La destra fa sul serio con la “flat tax”?
La propone da anni, mettendola al centro dei suoi programmi economici: ma ci sono grossi problemi di sostenibilità ed equità
di Mariasole Lisciandro
Giovedì è stato pubblicato sui giornali il programma comune della coalizione di destra, un elenco in 15 punti che stabilisce quali sono le priorità dei partiti della coalizione, Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati. Sul fisco il programma è estremamente vago: tra le varie promesse di generica riduzione della pressione fiscale la destra propone anche una “flat tax”, ossia un’imposta unica che dovrebbe sostituire il meccanismo attuale dell’IRPEF a scaglioni.
I partiti che compongono la coalizione di destra parlano di flat tax da anni, soprattutto Lega e Forza Italia, senza però mai riuscire ad approvare le misure promesse, se non in piccola parte. Questo tipo di tassazione da una parte semplifica parecchio il sistema fiscale, dall’altra ha un costo enorme e rischia di creare molte distorsioni. E sebbene questa sia la seconda campagna elettorale consecutiva in cui la destra mette la flat tax al centro delle sue proposte economiche, non è ancora ben chiaro se e come potrà essere attuata.
L’idea di base della flat tax è che, anziché pagare le tasse a scaglioni basati sul reddito, tutti paghino un’aliquota unica (“flat”, cioè piatta, la stessa percentuale), sia che guadagnino diecimila euro all’anno sia che ne guadagnino centomila. I sostenitori della misura sostengono che in questo modo si allenterebbe la pressione fiscale (le proposte di aliquota unica sono sempre piuttosto basse) e si ridurrebbe anche l’evasione. Vari studi hanno tuttavia dimostrato che l’introduzione di una flat tax porterebbe benefici soprattutto sulle persone con redditi già alti, e non avrebbe grossi vantaggi per chi ha redditi medio-bassi.
La proposta del programma della coalizione di destra prevede come primo approccio l’applicazione di una tassa unica al 15 per cento per le partite IVA fino a 100 mila euro di reddito annuo e a tutti i redditi aggiuntivi rispetto a quelli dell’anno precedente. Su quest’ultimo punto non è chiaro chi siano i destinatari, se i lavoratori dipendenti, le partite IVA, le società, o tutti i contribuenti. Dopo questi primi passaggi si valuterà l’introduzione graduale di una flat tax per tutti, famiglie e imprese, dice il programma.
La proposta sembra una sintesi tra le diverse sensibilità dei partiti della coalizione, ciascuno dei quali ha proposto una sua versione di flat tax: quella del leader della Lega Matteo Salvini, che vorrebbe una flat tax per tutti al 15 per cento, e l’approccio più cauto della presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che vorrebbe concentrarsi sulle partite IVA e sui redditi incrementali.
C’è però da aspettarsi che i singoli partiti, benché in coalizione e con una proposta comune, continueranno a promuovere le proprie proposte sul tema, che tra loro hanno grosse differenze.
La destra al governo aveva già provato a introdurre la flat tax
Matteo Salvini è quello che è andato più vicino all’introduzione di un’imposta unica: con la legge di Bilancio per il 2019 il governo composto da Lega e Movimento 5 Stelle approvò una flat tax solo per le partite IVA in regime forfettario sotto i 65 mila euro di reddito annuo, una facilitazione che è tuttora in vigore. L’intenzione era di estenderla gradualmente alle altre fasce di reddito, fino ad arrivare a un’imposta unica per tutti al 15 per cento nel giro di qualche anno. Ma poi il governo Lega-M5S cadde e la proposta fu abbandonata.
Oggi il leader della Lega è tornato a proporre una flat tax al 15 per cento per tutti, cercando di finire quello che aveva iniziato quando era al governo.
Forza Italia propone una versione diversa di flat tax: un’aliquota per tutti al 23 per cento, e chi ha un reddito sotto ai 12 mila euro non paga niente. Anche questa non è un’idea nuova nei programmi del partito: Silvio Berlusconi la propose per la prima volta nel 1994 e poi arrivò vicino ad attuarla nel 2003, durante il suo secondo governo, quando inserì in una legge delega una riforma dell’IRPEF a due aliquote, una al 23 per cento entro i 100 mila euro di reddito e una al 33 per cento oltre tale importo. Ma non furono mai fatti i decreti attuativi, perché ai tempi il governo ritenne che quella riforma sarebbe stato un eccessivo aggravio per le finanze pubbliche, anche se il debito pubblico era ancora poco superiore al 100 per cento del PIL, contro il 150 per cento circa di quest’anno.
È più cauta sulle promesse Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, che propone invece una flat tax al 15 per cento solo sui redditi aggiuntivi. In un video destinato alla stampa estera ha anche detto che sui conti pubblici «non si potrà scherzare col fuoco, bisognerà fare attenzione».
Come funziona oggi il fisco
Prima di spiegare cosa prevedono le riforme della coalizione di destra, ecco un breve ripasso di come funziona il sistema fiscale in Italia.
IRPEF è un acronimo che sta per Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche. È un’imposta che lo stato esige da chiunque percepisca un reddito in quanto lavoratore dipendente o autonomo, oppure dall’utile di impresa, da terreni o fabbricati, da capitali. La Costituzione prevede che sia progressiva, quindi chi guadagna di più paga di più ed è soggetto a un’aliquota superiore.
L’IRPEF è un’imposta che serve a finanziare i servizi generali dello stato: il 20 per cento serve a finanziare la sanità, il 21 la previdenza, l’11 l’istruzione e l’8,9 la difesa, l’ordine pubblico e la sicurezza.
Per pagare l’IRPEF oggi si applicano le diverse aliquote al reddito annuo: sui primi 15 mila si paga il 23 per cento, su quella da 15 a 28 mila si paga il 25 per cento, su quella da 28 a 50 mila si paga il 35 per cento, sul resto si paga il 43 per cento. Per il 2022 sui redditi fino a 8.174 euro di fatto non si paga IRPEF, perché le detrazioni sono pari all’imposta.
In aggiunta, la progressività della tassazione è garantita anche da un sistema di deduzioni e detrazioni, chiamate spese fiscali. Ne esistono tantissime, per esempio le deduzioni per la previdenza complementare e le detrazioni per i figli a carico e le spese sanitarie. Ma accanto a queste, ne esistono alcune più marginali e che riguardano un ristretto numero di beneficiari: per esempio “l’esclusione dall’IRPEF dei proventi dell’apicoltura condotta da apicoltori con meno di 20 alveari e ricadenti nei comuni classificati montani” (costo: 1,1 milioni di euro l’anno) o il credito d’imposta “per gli esercenti attività commerciale che operano nel settore della vendita dei libri al dettaglio” (costo: 3,8 milioni l’anno).
Si tratta di piccoli incentivi, dati spesso per garantirsi il favore politico di certe categorie, che negli anni si sono stratificati e che oggi costano allo stato oltre 40 miliardi all’anno, se si considera solo l’IRPEF. Con tutte le altre imposte, il costo per lo stato sale a 65 miliardi.
Gli interventi in materia fiscale fatti dal governo di Mario Draghi, peraltro, andavano proprio nella direzione di semplificare alquanto le cose: le aliquote sono state ridotte da 5 a 4 e il sistema di bonus e deduzioni familiari è stato razionalizzato e inglobato nell’assegno unico.
Come funzionerebbe la flat tax
La proposta di Matteo Salvini, consultabile sul sito della Lega, sembra la stessa che fece per le elezioni politiche del 2018 ed è stata depositata in questa legislatura anche come progetto di legge al Senato. Con un procedimento a più fasi, si vorrebbe sostituire il sistema a scaglioni attualmente in vigore con un’unica imposta al 15 per cento da applicare a tutti, partite IVA e lavoratori dipendenti. Nella proposta di legge si parla anche di un’estensione alle imprese, arrivando così veramente a tutti.
L’obiettivo è semplificare il fisco italiano, che è molto complicato per tutto il sistema di bonus, deduzioni e detrazioni che confondono parecchio il contribuente.
La prima fase del progetto di Salvini è stata già attuata: la Lega, assieme a tutta la coalizione di destra, propone di estendere subito la flat tax per le partite IVA ai redditi entro i 100 mila euro. L’estensione era già prevista per il 2020, ma non è mai stata attuata con la caduta del primo governo di Giuseppe Conte. Si tratterebbe quindi di procedere ora alle fasi successive, che introdurrebbero con gradualità la flat tax prima per diverse fasce di reddito e anche ai lavoratori dipendenti, poi per le imprese e infine proprio per tutti.
Una differenza significativa col sistema attuale deriva anche dal fatto che l’imposta sarebbe applicata sul reddito familiare, alla cosiddetta “famiglia fiscale”, e non più su quello individuale. Sarebbero poi eliminati tutti i bonus e tutte le detrazioni e deduzioni. Ma per garantire un minimo di progressività dell’imposta sarebbe introdotta una deduzione familiare per ogni membro a carico, come un figlio o il coniuge, deduzione che si ridurrebbe all’aumentare del reddito.
In ogni caso, è prevista una sorta di clausola di salvaguardia, secondo cui con il nuovo sistema al contribuente non verrà mai chiesto più di quanto già paghi attualmente.
La flat tax di Forza Italia è molto simile ma è strutturata in modo diverso: l’aliquota è più alta, pari al 23 per cento, e invece delle deduzioni familiari prevede che sotto la soglia dei 12 mila euro di reddito non si paghi alcuna imposta.
Quella proposta da Fratelli d’Italia ha un meccanismo molto semplice e si tratta di un semplice incentivo a dichiarare redditi aggiuntivi: tasserebbe con un’aliquota al 15 per cento solo i redditi aggiuntivi rispetto alla dichiarazione dell’anno passato.
Quanto costa e chi ne beneficia
Sono molte le stime sul costo di questa misura, come quella fatta dall’economista Tito Boeri sulla Stampa, secondo cui arriverebbe a costare fino a 80 miliardi l’anno. Secondo i calcoli di lavoce.info, la proposta della Lega causerebbe minori entrate allo stato per 58 miliardi all’anno. La flat tax di Berlusconi, grazie a un’aliquota più elevata, costerebbe intorno ai 30 miliardi l’anno, sulla base delle varie stime che circolano. Quella proposta da Meloni è ancora troppo vaga e non sono state fatte stime ufficiali, ma si parlerebbe di importi molto inferiori.
Il principio guida della flat tax è che abbassando le tasse prima o poi le pagheranno tutti.
Secondo i suoi sostenitori, quindi, col tempo la flat tax arriverà a finanziarsi con le entrate aggiuntive che arriveranno da una minore evasione fiscale. Secondo l’ultimo rapporto sull’evasione fiscale in Italia, l’IRPEF evasa vale mediamente 38 miliardi l’anno. Se anche si recuperassero tutti, mancherebbero comunque 20 miliardi da finanziare, per la proposta della Lega.
I sostenitori della misura ritengono che la flat tax riuscirebbe a generare anche crescita economica, che contribuirebbe a finanziarla. Sempre secondo i calcoli di lavoce.info, per ottenere lo stesso gettito attuale, i redditi dovrebbero quasi raddoppiare, una crescita che è molto improbabile che si realizzi in pochi anni.
Ma veniamo ai benefici: è vero che abbassando l’aliquota ne beneficerebbero complessivamente tutti. Ma il risparmio sarebbe ben maggiore per chi ha un reddito più alto: sarebbe del 14,3 per cento per la fascia più alta, contro lo 0,7 per cento per la fascia più bassa. I più ricchi ne guadagnerebbero in proporzione 20 volte in più rispetto ai più poveri. E considerando il risparmio complessivo per i contribuenti italiani, la fascia con i redditi più alti ne otterrebbe oltre la metà.
Ma quindi è una proposta seria e fattibile?
In linea di principio, tutte le proposte politiche sono potenzialmente attuabili: il discrimine tra ciò che può essere realizzato e quello che invece è destinato a restare una promessa sono le modalità di finanziamento.
La flat tax non può essere finanziata facendo ricorso al debito pubblico. Misure strutturali devono essere finanziate in modo strutturale, se ci si vuole muovere all’interno del principio di una prudente gestione del bilancio e delle regole europee. Uno stato che finanzia una riduzione permanente delle tasse a debito è economicamente paragonabile a una famiglia che chiede un mutuo ogni volta che va a fare la spesa. Non è sostenibile nel tempo.
Dati alla mano, le modalità con cui la destra ha finora pensato di finanziare la flat tax sono irrealistiche: il recupero delle tasse evase non basterebbe neanche nella più favorevole delle ipotesi che emerga tutto il sommerso, e la crescita economica che servirebbe è praticamente impossibile da ottenere in breve tempo.
Le strade sono quindi due: o si aumentano le entrate, tramite altre tasse, o si riducono le spese, tagliando i servizi che lo stato eroga ai cittadini.
E se si opta per la riduzione dei servizi essenziali, il cittadino, specie se meno ricco, rischia di perdere più di quanto ha risparmiato con la flat tax. Si pagherebbero meno tasse, ma magari si dovrà ricorrere a medici privati, le forze dell’ordine avranno meno risorse per garantire la sicurezza e così via.
Non ci sono invece problemi di costituzionalità, come molti detrattori sostengono: la flat tax, a seconda di come viene impostata, può comunque garantire un po’ di progressività, tramite le deduzioni e detrazioni o tramite una soglia di reddito minima sotto cui non si paga. E le proposte della destra vanno in questa direzione. È però molto meno progressiva rispetto a un tradizionale sistema a scaglioni. Come ha fatto notare l’economista Carlo Cottarelli, che si è da poco candidato con la coalizione di centrosinistra, la flat tax «non va demonizzata», ma va riconosciuto che è molto meno redistributiva.
Inoltre, c’è un costo politico. Per ottenere la semplificazione del sistema tributario che auspicano i sostenitori della flat tax, si dovrebbe trovare il coraggio di eliminare tutte le detrazioni e deduzioni destinate alle diverse categorie dei contribuenti. Molti economisti definiscono questo sistema eccezionalmente complesso, perché negli anni le facilitazioni si sono stratificate e oggi è difficile districarsi tra le varie deduzioni, detrazioni, agevolazioni, esenzioni e così via.
Ma chi ha il coraggio di togliere benefici acquisiti da anni, seppur in ottica di un riordino complessivo? Su Repubblica Tito Boeri e Roberto Perotti fanno notare questo a proposito della cancellazione di queste misure:
È un approccio estremamente superficiale e semplicistico che astrae completamente dal senso comune e dalla realtà politica. Alcune deduzioni e detrazioni, come quelle per le spese sanitarie straordinarie e per i disabili, sono una forma di assicurazione sacrosanta e insostituibile. La deduzione unica non può coprire eventi eccezionali come la nascita di un figlio disabile.
Certo, centinaia di spese fiscali sono invece solo il risultato di uno scambio di favori tra lobby e governi, e non hanno alcun senso. Ma le spese fiscali sono sempre “troppo grandi” o “troppo piccole”. Nel primo caso abolirle comporta perdere tantissimi voti; nel secondo nessun governo vorrà rischiare di perdere migliaia di voti per risparmiare qualche decina di milioni.
Nicola Rossi, economista e sostenitore della flat tax da prima che diventasse un argomento di campagna elettorale, e che tra le altre cose ha fatto proprio una sua proposta con l’Istituto Bruno Leoni, commenta così sulla Stampa:
Se si intende estendere un’aliquota unica del 15 per cento a tutti i contribuenti è una cosa impossibile, innanzitutto dal punto di vista dei conti. E non avrebbe nemmeno senso come struttura del sistema tributario. La Lega purtroppo si è impiccata a questo 15 per cento, che anni fa è stato fatto in maniera molto improvvida senza far bene i conti, ma è una proposta che non ha molto senso.
Rossi definisce così la proposta di Forza Italia:
Centrata, anche se sarebbe meglio indicare il 25 per cento. Però, per arrivare a quel risultato, occorre disboscare in maniera molto significativa tutta la giungla delle spese fiscali e dei trattamenti di favore.
Per fare della flat tax una proposta credibile, dunque, i partiti che la sostengono devono indicare esattamente come intendono strutturarla, come intendono finanziarla e in quanto tempo. Il programma della coalizione non solo non lo fa, ma propone una flat tax che, per come è strutturata, non può essere considerata una riforma fiscale complessiva e avrà soprattutto l’effetto di favorire alcune categorie, tendenzialmente già benestanti.