Dobbiamo parlare diversamente di HIV
Nonostante i progressi della medicina continuano a esserci stigmatizzazioni e paure, con conseguenze negative per molte persone
di Alessandra Pellegrini De Luca
Sono passati oltre quarant’anni dalla scoperta dell’HIV (Human Immunodeficiency Virus), il virus che causa l’infezione che, se non curata, può portare all’AIDS. Da allora la medicina ha fatto progressi enormi – c’è stata una «rivoluzione pazzesca», dice Daniele Calzavara dell’associazione Milano Check Point – e sono state trovate terapie che permettono alle persone di convivere con l’HIV con un’aspettativa di vita praticamente uguale a quella delle persone che non ce l’hanno.
Eppure, in Italia come altrove, l’immaginario collettivo sembra essere rimasto indietro di decenni, con pregiudizi e forme di stigmatizzazione che oggi rendono l’HIV non tanto un problema medico, ma sociale. Pazienti, medici infettivologi e associazioni concordano sul fatto che oggi sia necessario parlare diversamente di HIV, combattendo l’avversione di molte persone e diffondendo molta più informazione, anche tra i medici non specialisti.
Come sapere se si ha l’HIV
Ci sono vari modi per scoprire se si ha l’HIV: «Si può fare un test in un qualsiasi laboratorio analisi, pubblico o privato, con una prescrizione del medico di base, oppure andare a farlo direttamente in ospedale, in un reparto malattie infettive, in questo caso senza la prescrizione del medico», spiega Roberto Rossotti, infettivologo dell’ospedale Niguarda di Milano. C’è poi una vasta rete di strutture, su tutto il territorio nazionale, in cui si può fare il test anche in forma anonima e gratuita.
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In questa mappa fatta dall’Istituto superiore di sanità si possono trovare tutte le strutture pubbliche o private dove ci si può sottoporre a un test per l’HIV e altre malattie sessualmente trasmissibili, tramite un prelievo di sangue. Da qualche anno si può anche acquistare un test rapido di autodiagnosi, in farmacia ma anche online: è attendibile e bastano 20 minuti per farlo e ottenere il risultato, che nel caso in cui sia positivo dovrà essere confermato da un test fatto con prelievo.
In generale, il mezzo più sicuro per la prevenzione dell’infezione da HIV, e più in generale di malattie sessualmente trasmissibili, è avere rapporti sessuali protetti: nei rapporti penetrativi significa indossare il preservativo per tutta la durata del rapporto (quello classico, ma anche il cosiddetto “preservativo femminile”). Nei rapporti non penetrativi – dove il rischio di trasmissione sembra essere più basso, benché anche meno studiato – si possono usare altri contraccettivi, come il dental dam: un rettangolo di lattice o poliuretano che si usa per coprire la vulva o l’ano impedendo il contatto fra mucose orali e genitali.
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Che terapie esistono, e perché c’è stata una «rivoluzione pazzesca»
Le terapie antiretrovirali, quelle che oggi permettono a chi risulta positivo all’HIV di convivere con il virus, rallentano a tal punto la sua replicazione, abbassando quindi la carica virale, da renderlo non rilevabile nel sangue: solitamente si arriva a una viremia negativa dopo circa 1-3 mesi, e circa 6 mesi dopo questo traguardo non si è più contagiosi.
Quando la carica virale non è rilevabile, infatti, il virus smette anche di essere trasmissibile: concretamente significa che queste terapie permettono alle persone con l’HIV di avere rapporti sessuali non protetti senza aver paura di trasmettere il virus ai propri partner. È il principio della non trasmissibilità oggi identificato con la sigla “U=U”: sta per “undetectable = untransmittable” , cioè “non rilevabile = non trasmissibile”.
Pazienti, medici e associazioni dedicate alle persone che vivono con l’HIV considerano questo principio un pilastro che ha ridotto immensamente l’impatto sociale dell’infezione: «È importantissimo che tutti lo sappiano, per superare sia lo stigma esterno che quello interiorizzato, che per anni ha spinto molte persone a rinunciare ad avere una famiglia perché positive al virus», dice Rossotti del Niguarda.
Alcune persone che vivono con l’HIV hanno raccontato al Post che ancora oggi capita che la diagnosi porti a sentirsi in colpa: «Quando scopri di avere l’HIV introietti subito la colpa, pensi subito che sei stato tu a infettare le persone a cui sei legato in quel momento, quando in realtà potrebbe benissimo essere il contrario», dice V., che ha 38 anni, vive in Germania e ha chiesto di rimanere anonimo. Per questo alcune persone ritengono che sia molto importante, quando possibile, venire informati su cosa significhi oggi vivere con l’HIV nel momento stesso in cui si ricevono i risultati.
Anche Daria Russo, che ha 41 anni e quando ha scoperto di avere l’HIV viveva in Irlanda, ha raccontato che per lei era stato molto utile poter parlare subito con una psicologa della struttura medica in cui si trovava; il 31enne Filippo Gafaro Barrera, al contrario, ha descritto così la consegna dei risultati nel laboratorio in cui aveva svolto le analisi: «Mi hanno dato una busta che sembrava quella del PIN del bancomat e mandato via, e quando l’ho aperta mi è caduto addosso il cielo».
Il principio U=U è anche quello per cui oggi è possibile concepire e partorire i propri figli naturalmente. È quello che ha fatto, anni dopo aver scoperto di avere l’HIV, Daria Russo, che è anche una delle protagoniste del documentario Positivə (2021), dedicato alla vita delle persone che oggi vivono con l’HIV: «La non trasmissibilità è un aspetto chiave: a me come mamma, e a noi come coppia, ha restituito la spontaneità», dice. Prima che esistessero queste terapie alle persone con l’HIV veniva consigliato di fare un percorso di fecondazione artificiale.
Concretamente, le terapie antiretrovirali consistono in pillole da assumere ogni giorno (una o più di una, a seconda del tipo di terapia). Questi farmaci non hanno nemmeno più gli effetti collaterali di quelli più datati – come la lipodistrofia, che faceva perdere il grasso di alcune parti del corpo, come il viso, e causava il suo accumulo sull’addome – che potevano quindi rendere riconoscibili le persone in terapia. Esistono alcuni effetti avversi, che vanno da lievi sintomi indesiderati a effetti a lungo termine su alcuni organi, apparati o sul metabolismo: la loro comparsa varia da caso a caso, e parliamo comunque di effetti molto diversi da quelli dei primi farmaci.
Da pochissimo, inoltre, esiste anche un nuovo tipo di terapia, i cosiddetti farmaci “long-acting”: sono punture intramuscolari il cui effetto permane per circa due mesi, e che possono quindi sostituire l’assunzione quotidiana delle pillole. Sono farmaci nuovissimi, non ancora entrati nella pratica clinica di tutti gli ospedali, ma già autorizzati dagli enti regolatori.
«Le terapie esistenti non eradicano del tutto l’infezione – trovare una cura è l’ultimo passaggio che manca alla medicina – ma permettono di controllarla, con farmaci estremamente ben tollerati», spiega il professor Andrea Gori, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Infettivologia al Policlinico di Milano. Ad oggi, una completa guarigione dall’HIV sembra essere stata ottenuta solo in tre casi molto particolari.
Da qualche anno è anche possibile ricorrere a un farmaco per evitare di essere infettati dall’HIV nel caso di comportamenti a rischio. Si parla di profilassi (cioè prevenzione) pre-esposizione, detta anche “PrEP”, e nel concreto è un farmaco che si può assumere prima e dopo un rapporto sessuale a rischio, oppure in maniera continuativa se il proprio stile di vita porta ad avere di frequente rapporti sessuali di questo tipo. Per assumerlo è necessaria la prescrizione di un infettivologo e bisogna sottoporsi ad alcuni esami per le malattie sessualmente trasmissibili.
Detto in altre parole, oggi l’HIV è sostanzialmente un’infezione cronica. Chi ce l’ha deve sottoporsi a periodici controlli medici e stare attento alla propria salute: «L’HIV è comunque un fattore di rischio per problemi cardiovascolari o a patologie come il diabete», dice Gori. Ma significa anche che è un’infezione completamente diversa, e molto più gestibile, rispetto agli anni Ottanta e Novanta.
Dal punto di vista medico, il problema non è l’assenza di cure, ma l’accesso alle terapie esistenti: da questo punto di vista oggi è molto diverso avere l’HIV in un paese povero o in un paese ricco, dotato di infrastrutture in grado di garantire le cure. Secondo gli ultimi dati di UNAIDS, il programma delle Nazioni Unite per l’HIV e l’AIDS, nel 2021 in tutto il mondo sono morte circa 650mila persone di AIDS e di patologie collegate: in Africa, per dare un’idea della proporzione, ne sono morte 420mila, mentre tra Europa e Nord America ne sono morte 13mila.
Limitatamente all’Italia, medici e associazioni ritengono che l’accesso alle terapie sia tutto sommato ben funzionante, anche se nelle aree più periferiche del paese i farmaci più moderni e le terapie più aggiornate tendono ad arrivare in ritardo rispetto a quanto accade in aree e regioni più ricche e centrali.
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Lo stigma, e l’HIV come scatola chiusa
Nonostante tutti questi progressi dal punto di vista medico, i pazienti, gli infettivologi e le associazioni sentite dal Post concordano sul fatto che l’HIV sia ancora una specie di «scatola chiusa», come dice Daria Russo, cioè un argomento rimasto chiuso in definizioni, timori e termini che appartengono ormai al passato, benché la sua realtà sia profondamente cambiata.
«Il nostro immaginario è rimasto all’alone viola», dice Guido Radaelli, uno dei produttori del documentario Positivə. Radaelli si riferisce a uno storico spot promosso nel 1990 dal ministero della Sanità per sensibilizzare sulla prevenzione dell’AIDS. Lo spot, piuttosto inquietante, era accompagnato dallo slogan “Se lo conosci lo eviti”: rappresentava l’HIV attraverso un alone viola che circondava le persone infette e si trasmetteva alle altre persone.
È sempre stato criticato perché ritenuto da molti stigmatizzante e discriminatorio.
«Ancora oggi chi dice di avere l’HIV percepisce un giudizio sottinteso del tipo “chissà che vita conduci per essertelo preso”, quando ci sono tantissime persone che contraggono l’infezione al primo rapporto», dice Daphne Bohémien, performer e donna trans che vive con l’HIV, anche lei protagonista del documentario “Positivə”. A volte ad avere un atteggiamento giudicante sono gli stessi operatori sanitari: «Se mi trovo davanti qualcuno che la prima cosa che dice è che ho fatto qualcosa di sbagliato, l’effetto è che io non andrò più a fare uno screening», dice Calzavara di Milano Check Point, che offre gratuitamente test, PrEP e colloqui, sia prima dei test che nel caso di risultati positivi, accompagnando le persone nei vari passi successivi (qui è possibile scegliere il tipo di servizio e prenotarlo).
I pregiudizi legati all’HIV sono strettamente legati alla difficoltà di parlare liberamente e serenamente di sesso: «La scarsa informazione sull’HIV è anche un problema di sessuofobia», dice Sandro Mattioli, presidente di Plus, associazione dedicata alle persone LGBT+ che vivono con l’HIV, con sede a Bologna.
Negli anni sono state fatte altre campagne di sensibilizzazione, anche molto diverse da quella dell’alone viola, ma la percezione di molti è che la comunicazione istituzionale sull’HIV sia insufficiente e mai realmente evoluta.
Questo ha avuto due risultati per certi versi opposti, ma ugualmente dannosi: da un lato si sottovaluta l’importanza della prevenzione, un problema che secondo molti riguarda soprattutto le persone più giovani, che non hanno vissuto negli anni Ottanta e Novanta; dall’altro si continua a pensare all’HIV negli stessi termini di quegli anni. Cioè come a qualcosa di spaventoso, o che riguarda solo certi tipi di persone, come quelle omosessuali, o che fanno uso di droghe per via iniettiva, oppure che adottano non meglio definiti comportamenti “promiscui”.
La disinformazione riguarda anche gli stessi medici, contrariamente a quanto si potrebbe pensare: un’opinione trasversalmente condivisa è che i medici non specialisti tendano a non essere adeguatamente aggiornati su cosa significhi oggi avere l’HIV, con conseguenze tangibili e molto concrete.
«Succede ancora che le persone che hanno l’HIV vengano lasciate come ultime della giornata nelle sale operatorie: era una misura di sicurezza presa negli anni Ottanta, per evitare di esporre i pazienti a un eventuale contagio dopo aver operato una persona con l’HIV (per quanto la sala venisse comunque sempre sterilizzata): succede ancora, ma con gli strumenti e le conoscenze di oggi è una pratica insensata, che costringe solo le persone con l’HIV ad aspettare sistematicamente più delle altre», dice l’infettivologo Rossotti del Niguarda.
Un altro medico infettivologo dice che nei reparti di ginecologia capita ancora di sentirsi chiedere se le pazienti con l’HIV vadano isolate o meno, quando si sa che oggi le persone in terapia da almeno 6 mesi non sono contagiose. Oppure succede che i pazienti e le pazienti vengano sottoposte a profilassi rese obsolete e superflue dalla non rilevabilità (e dunque non trasmissibilità) del virus per chi assume terapie antiretrovirali.
Oggi l’HIV è anche attivismo, e tante altre cose
Tra le persone che oggi vivono con l’HIV c’è molta consapevolezza della storia e della dimensione sociale di questo virus, legata alle discriminazioni che hanno colpito soprattutto alcune categorie di persone, tra cui quelle appartenenti al mondo LGBT+. A suo tempo c’erano giornali che chiamavano l’HIV il «cancro dei gay»: era una comunicazione che tendeva a incriminare categorie di persone, anziché informare sui comportamenti a rischio.
Oggi tutto questo fa sì che le persone LGBT+ siano tendenzialmente più informate di quelle eterosessuali: V., che è bisessuale, dice: «È come se fossi a cavallo di due mondi: quello queer [termine con cui si indica l’insieme degli orientamenti sessuali e delle identità di genere considerate non conformi] di norma è molto più informato». È un’opinione condivisa anche da una donna eterosessuale di 54 anni, che ha scoperto di avere l’HIV sette anni fa: «Le persone eterosessuali tendono a essere le meno informate sull’HIV: io stessa quando ho scoperto di averlo non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile», dice.
Oggi ci sono numerose associazioni che fanno un quotidiano lavoro sulla visibilità delle persone con l’HIV e sul contrasto dello stigma: oltre a quelle citate in questo articolo – Milano Check Point e Plus – ce ne sono tante altre, come ad esempio LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids), Conigli Bianchi o The Well Project, associazione internazionale e dedicata alle donne.
Per alcune persone ascoltate per questo articolo, scoprire di avere l’HIV ha coinciso con l’inizio di un percorso di attivismo. Per altre ha significato «instaurare un rapporto diverso con la propria fragilità, accettandola», dice Filippo Gafaro Barrera. Oppure col proprio tempo: «Ogni tanto penso che se fossi nato vent’anni prima, ora sarei morto, e mi passa qualunque fantasia nostalgica di come sarebbe stato vivere, chessò, negli anni ’60», dice V.