L’assurdo caso di Manuel Ramírez
L'uomo messicano che è stato in carcere 21 anni per l'omicidio di una persona ancora viva
Nel maggio del 2000 in Messico un uomo di 22 anni chiamato Manuel Ramírez fu arrestato con la forza, torturato e costretto a confessare un omicidio che non aveva commesso, quello di una persona che secondo varie testimonianze con ogni probabilità è ancora viva. Dopo oltre vent’anni di carcere e altrettanto tempo speso a cercare di dimostrare la propria innocenza in un caso pieno di incongruenze, prove di dubbia validità e sospetti di corruzione, nel luglio del 2021 Ramírez è infine stato liberato, ma non assolto.
Negli ultimi anni la sua incarcerazione ingiusta era stata ampiamente discussa in Messico: di recente è stata raccontata anche dal giornalista americano Matthew Bremner, che l’ha seguita per oltre due anni e mezzo e ne ha parlato in un lungo articolo sull’Economist.
Ramírez era nato nel 1978 a Città del Messico in una famiglia piuttosto tranquilla. A 21 anni si era trasferito a Tepexpan, poco fuori città, nello stato federale del Messico (che si chiama come la nazione), dove insegnava musica e aveva messo su famiglia. Attorno alle 20.30 del 26 maggio del 2000, un gruppo di uomini armati che dissero di essere poliziotti fece irruzione a casa sua durante una cena con amici, urlando a gran voce il suo nome e minacciando i presenti. I sedicenti poliziotti, che non si erano identificati e non avevano mostrato un mandato, picchiarono Ramírez, lo trascinarono fuori casa e lo portarono via su un’auto quasi incosciente, ammanettato e con la testa coperta.
Ramírez si ritrovò in una stanza dove subito dopo erano stati portati anche altri due uomini, entrambi ammanettati: uno era Gabriel Vera, suo cognato, e l’altro Carlos Alberto Sánchez, un ragazzo di Tepexpan. Tutti e tre, racconta Bremner, dissero di aver subìto torture da parte di quelli che poi scoprirono essere effettivamente agenti di polizia. Uno di questi aveva attaccato gli elettrodi di una batteria ai testicoli di Ramírez dandogli una scossa così potente da farlo svenire.
I poliziotti accusavano i tre uomini di aver ucciso Emmanuel Martínez Elizalde, un ragazzo di 19 anni che conoscevano di vista e che secondo diversi testimoni non sarebbe morto, bensì vivrebbe da tempo negli Stati Uniti.
Dopo alcune ore i tre furono effettivamente portati in una caserma della polizia, dove vennero interrogati senza la presenza di avvocati e nuovamente intimiditi. Ramírez racconta di aver ceduto nel momento in cui i poliziotti avevano minacciato di far del male alla moglie e al figlio, che aveva un mese: dice di aver firmato un foglio in bianco su cui i poliziotti avevano scritto in un secondo momento una confessione inventata.
Il processo cominciò quasi subito: nonostante Ramírez avesse ritrattato la propria confessione e detto all’autorità giudiziaria statale di essere stato costretto a farlo, l’anno successivo fu condannato a 40 anni di carcere, così come Sánchez e Vera.
Secondo la versione della polizia, i tre uomini avevano pianificato di uccidere Martínez Elizalde per via di uno screzio e lo avevano fatto la notte del 25 maggio, la sera precedente al loro arresto, prima ferendolo al petto con un cacciavite e poi cercando di strangolarlo. Una volta morto, avevano abbandonato il suo corpo vicino a un cumulo di rifiuti e lo avevano bruciato.
Come hanno raccontato i giornali, però, la versione della polizia era incongruente con quella dell’autopsia che teoricamente era stata fatta sul corpo di Elizalde e non sembravano esserci prove credibili a loro carico.
La consulente forense Ana Martínez Naquid ha spiegato che il rapporto della polizia diceva che Martínez Elizalde era stato aggredito da più persone, ma non includeva alcuna impronta digitale o test del DNA che lo dimostrassero. La polizia sosteneva che fosse stato ferito più volte con un cacciavite a bordo di un pick-up dove però non erano state trovate tracce di sangue, e inoltre l’orario della morte indicato nel rapporto non coincideva con quello segnalato dall’autopsia.
L’elemento che destò più sospetti però è che Martínez Elizalde aveva un fisico minuto ed era glabro, mentre le foto scattate in obitorio mostravano un uomo dalla corporatura più grossa e con molti peli su tutto il corpo. Il cadavere insomma non sembrava il suo e buona parte della faccia era stata bruciata.
Francisco Villa León, l’ultima persona che vide Martinez Elizalde la notte prima del presunto omicidio, disse che aveva i capelli neri: il medico legale che aveva eseguito l’autopsia aveva scritto che aveva capelli tinti di biondo. I documenti ufficiali dicono anche che il padre e lo zio di Martínez Elizalde avevano visto il corpo di persona, ma lo zio testimoniò di averlo visto solo in foto, mentre il padre disse di non ricordare quando fosse andato all’obitorio.
Nel frattempo a Tepexpan cominciarono a circolare voci sul fatto che Martínez Elizalde fosse ancora vivo e che proprio il padre, Rafael, avesse inscenato la sua morte, secondo alcuni per incassare un’assicurazione. Il padre di Ramírez, Francisco, sostiene di averlo visto dare soldi al giudice che doveva esaminare il caso e racconta anche che la madre di Martínez Elizalde gli aveva chiesto perdono perché il marito aveva incastrato suo figlio.
Sebbene poco lucido a causa delle percosse, la notte del suo arresto Ramírez ricordava di aver visto al commissariato Rafael Martínez Elizalde dire al capo della polizia di Tepexpan che non voleva che fosse arrestato lui, visto che era «amico» di suo figlio. Il capo della polizia aveva risposto che ormai era troppo tardi: «Ci hai detto di trovare un colpevole, ed eccolo qui», racconta sempre Ramírez.
– Leggi anche: La scomparsa dei 43 studenti in Messico fu un crimine di stato, dice un’indagine del governo
I sospetti sul fatto che il caso potesse essere stato montato si fecero ancora più concreti nel 2002, quando grazie a una segnalazione anonima la madre di Ramírez, Guadalupe, ottenne alcune foto che sembravano provare che Martínez Elizalde fosse ancora vivo, anche se con qualche chilo in più e i capelli lunghi. Emersero anche nuove testimonianze, ma sia Ramírez che Sánchez e Vera continuarono a restare in carcere.
Una di queste testimonianze fu quella di Julio Cesar Castro Gomez, che disse di aver visto Martínez Elizalde investire e uccidere con la propria auto un suo amico all’inizio del maggio 2000, circa tre settimane prima del suo presunto omicidio. Castro disse che i suoi amici avevano giurato vendetta contro Martínez Elizalde, ma soprattutto raccontò di averlo visto due anni dopo, come avevano detto anche altre persone: secondo Castro pertanto «Manuel Ramírez non poteva aver ucciso quell’uomo perché quell’uomo era vivo».
Sempre Castro disse un’altra cosa che aveva scoperto dopo essere andato a trovare in carcere Vera, il cognato di Ramírez. Vera aveva detto di aver visto Martínez Elizalde uccidere un uomo la sera del 25 maggio del 2000, il giorno precedente al loro arresto: lo aveva strangolato, accoltellato e bruciato vivo. È insomma possibile che per evitare di essere arrestato Martínez Elizalde avesse fatto finta di essere quella persona.
– Leggi anche: Le autopsie non sono per tutti
Grazie alle nuove testimonianze, nell’agosto del 2003 il cadavere fu riesumato ed emersero nuove incongruenze: il medico legale che aveva esaminato il corpo subito dopo l’omicidio aveva detto che era quello di un uomo alto 172 cm, mentre secondo le nuove analisi l’uomo era alto circa 9 centimetri di meno. Altri esami svolti in maniera indipendente trovarono nuove anomalie. L’esperta incaricata dallo stato del Messico stabilì però che i Martínez Elizalde erano al 99,9 per cento i genitori della persona morta, con un’analisi di campioni di DNA che sia secondo Ramírez che in base ad altre discrepanze nei resoconti della polizia erano stati chiaramente manipolati.
Passarono più di dieci anni prima che il caso cominciasse ad attirare l’attenzione dei media messicani, delle organizzazioni per i diritti umani e infine dei politici locali, che iniziarono a fare pressioni sul governo affinché Ramírez venisse liberato. Sánchez era morto nel 2014, mentre Vera aveva smesso di cercare di provare la propria innocenza. Ramírez invece continuò a sostenere di non aver ucciso nessuno. Due medici indipendenti che lo esaminarono nel 2018 sostennero che i disturbi di ansia e depressione di cui era affetto erano il risultato delle torture che aveva subìto, così come la sordità da un orecchio: per le autorità giudiziarie dello stato del Messico comunque non c’erano prove sufficienti per rivedere la sua condanna.
Nel maggio del 2021 alcuni suoi sostenitori organizzarono uno sciopero della fame nella piazza principale di Città del Messico e una marcia di protesta verso Toluca, la capitale dello stato del Messico. Durante la manifestazione a Città del Messico, un giornalista chiese persino al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador cosa avrebbe fatto per assicurare giustizia a un uomo che era stato incarcerato ingiustamente per oltre vent’anni; lui rispose che se ne sarebbe interessato.
Alla fine Ramírez uscì dal carcere il 16 luglio del 2021, poco più di un anno fa: le autorità precisarono che non fu assolto, ma solo liberato perché aveva già scontato metà della sentenza e nel frattempo si era impegnato in varie attività di recupero. In ogni caso aveva dovuto pagare 4mila dollari di risarcimento alla famiglia di Martínez Elizalde. «È un’umiliazione. Mi stanno ancora trattando come un criminale», disse a Bremner. Pochi giorni dopo le autorità giudiziarie dello stato ribadirono che non c’erano prove sufficienti a dimostrare che l’uomo che Ramírez era stato accusato di avere ucciso fosse vivo o vivesse negli Stati Uniti.
Attualmente il caso di Ramírez è sotto esame alla Corte interamericana dei diritti umani, il tribunale internazionale che si occupa di promozione e tutela dei diritti civili in 35 paesi del continente americano, Messico compreso. Nei prossimi mesi verrà raccontato anche da un podcast prodotto dalla società di media Vespucci Group.