A Beirut si discute di cosa fare dei resti dell’esplosione al porto
A due anni dall'enorme esplosione, le famiglie delle vittime lottano per preservare i grossi silos di cereali semidistrutti, simbolo del disastro
Il 4 agosto del 2020, due anni fa, l’enorme esplosione al porto di Beirut provocò 218 morti e più di 7mila feriti, causando danni a moltissimi edifici della capitale libanese. L’edificio simbolo del disastro è il grosso deposito di cereali che ancora oggi, sebbene gravemente danneggiato e parzialmente crollato, domina l’area. In questi mesi le famiglie delle persone morte a causa dell’esplosione e quelle sopravvissute stanno lottando per preservare i resti dei silos, sia per mantenere la memoria storica del disastro, sia per protestare contro la volontà del governo, a loro dire, di cancellarla.
L’esplosione del 2020 avvenne a causa di un incendio in un deposito del porto in cui erano stipate quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio, arrivate a Beirut nel 2013 a bordo di una nave mercantile di proprietà russa. A oggi le indagini sull’esplosione sono di fatto ferme, anche per volontà della politica locale, e nessuna persona è stata ritenuta responsabile del fatto che una tale quantità di esplosivo – un composto chimico usato principalmente come fertilizzante – fosse da anni custodita nel centro della città.
I silos di cereali del porto di Beirut si trovano a meno di 100 metri dal punto dove avvenne l’esplosione, sono alti 48 metri e furono completati nel 1970. Come ha raccontato un approfondito articolo di Time, prima dell’esplosione conservavano circa l’85 per cento delle scorte di cereali del Libano, garantendo la sicurezza alimentare nel paese. Oggi sono diventati un simbolo dell’evento, ma anche di quelli che secondo vari analisti e critici sono i tentativi delle autorità libanesi di ostacolare le indagini.
Lo scorso aprile il governo libanese aveva deciso di demolire i silos con l’idea di spostare l’impianto altrove. Poi però non se n’era fatto niente a causa delle proteste dei familiari delle persone coinvolte nell’esplosione, secondo cui sarebbe importante tutelare il deposito sia come un monumento del disastro, sia perché potrebbe contenere elementi utili per le indagini.
Le proteste delle famiglie si sono intensificate a partire dal 4 luglio, quando nella parte settentrionale del deposito si era sviluppato un incendio che a fine mese ne ha provocato il crollo parziale.
Vari gruppi di cittadini ritengono che le autorità libanesi avrebbero potuto contenere l’incendio, se lo avessero voluto. Alcuni di loro hanno avviato una campagna chiamata “il testimone silenzioso”, sostenendo che il governo non abbia fatto abbastanza per impegnarsi a spegnerlo e che, ancora prima, la decisione di demolire i silos avrebbe favorito l’impunità per le autorità responsabili.
Le indagini sull’esplosione al porto di Beirut, una delle più grosse e disastrose della storia recente, sono state ostacolate e bloccate ripetutamente dalle autorità del paese.
Come ha evidenziato un’indagine indipendente della ong Human Rights Watch dell’agosto del 2021, in base alla legge libanese vari funzionari del governo erano stati «come minimo negligenti a livello penale» rispetto alla gestione delle scorte di nitrato di ammonio, che si ritiene avessero causato l’esplosione.
Time ha osservato che la cultura dell’impunità è un problema per il Libano fin dal periodo della violenta guerra civile, che si svolse tra il 1975 e il 1990, provocò almeno 120mila morti e migliaia di dispersi e portò circa un milione di persone – più di un terzo della popolazione di allora – a lasciare il paese. Con la ricostruzione del paese avviata dal primo ministro Rafik Hariri (1992-1998), numerosi edifici storici e luoghi simbolo del conflitto furono però demoliti e cancellati, con un atteggiamento che secondo molti storici e critici sembrò orientato a cancellare la memoria del passato e a evitare eventuali responsabilità.
Secondo Soha Mneimneh, ricercatrice in uno studio di urbanistica di Beirut, adesso, con il silo, le autorità libanesi stanno «cercando di ripetere le stesse politiche di amnesia che applicarono dopo la guerra civile». «Non vogliono che le persone ricordino nulla che abbia a che fare con i crimini che hanno commesso», ha aggiunto Mneimneh, sottolineando che il governo non aveva chiesto il parere della cittadinanza né quello dei familiari delle persone morte per stabilire cosa fare dei silos. L’incendio di inizio luglio e il successivo crollo parziale hanno contribuito ad aumentare il risentimento delle famiglie verso la politica locale, osserva Time.
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Secondo Mneimneh la parte nord dei silos – benché malmessa – avrebbe potuto essere consolidata e preservata, come avevano sostenuto alcuni degli studi commissionati dal governo libanese dopo l’esplosione. Una di queste ricerche, realizzata a marzo dalla società svizzera Ammann Engineering, aveva inoltre concluso che la parte sud era stabile e che la sua demolizione non era prioritaria rispetto a quella di altri edifici dell’area. Per queste ragioni Mneimneh ha detto di ritenere che la decisione di demolire tutto l’edificio fosse una scelta puramente politica.
Anche Ghida Frangieh, avvocata e ricercatrice della ong Legal Agenda, ha detto di sostenere che la preservazione dei silos sarebbe significativa per i familiari delle persone morte a causa dell’esplosione e per i sopravvissuti. Secondo Frangieh, che è coinvolta in una delle tre cause avviate da vari gruppi di cittadini contro l’amministrazione locale per la proposta di demolire il sito, la sua tutela sarebbe importante per il riconoscimento del disastro: non preservarlo priverebbe le persone che hanno perso familiari o che sono sopravvissute del loro «diritto a essere trattate con dignità», ha chiarito Frangieh.
Le famiglie delle persone morte stanno anche cercando di far includere i silos nell’elenco dei beni patrimonio dell’Umanità UNESCO, con l’obiettivo di tutelare il loro valore storico, in qualità di simbolo della memoria comune. Lo scorso marzo il ministro della Cultura Mohammad Wissam el Mortada avesse deciso di inserirli nella lista degli edifici storici della città; successivamente però el Mortada aveva ritirato la propria raccomandazione citando la mancanza di fondi per la loro salvaguardia, dicendo che il governo si sarebbe impegnato a creare un parco pubblico con un museo e un memoriale in un’altra area del porto.