Cosa sta succedendo in Iraq, spiegato
Si stanno scontrando due schieramenti sciiti, uno ostile e l’altro alleato all’Iran: come finirà dipenderà in larga parte da un potente e imprevedibile religioso
Negli ultimi due giorni a Baghdad, la capitale dell’Iraq, sono state uccise 24 persone durante alcuni scontri molto violenti tra una parte delle forze di sicurezza irachene e seguaci di un noto e potente leader politico e religioso sciita, Muqtada al Sadr. Le violenze, che si sono verificate per lo più nella cosiddetta “Zona verde”, cioè quell’area della capitale in teoria protetta e militarizzata dove si trovano sia gli edifici governativi che le sedi diplomatiche straniere, sono state il risultato di una crisi iniziata mesi fa, almeno dalle ultime elezioni politiche, lo scorso ottobre. Sono anche le più gravi degli ultimi tre anni, cioè da quando l’Iraq sembrava essersi relativamente stabilizzato dopo la guerra combattuta e vinta contro l’ISIS.
Nonostante martedì al Sadr abbia ottenuto che i suoi seguaci lasciassero la Zona verde e fermassero le violenze, non è detto che la crisi sia finita, o che il rischio di un conflitto più ampio sia passato. Come ha scritto il giornalista Martin Chulov sul Guardian, l’intensificarsi o meno del confronto violento dipenderà da quanto Sadr vorrà continuare «nei suoi tentativi di rompere il sistema. Si è guadagnato una reputazione di personaggio capriccioso le cui convinzioni possono facilmente svanire».
C’è sempre l’Iran di mezzo
I due schieramenti che si sono scontrati negli ultimi giorni sono entrambi sciiti (uno dei due orientamenti principali dell’Islam, maggioritario sia in Iraq che in Iran), ma profondamente divisi sulla posizione da adottare riguardo all’Iran. Il fatto che ci sia un conflitto profondo tra sciiti è di per sé una novità: per molti anni, infatti, la politica irachena è stata condizionata dalla rivalità tra sciiti e sunniti (l’altro principale orientamento dell’Islam, minoritario in Iran e Iraq ma maggioritario nel mondo islamico).
È una rivalità, quella tra filo e anti-iraniani, che in Iraq non è limitata alle campagne elettorali. È diventata sempre più profonda e strutturale, così come è profonda e strutturale l’influenza che l’Iran è riuscito a guadagnare in Iraq negli ultimi vent’anni. Il processo è stato graduale, ma ci sono stati in particolare due momenti considerati più importanti di altri, e che aiutano a capire cosa sta succedendo oggi.
Il primo fu nel 2003, quando l’invasione statunitense dell’Iraq portò alla destituzione dell’allora regime iracheno di Saddam Hussein, sunnita e discriminatorio nei confronti degli sciiti. Negli anni successivi l’Iran cominciò a finanziare e appoggiare le milizie sciite che prendevano di mira i soldati statunitensi in territorio iracheno (l’Iran è nemico degli Stati Uniti dal 1979, dalla rivoluzione khomeinista che instaurò a Teheran un regime teocratico sciita): tra loro c’era anche l’Esercito del Mahdi, milizia guidata da Muqtada al Sadr, che si rese responsabile di migliaia di morti americane.
Oggi quel gruppo si chiama Brigate della Pace, non è più alleato dell’Iran ed è lo stesso coinvolto negli scontri degli ultimi giorni.
Il secondo momento fu la guerra che l’Iraq, appoggiato dagli Stati Uniti, combatté contro l’ISIS tra il 2014 e il 2018. Per sconfiggere lo Stato Islamico (sunnita), che nei mesi precedenti aveva occupato una buona parte del territorio iracheno, l’esercito dell’Iraq fece ricorso all’aiuto di diverse milizie sciite, quasi tutte con legami fortissimi con l’Iran. La guerra creò una situazione paradossale, in cui le milizie che per dieci anni avevano combattuto contro i soldati americani a Baghdad passarono al loro fianco per sconfiggere l’ISIS. Alla guerra parteciparono anche le Brigate della Pace che però, diversamente da altre milizie sciite, non ricevettero né grossi finanziamenti né un numero elevato di armi dall’Iran, e mantennero una catena di comando indipendente.
Al termine della guerra l’Iran non se ne andò più dall’Iraq: rafforzò i suoi legami con il governo iracheno e prese possesso di un grosso pezzo dell’economia dell’Iraq. Le milizie sciite diventarono sempre più potenti e a un certo punto furono integrate ufficialmente nell’esercito iracheno.
Le Brigate della Pace di Sadr si distanziarono però dall’Iran: fu uno dei tanti giri che l’importante leader religioso diede alla sua carriera politica.
Chi si sta scontrando oggi
L’inizio dell’attuale crisi viene fatto risalire alle elezioni politiche del 2021, in cui la rivalità tra forze politiche filo-iraniane e partiti ostili all’Iran fu particolarmente evidente.
Da una parte c’era Sairoon, coalizione la cui componente principale era il Movimento Sadrista, guidato proprio da Sadr: si definiva nazionalista perché si opponeva a qualsiasi ingerenza esterna, sia degli Stati Uniti che dell’Iran, era populista e con molti sostenitori tra la classe operaia e un pezzo di classe media. Dall’altra parte c’erano fazioni filo-iraniane, tra cui il partito dell’ex primo ministro Nouri al Maliki. A vincere fu Sadr, ma senza un margine sufficiente per fare un governo da solo: iniziarono le trattative per avere una maggioranza in parlamento, ma le profonde divisioni tra schieramenti complicarono molto le cose. L’Iraq è senza un governo da allora.
Negli ultimi mesi Sadr non si è limitato a negoziare con le altre forze politiche, ma ha usato mezzi diversi per fare pressione sui suoi avversari, con l’apparente obiettivo di delegittimarli e costringerli a fare un passo indietro. Apparente perché non è facile interpretare le azioni di Sadr, che nel tempo è stato definito più volte «imprevedibile» e, come ha scritto anche Chulov sul Guardian, «capriccioso». Di certo c’è che Sadr ha fatto leva sull’esteso e solido appoggio popolare su cui può contare (si parla di 7 milioni di fedeli seguaci, sciiti iracheni, su una popolazione totale di 40 milioni).
A giugno Sadr aveva ordinato ai 73 parlamentari del suo movimento politico di dimettersi. La mossa era stata giudicata azzardata, perché era una specie di scommessa: i seggi lasciati liberi erano stati infatti attribuiti ai secondi classificati dei collegi uninominali in cui erano stati eletti i parlamentari sadristi, cioè a candidati dell’altro schieramento, quello filo-iraniano. L’idea di Sadr, avevano scritto diversi commentatori, sembrava quindi essere quella di lasciare l’iniziativa politica agli avversari per dare poi la colpa a loro in caso di insuccesso, spingendo allo stesso tempo i suoi moltissimi sostenitori a protestare con l’obiettivo di delegittimare lo schieramento avversario.
A luglio aveva invitato i suoi seguaci alla rivoluzione, spingendoli ad assaltare la Zona verde e a occupare il parlamento per qualche ora. Era stato il primo di una serie di attacchi a palazzi governativi nella zona protetta di Baghdad.
Negli ultimi due giorni la crisi è nuovamente peggiorata. Tutto è iniziato domenica, quando l’ayatollah Kadhim al Haeri, mentore di Sadr e appoggiato da molti suoi sostenitori, ha annunciato inaspettatamente il suo ritiro come leader religioso, invitando allo stesso tempo Sadr e i suoi seguaci ad appoggiare l’Iran: non sono chiari i motivi di Haeri, ma alcuni commentatori credono che l’annuncio abbia danneggiato Sadr, che si sarebbe infuriato e si sarebbe convinto a ritirarsi dall’attività politica (Sadr non è nuovo a questo tipo di mosse: ha annunciato le proprie dimissioni da vari ruoli politici sette volte, finora).
Lunedì mattina centinaia di sostenitori di Sadr, probabilmente quasi tutti membri delle Brigate della Pace, hanno assaltato un palazzo governativo della Zona verde di Baghdad, scontrandosi soprattutto con le Forze di mobilitazione popolare, insieme di gruppi paramilitari sciiti integrati nell’esercito iracheno e alleati con l’Iran. Gli scontri sono stati molto violenti: sono stati usati mortai e lanciarazzi e sono state uccise 24 persone.
Le violenze si sono fermate solo martedì, dopo che in un annuncio pubblico lo stesso Sadr ha chiesto ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Zona verde, scusandosi con il popolo iracheno per gli scontri e i morti: «questa rivoluzione, finché sarà rovinata dalla violenza, non è una rivoluzione», ha detto. È stato ascoltato, a dimostrazione dell’enorme influenza che mantiene sui suoi seguaci, che hanno rapidamente lasciato la zona protetta di Baghdad.
Non è chiaro cosa intenda fare ora Sadr, o se renderà concreto il suo ritiro dall’attività politica. Molti ne dubitano, anche considerando l’enorme seguito su cui può contare e l’intenzione mostrata finora di voler continuare a condizionare la vita politica irachena.