È il momento delle serie tv ambientate nei luoghi di lavoro
Le recenti “Industry”, “The Bear” e “Scissione” sono piaciute molto e reinterpretano un genere visto varie volte in televisione
«Mentre nella vita vera l’ufficio diventa sempre meno attraente» ha scritto Carrie Battan sul New Yorker «in televisione, l’ufficio sta diventando il miglior posto possibile». Battan usa questa premessa per introdurre un’analisi su quel che accomuna tre serie fra le più apprezzate dell’ultimo periodo: Industry, The Bear e Scissione.
Industry è una serie HBO sull’alta finanza londinese (che non è ancora arrivata in Italia e di cui intanto è arrivata la seconda stagione). The Bear è una serie, anche questa ancora inedita in Italia, su uno chef che aveva altri e più ambiziosi piani e che si trova a gestire il modesto ristorante di famiglia. Scissione è la serie di Apple TV in parte diretta da Ben Stiller su un gruppo di impiegati la cui memoria viene, per l’appunto, scissa: quando lavorano non ricordano nulla della vita fuori dal lavoro e fuori non ricordano nulla del loro lavoro.
Secondo Battan queste tre serie rappresentano più di un indizio del fatto che, in un periodo in cui molti stanno decidendo di cambiare lavoro e dopo che molti si sono abituati a una vita diversa da quella da ufficio, sta forse iniziando un particolare sottogenere della serialità: la workplace TV, la televisione del posto di lavoro.
«Industry, Scissione e The Bear mostrano luoghi di lavoro molto diversi l’uno dall’altro, ma ognuna di queste serie evidenzia i modi in cui il lavoro, e più precisamente i colleghi, permettono alle persone di dividere in compartimenti le loro identità, dando così tregua a certe turbolenze personali», ha scritto Battan. Anche se va detto che non tutti, non sempre, in queste serie trovano nel lavoro una soluzione ai loro problemi. Anzi.
La workplace TV non è niente di nuovo. Nel cinema e ancor di più nella serialità è infatti molto comune partire dai confini, dalle routine, dai ruoli e dalle gerarchie di determinati posti di lavoro per fare serie televisive. Lo sì è fatto spessissimo con medici, avvocati o poliziotti vari, ed è successo piuttosto spesso anche con storie ambientate nei dietro le quinte di televisioni, giornali o radio, o in qualche determinato contesto legato alla politica. Di fatto, sebbene riguardasse un posto di lavoro senz’altro particolare, quello di chi si trova a lavorare per il presidente degli Stati Uniti, già The West Wing (così come ogni altra serie scritta da Aaron Sorkin) era workplace TV. E lo era anche Mad Men, ambientata in un’agenzia pubblicitaria degli anni Sessanta.
Sebbene la workplace TV possa avere confini molto ampi (anche certe storie di gangster possono essere considerate, entro certi termini, storie da posto di lavoro), da diversi decenni le serie ambientate in uffici o contesti affini erano principalmente comiche. Da 30 Rock a Veep, da Scrubs a Silicon Valley, da Boris a Chiami il mio agente, decine di serie hanno raccontato, ridendone, certi lavori. Lo fa anche la serie che, fin dal titolo, è per molti il miglior esempio di questo filone: The Office (sia britannica che statunitense).
Spesso, come fa The Office, si tende a prendere un contesto apparentemente monotono o comunque non necessariamente avvincente e, sfruttando le possibilità di definizione di ruoli e personaggi concessa dalle limitazioni dell’ufficio, si cerca di esasperare e portare all’estremo contesti e situazioni familiari, così da generare comicità.
A differenza di queste serie comiche, spesso sitcom con episodi da mezz’ora o anche meno, Industry, Scissione e The Bear sono però serie drammatiche.
Industry è ambientata negli uffici della Pierpoint, una prestigiosa (e fittizia) banca d’investimento londinese, con particolare attenzione alle vite (lavorative e non) di alcuni giovani laureati che puntano a farsi assumere dalla Pierpoint. Di Industry, Battan ha scritto che riesce «a valorizzare e condannare in egual misura il settore finanziario», e che oltre a una «gelida palette di colori, a una colonna sonora sognante, a un cast pieno di giovani talenti e a una sceneggiatura zeppa di oscuri termini finanziari che è divertente ripetere» a rendere «irresistibile» la serie è il modo diretto con cui riesce a raccontare determinate dinamiche sociali e specifici taboo comportamentali da luogo di lavoro.
«Era dai tempi di Mad Men» ha scritto Battan «che una serie non si divertiva tanto a esplorare così sfacciatamente le ombre caotiche che possono svilupparsi quando tante giovani persone passano troppo tempo insieme in un ufficio».
Più nello specifico, Industry affronta spesso questioni legate alla necessità di trovare (e al rifiuto da parte di alcuni di anche solo provare a cercare) un equilibrio tra vita e lavoro. Sin dai primissimi minuti della seconda stagione, questo argomento è inoltre trattato in relazione al ritorno al lavoro in ufficio dopo la pandemia. Da più parti, infatti, la seconda stagione di Industry è stata presentata come la prima che riesce a raccontare con efficacia la vita del dopo-pandemia.
«Se Industry si addentra nell’esaltazione di un mondo di lavoro senza confini» (oltre al lavoro, ci sono anche parecchie feste e droghe), secondo Battan Scissione (che è disponibile da febbraio e che è stata rinnovata per una seconda stagione) «esaspera la piattezza di un contesto in cui vita e lavoro sono perfettamente separati». A metà tra il thriller e la fantascienza, la serie è ambientata negli uffici della Lumon, un’azienda di cui gli stessi dipendenti non hanno una chiara idea di cosa faccia, e in cui ad alcuni lavoratori è proposto di sottoporsi volontariamente a un intervento chirurgico di scissione, per separare davvero e completamente il lavoro dal resto della vita.
«Gli uffici della Lumon» ha scritto Battan «sono una landa desolata di pulizia aziendale» in cui i dipendenti «trovano gioia nei più sciocchi piaceri». E la serie dà il suo meglio quando «i dipendenti iniziano a crearsi nuove vite personali all’interno dell’ufficio, creando rivalità e forgiando legami sociali».
In un articolo su Scissione e «su un nuovo genere che potrebbe essere definito “dell’ufficio inquietante”, una sorta di immagine riflessa di una serie come The Office o di un film come Impiegati… male!», The Ringer ne ha parlato come di una serie che «più procede e più diventa risonante» perché è basata «su un concetto semplice con applicazioni complesse» e perché riesce a essere «allegorica e surreale» ma, al contempo, a stimolare riflessioni reali su «quello che dobbiamo ai nostri lavori così come su quello che i nostri lavori devono invece a noi».
La workplace TV, ha scritto Battan, non è però fatta solo di «tradizionali uffici dove si entra alle nove e si esce alle cinque». Sebbene una cucina non sia evidentemente un ufficio, Battan considera infatti The Bear un esempio a pieno titolo della workplace TV. «La maggior parte della serie» ha scritto «ha luogo proprio nella cucina, un posto in cui i convenevoli non sono richiesti: lì la pressione e la tensione sono altissime», chi ci lavora non ha ovviamente «il lusso di scegliere se lavorare da casa» e la maggior parte delle persone «non sembra riuscire a distinguere bene il lavoro dalla vita».
«Al pari dei trader di Wall Street» ha scritto Battan «gli chef sono notoriamente alcune delle persone più oberate di lavoro, e The Bear lo mostra bene». Oltre che per come racconta un particolare tipo di lavoro (peraltro spesso raccontato dalla televisione-della-realtà, ma raramente dalla serialità) The Bear, che in Italia arriverà probabilmente su Disney+ e di cui ci sarà una seconda stagione, è stata apprezzata per la vivacità, spesso la frenesia, del suo montaggio e in genere è stata considerata realistica rispetto a quello che succede in molti ristoranti di quel tipo. Come ha scritto Rivista Studio il protagonista Jeremy Allen White ha «il merito di tenere The Bear in equilibrio sul confine sottilissimo che separa l’appassionante dall’estenuante».
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