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  • Mercoledì 10 agosto 2022

Perché Domino’s Pizza ha chiuso in Italia

Soprattutto a causa dell'aumento della concorrenza nel delivery, su cui la società che gestiva il franchising italiano aveva puntato molto

Un cartone di Domino's Pizza, in Italia dal 2015 (AP Photo/Gene J. Puskar)
Un cartone di Domino's Pizza, in Italia dal 2015 (AP Photo/Gene J. Puskar)
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La chiusura negli scorsi giorni di tutti i punti vendita italiani della catena americana Domino’s Pizza – accolta sui social network con una certa ironia e rivendicazioni per la pizza italiana – ha varie cause piuttosto articolate ed è l’ultima fase di un processo che va avanti da tempo. Da fine luglio, il sito e la app di Domino’s non permettono di effettuare ordini in seguito al fallimento della società ePizza SpA, che detiene i diritti per la gestione del franchising da quando l’azienda statunitense entrò nel mercato italiano, nel 2015. La società italiana già da aprile aveva chiesto di accedere alle  cosiddette “misure protettive” a seguito di una prolungata crisi e non riuscendo a ripagare circa 600 creditori.

La procedura che attiva legalmente le “misure protettive”, ossia che blocca temporaneamente richieste di fallimento da parte dei creditori nel tentativo di risanare l’impresa con l’intervento di un supporto indipendente, è però scaduta il mese scorso. EPizza SpA, che non ha voluto rilasciare dichiarazioni quando contattata da Bloomberg e BBC, andrà probabilmente incontro a un’istanza di fallimento. Domino’s, azienda fondata in Michigan nel 1960, che ha oltre 4 miliardi di dollari di fatturato e 18mila punti vendita nel mondo, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali, ma potrebbe valutare una riapertura affidandosi a un nuovo gestore in franchising. Il percorso tuttavia potrebbe essere lungo.

I motivi della crisi, spiegati dalla stessa ePizza nei documenti della procedura legale per la conferma delle misure protettive, sarebbero una generale contrazione dei ricavi durante il periodo pandemico e poi un’aumentata concorrenza nel settore del delivery, provocata dall’aumento dell’offerta durante il lockdown. In quel periodo sono cresciute in modo consistente le app di delivery come Glovo, Just Eat e Deliveroo, e anche molti ristoranti e pizzerie più piccoli sono stati costretti a organizzare propri sistemi di consegna a domicilio, che poi hanno mantenuto in seguito.

– Leggi anche: Le pizze degli altri

Al momento dell’ingresso sul mercato italiano, Domino’s ed ePizza avevano indicato come punti di forza del loro prodotto non tanto le ricette “americane” delle loro pizze, come quelle molto citate con ananas, pepperoni o pollo, ma le innovazioni nel sistema di consegna.

In particolare, le aziende parlavano di borse riscaldate per mantenere la pizza calda durante il trasporto; cartoni più rigidi per evitare che i condimenti si attaccassero alla parte alta della scatola; una flotta ecologica e riconoscibile di motocicli per la consegna; un servizio di tracking online per seguire la consegna. Attraverso la app e il sito sarebbero dovuti passare il 60-70 per cento degli ordini, che invece non hanno superato il 35 per cento nell’ultimo anno completo di attività, con un calo del 25 per cento dei download della app nel 2021 rispetto all’anno precedente, imputabili a una maggiore concorrenza.

Domino’s Pizza aveva aperto in Italia con il progetto di arrivare a 880 punti vendita nel 2030 (sono attualmente 1.200 in Regno Unito e Irlanda, il mercato europeo più ampio): sono stati al massimo 29, ridotti a 27 a inizio 2022.

EPizza era arrivata a gestirne 23, con 6 punti vendita in sub-franchising, e al momento della chiusura ne controllava 11 direttamente, avendone dati 3 in affitto e 13 in sub-franchising. Nel 2020 aveva dichiarato un fatturato di circa 8 milioni di euro a fronte di perdite per 5 milioni e un costo del personale di quasi di 5 milioni. Già alla fine del 2020, dice Bloomberg, la società aveva 10,6 milioni di euro di debiti.

Nell’aprile del 2021 aveva emesso un bond da 3,5 milioni di euro, con scadenza 2026 e rendimento al 7 per cento, per finanziarsi. Il suo contratto di franchising con Domino’s Pizza del 2015 aveva una durata prevista di dieci anni, con possibilità di rinnovo per altri dieci. Fra i motivi delle difficoltà economiche sono stati indicati anche l’alto costo delle materie prime: dall’autunno del 2020 erano stati stretti accordi con fornitori di prodotti di qualità certificati DOP e IGP (pomodori, mozzarella, formaggi e salumi) per venire incontro alle esigenze del complesso mercato italiano, in cui Domino’s contava di stabilizzarsi con una quota del 2 per cento del totale: l’Italia è il secondo paese per consumo di pizza dopo gli Stati Uniti.