia solo le persone che ottengono lo status di rifugiato significherebbe andare nella direzione opposta, sul tema dei diritti umani, rispetto ai paesi dell’Europa occidentale.