• di Vincenzo Latronico
  • Storie/Idee
  • Domenica 14 agosto 2022

Tanto passa tutto

«Il fatto che esistano domande in teoria pressanti per l’elettorato a cui gli eletti non si degnano neanche di rispondere, evitando con sprezzo o con destrezza ogni situazione in cui tale risposta possa rivelarsi inevitabile è, penso, la ragione profonda dello scoramento con cui tante e tanti di noi guardano oggi alla politica parlamentare»

(Antonio Masiello/Getty Images)
(Antonio Masiello/Getty Images)
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Ricordo bene il momento in cui per la prima volta ho perso la fiducia nella politica. Era il 2005, avevo ventun anni, quattro estati prima le mie amiche e i miei amici avevano preso le manganellate a Genova durante il secondo governo Berlusconi. Nel documentario di Sabina Guzzanti intitolato Viva Zapatero! vidi Luciano Violante – all’epoca capogruppo dei DS, antenati del PD – dichiarare in Parlamento ancora nel 2002 che “l’onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994 – che non sarebbero state toccate le televisioni”. Per me che seguivo la politica di allora questa frase fu un’esplosione nucleare; ma forse con la distanza lo scoppio non si sente bene.

Un riepilogo, per chi non c’era. Nel decennio successivo alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi nel 1994, una parte consistente del dibattito politico italiano fu incentrata sul cosiddetto conflitto d’interessi: ovvero sul fatto che Berlusconi possedesse quasi la metà dei canali televisivi nazionali, generando quindi quando era al governo – dato il controllo politico sulla tv di stato – un sostanziale monopolio informativo. Per la sinistra il conflitto d’interessi era cruciale, perché finché non fosse stato risolto sarebbe stato molto difficile costruire un consenso intorno all’opposizione. Se Berlusconi era stato al potere durante i manganellamenti di Genova, e le torture alla scuola Diaz, e l’uccisione di un ragazzo, era anche per questo. “Toccare le televisioni” era la battaglia centrale della sinistra parlamentare italiana in quegli anni. O meglio: lo sembrava, a noi che la votavamo. Le parole di Violante lasciavano intendere che forse non lo era stata, forse era una finta, un diversivo per infiammare gli animi.

O forse no? Magari quelle parole erano state decontestualizzate. Magari si riferivano ad altro. Il modo più facile di scoprirlo, naturalmente, sarebbe stato di chiederlo a Violante. Ho aspettato, letto i giornali, guardato i talk show (ed era stupido aspettare: quella clip era di tre anni prima). E poi è arrivato il momento di cui sto parlando: un momento di sconforto, il momento in cui ho capito che non glielo avrebbe chiesto nessuno. Non le compagne e i compagni di partito; non le giornaliste e i giornalisti; non io. Avrei, avremmo convissuto col dubbio che la battaglia parlamentare centrale di quegli anni – ribadita quotidianamente nei media, ripetuta ai comizi – non fosse che una maschera, un imbroglio.

Ho capito anche che non sarebbe cambiato niente. Avrei continuato a votare quel partito, per paura della destra o per inerzia o per ingenua convinzione in un cambiamento gattopardesco, sopprimendo il senso di tradimento e di umiliazione. E fra me e me sarei giunto a dare per scontato che ci siano domande che non avranno risposta: il voto è un mandato in bianco conferito non sulla base della fiducia in un progetto condiviso, ma solo della speranza che non venga abusato eccessivamente, speranza illogica perché tutte le volte che è stata tradita ho continuato a votare gli stessi.

Naturalmente questo non vale solo per la sinistra. Dove sono le “meno tasse per tutti”? Dov’è la nipote di Mubarak? Dove sono i quarantanove milioni? Dov’è la democrazia diretta del sistema operativo di governo, dove sono le prove su Bibbiano? Questo era, in fondo, il sottotesto della famosa campagna antiberlusconiana di Repubblica, che per sei mesi pubblicò quotidianamente una lista di domande circa i presunti giri di prostituzione dietro le “cene eleganti” di Arcore. In calce alla lista di domande si ricordava sempre da quanti giorni Berlusconi le lasciava senza risposta. La premessa implicita di quella campagna era che non rispondere a domande tanto serie fosse un tradimento politico gravissimo. Nell’intero arco parlamentare, di quel tipo di tradimento mi pare che non sia innocente nessuno.

Il problema non sono le questioni in sé, ma l’impossibilità di chiederne conto. Le persone cambiano idea; azioni in apparenza contraddittorie possono avere ragioni profonde. Magari il conflitto d’interessi non era un problema per Violante nel ’94 e lo è diventato dopo. Magari Carlo Calenda, dopo lunga riflessione, ha ultimamente rivalutato la persona e l’operato di Matteo Renzi giudicandolo immeritevole delle critiche che gli aveva rivolto lui stesso. Magari Renzi crede che il progetto politico dell’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman porti maggiori diritti. Magari Emma Bonino, che negli anni ’90 fu alleata della Lega di Bossi, vedeva in essa all’epoca dei valori vicini a quelli dei suoi Radicali. È tutto possibile, è tutto ragionevole, o potrebbe esserlo, se fosse spiegato. Ma non lo è quasi mai, o elusivamente; e questo fatto – il fatto che esistano domande in teoria pressanti per l’elettorato a cui gli eletti non si degnano neanche di rispondere, evitando con sprezzo o con destrezza ogni situazione in cui tale risposta possa rivelarsi inevitabile – è, penso, la ragione profonda dello scoramento con cui tante e tanti di noi guardano oggi alla politica parlamentare.

C’è una versione di questo ragionamento che sfocia in un’accusa ai media, che dovrebbero fare da cane da guardia del potere, e invece scodinzolano al suo fianco in un rapporto di omertà simbiotica, di pigro cameratismo romano o di interesse commerciale. Non è la versione che mi interessa. La storia del giornalismo in Italia è diversa da quella anglosassone, e dare la colpa ai giornalisti (che magari se la meritano pure) finisce per essere un modo di risparmiarla agli eletti e agli elettori. Sono loro che ignorano le nostre domande; e siamo noi che ogni volta ce lo facciamo andar bene.

Non tutti: c’è chi opta per il cosiddetto “voto di protesta”, e più spesso c’è chi semplicemente smette di votare (alle politiche del 2018 gli astenuti sono stati quasi un terzo). Ma ciò contro cui protesta il voto di protesta è proprio questa percezione di assoluta irrimediabile irresponsabilità, nel senso etimologico di non rispondibilità: la sensazione che chi chiede non ottiene risposta, che le azioni e le parole non hanno conseguenze né in fondo peso, che tanto passa tutto.

Il mio opinionista interiore, o forse il ventunenne ingenuo che ancora c’è in me, vorrebbe chiudere questo ragionamento dicendo che magari lo spazio aperto oggi a sinistra è questo, prima ancora che sui programmi: la possibilità di riguadagnare la fiducia dell’elettorato mostrandosi aperti alle domande e – in senso letterale – responsabili. Ma poi mi dico che questo è esattamente ciò che ha sostenuto di volere il M5S ai suoi esordi, quando la sua proposta politica pareva rivolgersi alla sinistra delusa dai giochi di potere. Il mito dell’“uno vale uno”, i continui riferimenti alla democrazia diretta, le mai realizzate fantasie di una piattaforma in cui confrontarsi con quelli che erano dipendenti del popolo: era un modo per dire noi siamo diversi, a noi le domande le potete fare, noi rispondiamo. Si è visto. Forse è il contrappasso che meritiamo, o il finale perfetto per la tragicommedia della sinistra italiana: qualcuno che ottiene consensi promettendo di rispondere finalmente alle domande, ma poi si rifiuta di rispondere a chi domanda che ne è stato di quella promessa. Tanto passa tutto.

Vincenzo Latronico
Vincenzo Latronico

Vincenzo Latronico traduce e scrive romanzi. Ne ha pubblicati quattro con Bompiani, l'ultimo a marzo 2022: Le perfezioni.

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