Sappiamo ancora poco dei Bronzi di Riace
Furono trovati cinquant'anni fa sul fondale del mar Ionio calabrese, e da allora suscitano una certa fascinazione e molte domande
La mattina del 16 agosto 1972 un giovane sommozzatore romano, Stefano Mariottini, si immerse per fare pesca subacquea nel mare Ionio al largo delle coste di Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria. Aveva 30 anni e nella vita faceva il chimico, ma da diverse estati si dilettava come sub in quella zona, che ormai conosceva piuttosto bene. Verso mezzogiorno pensò di allontanarsi dai luoghi più affollati per «cercare qualcosa di più interessante da pescare», come disse in un’intervista a Radio 1 di qualche anno fa, e si fermò in un punto con un raggruppamento circolare di scogli, con al centro una piccola distesa di sabbia.
Fu in quel momento che vide spuntare dal fondale una spalla di colore scuro, la cui forma era inconfondibile nell’acqua trasparente anche dai sei metri di altezza a cui si trovava. Ancora in apnea, fece la capriola che usano i sub per spingersi verso il fondo, pensando che avrebbe trovato il cadavere di una persona. Quando fu vicino si rese conto che «il colore non era scuro ma era verde», e raccontò di aver capito subito di avere di fronte un oggetto in metallo.
Mariottini aveva scoperto i Bronzi di Riace, due statue di bronzo sopravvissute per secoli sotto la sabbia e quasi perfettamente conservate, cosa molto rara per le statue antiche in materiali diversi dalla pietra. I Bronzi rappresentano due guerrieri completamente nudi, molto simili tra loro, con barba e capelli ricci. Con ogni probabilità furono realizzati nella Grecia del V secolo a.C., l’epoca più florida per la scultura greca, di cui sono considerati una delle massime espressioni. Oggi sono conservati nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria.
I Bronzi suscitarono da subito un’enorme curiosità a livello internazionale sia nel pubblico sia negli esperti di arte antica, per il modo in cui furono ritrovati e per i molti misteri che sembravano nascondere. Negli anni sono entrati nella cultura popolare come è accaduto a poche altre opere di arte antica, come simboli della scultura greca e di un ideale di bellezza e perfezione fisica che dalla Grecia antica è sopravvissuto fino ai nostri giorni. Da un punto di vista storico-scientifico, invece, furono fondamentali per ricostruire tecniche e abitudini antiche, ma anche per l’invenzione di nuovi metodi di restauro e conservazione che si resero necessari dopo la loro scoperta.
Sulla loro identità sono state avanzate molte ipotesi da parte di studiosi ed esperti, ma nessuna è prevalente, per questo ancora oggi vengono identificati come “A” e “B”. A è quello conservato meglio – si vedono ancora i denti bianchi tra le labbra socchiuse – ed è alto 1 metro e 98 centimetri. B è quello senza un occhio, è alto 1 metro e 97 e il braccio destro gli fu ricostruito già in epoca antica in seguito a un danneggiamento, imitando quello di A. Alcuni studiosi hanno sostenuto che in base all’abbigliamento e altre differenze si possa ipotizzare che si tratti di un giovane (A) e di un vecchio (B), o di un soldato semplice e di un re guerriero, ma non ci sono grandi certezze in merito.
L’unica cosa su cui tutti concordano è che fossero armati, com’è evidente dalla postura: il braccio sinistro alzato di entrambi doveva probabilmente reggere uno scudo (si vede ancora l’attacco a cui era stato saldato), il braccio destro lungo il corpo teneva una lancia. Entrambi avevano un elmo. Tutti gli elementi delle due statue sono estremamente curati, dai ricci delle barbe fino ai muscoli dei polpacci, e sono stati realizzati con tecniche elaboratissime che hanno pochi paragoni in quel periodo della storia umana.
Un pezzo del fascino suscitato dai Bronzi era dovuto ai dubbi che in parte ancora oggi si portano dietro: sulla loro provenienza e sul loro autore, sul perché fossero stati ritrovati proprio in quel punto dello Ionio, su chi fossero i guerrieri raffigurati. Era eccezionale tutto ciò che li riguardava, dalla scoperta casuale allo stato di conservazione, fino al materiale di cui erano fatti.
Le statue di bronzo greche pervenute fino ai giorni nostri infatti sono pochissime, e praticamente nessuna è arrivata per intero. Il bronzo fu scoperto intorno al V millennio a.C. e da subito venne usato per molti scopi, oltre che come materiale per opere d’arte. Nelle epoche successive all’età greco-romana le statue vennero spesso fuse per riutilizzarlo, nella maggior parte dei casi per farci delle armi.
Ci sono diverse testimonianze del fatto che nella Grecia del V secolo a.C. le sculture in bronzo venissero realizzate in officine in cui si riproducevano in serie, grazie a una tecnica chiamata “fusione a cera persa” (che è stato possibile ricostruire anche grazie ai Bronzi). Semplificando molto, lo scultore creava prima un modello di cera, da cui poi ricavava uno stampo di argilla in cui venivano praticati dei fori. Quando l’argilla si era asciugata, scaldando lo stampo la cera colava via, e il bronzo fuso veniva versato nei fori: solidificandosi nello stampo creava la statua; spesso veniva utilizzata un anima in argilla tra la cera e lo stampo, in modo che il metallo fosse un guscio sottile rendendo la statua leggera.
I Bronzi di Riace seguirono il processo abituale: venne realizzata prima la parte centrale della statua, che comprendeva tronco e gambe, e poi tutte le altre parti separatamente, che venivano successivamente fuse al nucleo centrale. Non solo le braccia, la testa e i pezzi più grossi, ma anche i dettagli più piccoli: a un’analisi approfondita si è scoperto che anche i riccioli delle barbe e dei capelli dei due Bronzi furono realizzati uno per uno e saldati singolarmente alla testa. Altri dettagli venivano eseguiti con colori diversi per rappresentare meglio il corpo umano: i capezzoli sono in rame, così come le labbra; i denti (presenti in una sola delle due statue) erano d’argento; la parte bianca degli occhi, la sclera, era fatta con pietre chiare (avorio e calcare), l’iride con una pietra colorata.
È certo che le due statue fossero state concepite per essere esposte al pubblico anche nell’antichità, com’è stato possibile ricostruire dai “tenoni” di piombo ai piedi, elementi che permettevano di fissarle su un basamento. Le città greche dell’epoca erano piene di statue di bronzo come quelle, come raccontò anche Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.
Lo storico dell’arte greca e romana Marcello Barbanera, dell’università Sapienza di Roma, ha spiegato su Radio 3 che venivano esposte principalmente in santuari, in collezioni private, oppure nelle agorà, le piazze delle città greche in cui illuminavano in modo spettacolare il resto del paesaggio, per effetto dei raggi del sole.
Le poche statue di bronzo greche che possediamo ancora oggi si sono conservate esattamente come i Bronzi, restando sul fondale del mar Mediterraneo (tranne pochissime eccezioni).
Secondo l’interpretazione prevalente, i Bronzi di Riace viaggiavano su una barca proprio per essere esposti come opere d’arte: dopo la conquista della Grecia da parte dei romani (II secolo a.C.) furono moltissime le opere che fecero lo stesso tragitto – dalla Grecia a Roma – per finire in luoghi pubblici o nelle collezioni di imperatori e romani facoltosi. A partire da questa ipotesi si è anche stimato che l’affondamento delle statue nello Ionio possa essere avvenuto tra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo. Forse raggiunsero il fondale dopo un naufragio, oppure vennero gettate in mare dall’equipaggio di una barca che stava affondando, per alleggerire il carico: questo potrebbe spiegare perché siano arrivate intere, al contrario di molte altre statue in bronzo che sono state ritrovate in pezzi o parzialmente distrutte.
Più o meno nello stesso luogo li avrebbe trovati Mariottini circa duemila anni dopo, a circa 200 metri dalla costa e 8 di profondità. Capì subito di aver fatto una scoperta importante, così uscì dall’acqua e telefonò alla Soprintendenza di Reggio Calabria, l’organo del ministero della Cultura che si occupa della tutela dei beni culturali. Era il 16 agosto, e non rispose nessuno.
Alle nove di sera riuscì a rintracciare il soprintendente Giuseppe Foti a casa, il giorno dopo andò a formalizzare la denuncia e si organizzò il recupero con l’aiuto del nucleo sommozzatori dei carabinieri di Messina, che iniziò cinque giorni dopo. Le statue pesavano circa 400 chili ciascuna e l’operazione era abbastanza delicata: furono portate una alla volta in superficie in due giorni diversi, imbracate con funi e agganciate a una specie di pallone aerostatico.
Affiorate in superficie, furono portate a braccio fino alla costa, dove vennero adagiate su materassini in schiuma sintetica appoggiati a una base in legno. Il primo a essere tirato fuori dal mare fu il Bronzo B: sulla costa si radunarono centinaia di curiosi per vederlo, e fu seguito da una nutrita folla negli spostamenti successivi fino al Museo archeologico. Erano conservate benissimo, per avere duemila anni, ma avevano molte incrostazioni e avevano bisogno di un ampio restauro, che cominciò nel 1975 a Reggio Calabria.
Poco tempo dopo però furono trasferite alla Soprintendenza archeologica di Firenze, che era un centro più attrezzato. Furono pulite, sottoposte ad analisi radiografiche e si riuscì a ricostruire molti dettagli su come erano state realizzate e sulla loro storia. Furono parzialmente svuotate della terra di fusione che ancora avevano dentro (l’anima usata nel processo di creazione con la cera e l’argilla), che con il tempo avrebbe rischiato di corroderle e che le appesantiva parecchio.
Quando furono pronte, nel 1980, non poterono essere immediatamente trasferite nel Museo archeologico di Reggio Calabria, a cui erano destinate, perché questo non aveva una sala climatizzata (necessaria per la loro conservazione ottimale). Si decise così di cominciare a esporle comunque, prima al Museo archeologico di Firenze per sei mesi e poi al Quirinale, come volle il presidente della Repubblica Sandro Pertini. A Roma restarono solo dodici giorni, ma radunarono in quel breve periodo circa 300mila visitatori, tra cui intellettuali e personaggi famosi, ma anche moltissimi curiosi.
L’interesse intorno alle due statue in quel periodo fu quasi senza precedenti. Negli anni successivi furono richiesti più volte dai più importanti musei internazionali per esposizioni temporanee, ma anche da eventi mondiali come le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, quelle di Atene del 2004 e l’EXPO di Milano nel 2015: in tutti i casi il trasferimento venne negato, perché gli esperti lo giudicarono troppo pericoloso per la loro integrità.
I Bronzi di Riace infatti in questi anni hanno avuto bisogno di diversi restauri all’avanguardia. Sono stati completamente svuotati della terra di fusione (oggi pesano 160 chili ciascuno) e sia all’interno che all’esterno sono stati applicati prodotti chimici per preservarli al meglio.
Alcune di queste tecniche sono state inventate appositamente per loro, non essendoci molti “parenti” di simile fattura: per rimuovere tutta la terra di fusione all’interno per esempio fu usata una tecnica che si ispirava alla laparoscopia chirurgica, quella che consente di entrare nella cavità addominale con delle sonde attraverso piccoli fori (per i Bronzi furono usati i fori naturali che avevano alla base, o la cavità dell’occhio mancante di B).
Le terre di fusione trovate all’interno risultarono provenire da Argo, l’antica città greca nel Peloponneso: una base su cui si fondarono diverse ipotesi sull’identità dei personaggi raffigurati e sul loro autore. Sono una decina le teorie degli studiosi considerate più rilevanti, ma anche solo il fatto che siano tutte piuttosto diverse dimostra la difficoltà di arrivare a conclusioni certe. Alcuni sostengono per esempio che le statue siano opera di autori diversi, perché presentano caratteri artistici di stili che si sono affermati in anni diversi: nelle botteghe in cui si facevano le statue però si lavorava spesso su committenza, e si producevano anche statue con destinazioni diverse con stili non necessariamente contemporanei.
La maggior parte degli studiosi però è d’accordo sul fatto che fossero opera di uno stesso autore, per via delle notevoli somiglianze, e che appartenessero a uno stesso gruppo scultoreo, forse con altre statue simili. Nelle città greche uscite vittoriose dalle Guerre Persiane, infatti, era frequente l’esaltazione degli antenati o fondatori della città attraverso statue singole e in gruppo. Non sono mai state ritrovate però epigrafi o basamenti con scritte che chiarissero l’identità dei due Bronzi, e anche questo contribuisce ancora oggi ad alimentarne il fascino.