Che fine hanno fatto i movimenti russi contro la guerra?
Sono stati repressi con durezza, e le forme di protesta rimaste sono più residuali e meno visibili
Tra fine febbraio e inizio marzo, nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina, molti russi avevano espresso il proprio dissenso contro la guerra e il regime del presidente Vladimir Putin con ampie e partecipate proteste in decine di città russe, tra cui Mosca e San Pietroburgo, le due più popolose. Le proteste erano state duramente represse dalle forze dell’ordine, e nelle settimane successive il regime russo aveva progressivamente intensificato la repressione del dissenso, con nuove norme ancora più stringenti sulla libertà d’espressione.
Le proteste delle prime settimane in Russia oggi sono di fatto sparite. Rimangono alcune forme di opposizione, ma sono residuali, sporadiche e molto meno visibili. Nel corso dei mesi, inoltre, molti russi contrari alla guerra hanno abbandonato il paese, oppure sembrano essersi progressivamente abituati a vivere nelle condizioni dettate dal regime, che nel frattempo esercita un rigido controllo sull’informazione e sulla propaganda.
A fine febbraio, quando Putin aveva ordinato al proprio esercito di invadere l’Ucraina, le proteste nelle città russe erano state praticamente immediate: la sera stessa del 24 febbraio, nelle piazze di diverse città – Mosca, San Pietroburgo, Saratov e altre – migliaia di persone avevano protestato. I russi avevano continuato a manifestare anche nei giorni successivi e fino ai primi giorni di marzo.
La repressione era stata decisa e immediata: il primo giorno di proteste, ha scritto Al Jazeera, si concluse con 1900 arresti. Circolarono ovunque le immagini dei poliziotti russi che arrestavano e portavano via i manifestanti, a volte semplicemente perché esponevano un cartello di protesta contro Putin e l’invasione dell’Ucraina. Secondo il sito indipendente russo OVD-Info, che si occupa di violazioni di diritti umani, nei giorni successivi e fino al 7 marzo erano state arrestate quasi 5mila persone in 69 città.
Oggi in Russia il controllo sulle proteste è strettissimo, e chi manifesta o si oppone apertamente alle politiche del governo sa di rischiare molto.
I pochi media indipendenti russi sono stati costretti a chiudere, a continuare le proprie attività fuori dal paese oppure a sospenderle, come nel caso di Novaya Gazeta, il principale giornale indipendente russo, quello per cui scriveva anche Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa nel 2006 probabilmente a causa del suo lavoro.
A rendere possibile la chiusura e il trasferimento dei giornali è stata anche una norma approvata dal governo russo poco dopo l’inizio dell’invasione, che prevede fino a 15 anni di carcere per chi diffonde ciò che il regime russo considera “notizie false”, cioè di fatto tutto ciò che non è in linea con la propaganda di stato. La norma si è aggiunta ad altre misure che il regime aveva progressivamente introdotto negli ultimi anni, tra cui una dura legge del 2019 che punisce quasi ogni forma di dissenso contro il governo.
Oggi, dunque, in Russia è diventato difficilissimo esprimere il proprio dissenso, anche solo esponendo un cartello per strada, senza subire pesanti conseguenze.
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Tutto questo non significa che in Russia non protesti più nessuno: una portavoce del movimento Resistenza Femminista Contro la Guerra, nato lo scorso febbraio, ha detto ad Al Jazeera che chi protesta lo fa di nascosto, spesso di notte, magari distribuendo volantini contro la guerra e «cercando di sabotare il regime dall’interno».
Kirill Medvedev è un attivista e musicista russo che vive a Mosca: è già stato incriminato due volte per aver protestato contro la guerra. Ha raccontato che le proteste non sono finite, ma che sono cambiate: per esempio, negli ultimi mesi sono stati appiccati incendi in uffici di reclutamento dell’esercito russo. Da quando è iniziata la guerra ne sono stati incendiati almeno 14.
Ci sono anche piccoli movimenti contro la guerra formati da membri di alcune minoranze etniche presenti in Russia. È piuttosto noto che una parte sproporzionata dei soldati russi presenti in Ucraina appartenga a queste minoranze, che spesso provengono da contesti sociali poveri e svantaggiati.
Free Buryatia Foundation è un’organizzazione nata lo scorso marzo per rappresentare i buriati, minoranza etnica della Siberia. Ha base negli Stati Uniti, ma condivide regolarmente materiale informativo contro la guerra, fornisce assistenza legale ai coscritti russi che vogliano evitare la leva e conduce ricerche sulle vittime russe in Ucraina.
Ci sono anche atti di protesta individuali. Associated Press ne ha raccontati alcuni: quello di una maestra di Perm, città ai piedi dei monti Urali, che espone cartelli contro la guerra sulla sua porta di casa. O quello di Sergei Besov, un artista visuale di Mosca che ha messo in piedi un progetto, Partisan Press (è su Instagram), per stampare cartelli contro la guerra. I poster, fatti con una grafica semplice ma gradevole, erano diventati molto popolari all’inizio dell’invasione. Alcuni erano anche apparsi in una delle proteste nella piazza Rossa di Mosca.
Pochi giorni dopo la polizia si era presentata nello studio di Besov, senza trovarlo, e due suoi collaboratori erano stati incriminati per le stampe dei poster. Ora Besov dice di aver smesso di stampare cartelli con messaggi espliciti come «No alla guerra», sostituendoli con frasi più blande come «La paura non è una scusa per non agire».
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Sono comunque esperienze piuttosto sporadiche, e spesso clandestine. In città come Mosca o San Pietroburgo, scrive Al Jazeera, «la vita procede come sempre: tra le altre cose, bar e festival di musica sono pieni di gente». Si può dire che i russi si stiano in una certa misura abituando alle restrizioni decise dal governo russo, così come con le sanzioni imposte dai governi occidentali: almeno per ora non sembra che stiano avendo conseguenze sulla popolazione tali da provocare, come alcuni speravano, una reale protesta di massa contro Putin.
Secondo alcuni commentatori è difficile immaginare che possano riprendere ampie manifestazioni contro la guerra, o nascere nuovi movimenti: «Perché possano iniziare grosse proteste contro Putin in un futuro prossimo dovrebbero verificarsi alcuni sconvolgimenti drammatici, [come] una grave sconfitta in Ucraina, una ritirata di massa dell’esercito russo o qualche effetto catastrofico sull’economia russa a causa delle sanzioni», ha detto ad Al Jazeera il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko.
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