I complicati tentativi di cambiare nome al vaiolo delle scimmie
Le autorità sanitarie vorrebbero ridurre il rischio di disinformazione e di stigma, ma ci sono numerosi rischi e difficoltà
Nelle ultime settimane la crescita del numero di casi rilevati di vaiolo delle scimmie al di fuori dell’Africa ha sollevato preoccupazioni in merito alla possibilità che in altre parti del mondo, tra cui l’Europa e gli Stati Uniti, il virus che provoca la malattia possa diffondersi e diventare endemico tra specie animali diverse da quelle in cui è storicamente diffuso in Africa. Questa eventualità – ancora tutta da verificare – è considerata da alcuni scienziati un fattore che potrebbe, nel caso, rendere il virus molto più difficile da eradicare e la malattia – già dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) un’emergenza sanitaria internazionale – un motivo di preoccupazione stabile per gli esseri umani.
Gli sviluppi più recenti dell’emergenza hanno reso più chiare, tra le altre cose, alcune delle ragioni alla base del suggerimento condiviso dalle autorità sanitarie di cambiare nome scientifico al vaiolo delle scimmie: sia alla malattia (Monkeypox) che al virus (Monkeypox virus).
Il vaiolo delle scimmie, un virus scoperto nel 1958 e appartenente alla stessa famiglia del vaiolo, è da tempo diffuso in alcune zone dell’Africa occidentale e centrale tra i primati non umani ma anche in alcune specie di piccoli roditori, e il timore è che possa appunto diffondersi tra altri mammiferi diversi dalle scimmie nei paesi in cui sta attualmente circolando. Le sfumature razziste e lo stigma associati da alcuni alla nomenclatura attuale potrebbero inoltre, secondo le stesse autorità, ostacolare i futuri sforzi di contenere la diffusione della malattia.
A giugno scorso, accogliendo una richiesta presentata da un gruppo di scienziati, il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus aveva annunciato che l’organizzazione stava collaborando con i propri partner per trovare un nuovo nome al virus, alla malattia che provoca e ai diversi raggruppamenti del virus. Al momento non sono però emersi – né all’interno della comunità scientifica, né sui media – modi diversi di indicare il vaiolo delle scimmie che siano largamente condivisi. E ci sono anzi dubbi sul fatto che l’introduzione e l’affermazione di un nuovo nome possano avvenire in tempi brevi.
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La ri-denominazione dei virus e delle malattie è un’operazione complessa e comporta una serie di rischi, a cominciare dalla discontinuità e dall’incoerenza che può generare all’interno della letteratura scientifica. Trovare nomi alternativi che in nessun caso risultino ambigui o offensivi è inoltre meno semplice di quanto possa sembrare, e c’è da tenere conto che un nome che potrebbe funzionare in una certa lingua o cultura potrebbe non funzionare in un’altra. Le responsabilità e competenze per rinominare virus e malattie ricadono infine su diversi settori della comunità e delle istituzioni scientifiche, che potrebbero trovarsi in disaccordo sulle alternative.
Di questo argomento ha recentemente scritto sul sito di notizie mediche STAT la giornalista scientifica canadese Helen Branswell, che si è a lungo occupata di coronavirus e, prima ancora, delle epidemie di Ebola, Zika, SARS e influenza suina. Quale che sia il prossimo nome scelto dalle autorità per il virus che provoca il vaiolo delle scimmie, secondo Branswell, quasi certamente quel nome conterrà comunque la parola «monkeypox».
L’organo che si occupa della denominazione, descrizione e classificazione universale delle diverse specie di virus e dei nuovi ceppi è la Commissione Internazionale per la Tassonomia dei Virus (ICTV), che dipende dalla principale associazione di microbiologi del mondo. Attualmente, spiega Branswell, l’ICTV è peraltro al lavoro su una profonda revisione dei criteri di classificazione con l’obiettivo di renderli conformi a quelli della classificazione degli organismi viventi.
Per la maggior parte delle altre specie è generalmente utilizzata la nomenclatura binomiale, che prevede l’utilizzo di due nomi per indicare il nome scientifico di una specie (da Homo sapiens a Escherichia coli a Staphylococcus aureus). È probabile che questa scelta riguarderà anche il vaiolo delle scimmie, che potrebbe alla fine essere denominato Orthopoxvirus monkeypox (Orthopoxvirus è il nome del genere a cui appartiene il virus), sulla base di una più estesa proposta dell’ICTV in fase di finalizzazione e relativa ai virus della famiglia Poxviridae.
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Il presidente della sottocommissione che si è occupata della proposta, Colin McInnes, ha detto a STAT che l’ICTV condivide le diffuse preoccupazioni riguardo allo stigma associato al nome attuale del vaiolo delle scimmie. E anche l’idea che il nome attuale sia improprio: le scimmie non sono l’ospite naturale del virus bensì i primi animali su cui sia mai stata osservata la malattia causata dal virus.
Il problema è che non è noto quale sia il vero ospite del vaiolo delle scimmie, cioè il suo serbatoio biologico (l’animale in cui vive, in forma patologica o no, un agente patogeno per gli esseri umani o per animali di altre specie). Inoltre il vaiolo delle scimmie non è il primo caso di virus che prende il nome dalla prima specie animale in cui sia stato riscontrato, a prescindere da quale fosse l’ospite naturale.
Cambiare nome al vaiolo delle scimmie pone poi il rischio di creare discontinuità nella letteratura scientifica e quindi confusione sia sul virus che sulla malattia, già oggetto di ricerche da oltre 50 anni. McInnes ha detto che nessuna decisione definitiva è ancora stata presa ma che la maggioranza del comitato è favorevole a mantenere nella nomenclatura la parola monkeypox, «proprio per il pericolo di perdere tutte le prime ricerche scientifiche ed epidemiologiche esistenti, che ovviamente sono parecchie».
In una guida (pdf) adottata dall’OMS dal 2015 per la scelta dei nomi delle nuove malattie infettive sono presenti diverse indicazioni su cosa non fare: non utilizzare nomi propri di persona, per esempio, e non fare riferimenti a luoghi né ad animali. Ma ovviamente la questione è molto più complicata e le resistenze sono maggiori quando si tratta di cambiare nome a malattie conosciute. «La MERS [acronimo dell’inglese Middle East Respiratory Syndrome] è ancora la MERS, anche se dice “Medio Oriente” e alla gente non piace», ha osservato Rosamund Lewis, responsabile tecnica dell’OMS per il vaiolo delle scimmie.
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Una volta stabilito il nome di una malattia, l’OMS assegna a quella malattia un codice nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD), utilizzata in tutto il mondo come riferimento per le diagnosi. Attualmente non circolano altri nomi per definire il vaiolo delle scimmie. Ma se anche l’OMS dovesse in futuro ricevere proposte di nuovi nomi, approvarne uno richiederebbe un processo con diversi passaggi, e soltanto alla fine quel nome comparirebbe nell’ICD come alternativo o preferito.
«Si può fare, è già accaduto in passato, ma i precedenti non sono molti», ha detto Lewis facendo riferimento alla sindrome di Down, oggi indicata nell’ICD come trisomia 21 (nome preferito) o sindrome di Down (nome alternativo), ma per lungo tempo chiamata in campo scientifico mongolismo, prima che questa denominazione venisse dismessa perché percepita come offensiva.
È necessario inoltre che i nomi proposti siano pronunciabili e che non abbiano significati specifici e fuorvianti in altre lingue. Inizialmente si era discusso della possibilità di utilizzare come nome alternativo del vaiolo delle scimmie la parola «monopox», ha citato Lewis come esempio, ma poi la proposta era stata scartata perché in spagnolo mono vuole dire «scimmia».
Il processo di nuova denominazione del vaiolo delle scimmie potrebbe concludersi più facilmente e rapidamente, secondo Branswell, per quanto riguarda il nome da dare alle cladi del virus (il clade è un raggruppamento di specie con uno stesso antenato comune). Esistono due diversi cladi di vaiolo delle scimmie: il clade del bacino del Congo, in Africa centrale, e quello dell’Africa occidentale.
Al clade del Congo sono storicamente associate forme di malattia più gravi e un tasso di letalità (la quantità di persone che muoiono per una malattia rispetto al totale dei malati) di circa il 10 per cento. A quello dell’Africa occidentale, responsabile delle attuali pandemie in diversi paesi del mondo, sono associati casi più lievi e un tasso di letalità tra l’1 e il 3 per cento nei paesi africani in cui è endemico (stima al momento molto diversa da quella, più bassa, basata sui dati di altri paesi).
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Il gruppo di scienziati che a giugno aveva inviato all’OMS la richiesta di revisione dei nomi attribuiti sia al vaiolo delle scimmie che alle sue cladi definiva i collegamenti geografici tra la malattia e l’Africa «stigmatizzanti e discriminatori». E suggeriva l’utilizzo di nomi neutri come «clade 1» per i virus del bacino del Congo e «clade 2» per quelli dell’Africa occidentale, e di attribuire il nome «clade 3» ai virus delle attuali epidemie internazionali e dei casi rilevati negli ultimi anni in paesi diversi dall’Africa.
Secondo i firmatari della richiesta di revisione, i cambiamenti nei modelli di trasmissione – quella da umano a umano non sono ancora del tutto chiare – e la composizione genetica dei virus delle attuali epidemie suggeriscono di adottare anche una denominazione nuova del virus. La loro proposta di soprannome provvisorio è hMPXV, abbreviazione di human monkeypox virus (virus del vaiolo delle scimmie umano).
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Lewis ha detto a STAT che soltanto una parte delle richieste potrebbe essere accolta in modo relativamente facile, dal momento che né l’OMS né l’ICTV sono responsabili della denominazione delle cladi. A favorire la diffusione dei nomi alternativi delle cladi sarebbe in questo caso l’uso di quei nomi da parte della comunità scientifica, eventualmente seguiti da un’annotazione che chiarisca il riferimento durante un periodo di transizione («clade 1, precedentemente noto come clade del bacino del Congo», per esempio). E anche l’OMS ha cominciato a utilizzare occasionalmente questi termini, ha detto Lewis.
Un altro aspetto problematico della questione dei nomi è che nella comunità dei virologi del vaiolo non è universalmente condivisa, al momento, l’idea che sia necessario compiere ulteriori differenziazioni all’interno dei raggruppamenti noti del vaiolo delle scimmie, ha concluso Branswell.
Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) – il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, i cui laboratori sono peraltro uno dei riferimenti dell’OMS per i virus della famiglia Poxviridae – i virus delle epidemie attualmente diffuse nei paesi del mondo diversi dall’Africa «non si sono evoluti al punto da meritare di essere classificati come un terzo clade, o un virus diverso». E riscrivere i criteri di distinzione, ha detto il presidente della sottocommissione dell’ICTV McInnes, «introdurrebbe molti più problemi di quanti ne risolverebbe».