Cosa ci faceva il capo di al Qaida nel centro di Kabul?
Ayman al Zawahiri, ucciso dagli Stati Uniti, era nella capitale afghana da mesi, probabilmente sotto la protezione dei talebani
L’uccisione di Ayman al Zawahiri, leader dell’organizzazione terroristica al Qaida, in un quartiere residenziale di Kabul, è un successo dell’amministrazione americana di Joe Biden, ma pone alcuni dubbi e questioni su perché una delle persone più ricercate del mondo si trovasse nel centro della capitale dell’Afghanistan, senza nascondersi in luoghi impervi e isolati come era successo ad altri leader di gruppi terroristici.
Al Zawahiri era ricercato da oltre vent’anni, e la sua presenza a Kabul è stata accolta con stupore e preoccupazione dagli esperti di terrorismo internazionale, anche se al momento non è chiaro se avesse motivi o intenzioni particolari per risiedere nella capitale dell’Afghanistan. Una cosa importante da capire sarà però che tipo di contatti avesse il leader di al Qaida con il regime dei talebani che governa il paese, e se godesse o meno della loro protezione, com’è probabile.
La sua presenza sembra inoltre indicare il mancato rispetto da parte dei talebani degli accordi di Doha, che avevano portato al ritiro delle truppe statunitensi nell’agosto 2021. L’accordo, firmato nel febbraio 2020 dall’amministrazione del presidente Trump dopo aver raggiunto un accordo di massima un anno prima, prevedeva il ritiro completo delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, in cambio tra le altre cose dell’impegno a non ospitare e proteggere sul territorio afghano gruppi terroristici che potessero pianificare e compiere attentati contro gli Stati Uniti: l’impegno però si basava praticamente solo sulla fiducia che gli Stati Uniti riponevano nei talebani, e poco altro.
Secondo informazioni comunicate dall’amministrazione americana ma confermate dal portavoce del regime talebano Zabihullah Mujahid, il leader di al Qaida è stato ucciso in un’abitazione a Kabul, nel quartiere Sherpur, zona che durante gli anni dell’occupazione americana ospitava persone ricche e delegazioni diplomatiche, e dove oggi vivono molti leader talebani. I media statunitensi definiscono l’abitazione una «safehouse», cioè un alloggio sicuro, che potrebbe per esempio essere assegnata a una persona che il governo vuole proteggere.
L’intelligence americana ha riferito che al Zawahiri, ricercato da oltre vent’anni e che si credeva nascosto in Pakistan, si era trasferito a Kabul già dal mese di maggio, per riunirsi con la famiglia (la moglie, la figlia e i nipoti). Qui sarebbe stato localizzato anche perché, secondo quanto affermato da un funzionario dell’amministrazione a Politico, «si muoveva con tranquillità e aveva l’abitudine di affacciarsi sul balcone».
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Al momento non ci sono conferme del fatto che i talebani fossero a conoscenza della presenza a Kabul di al Zawahiri, ma gli Stati Uniti ritengono che il leader di al Qaida godesse perlomeno dell’appoggio della Rete Haqqani, gruppo armato afghano alleato dei talebani e considerato il principale collegamento tra loro e al Qaida. Alcuni elementi della Rete Haqqani avrebbero proceduto a bloccare l’accesso alla casa colpita e a trovare una nuova abitazione “sicura” per i membri della famiglia di al Zawahiri, volontariamente non colpiti nell’attacco mirato americano.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha accusato i talebani, che non sono stati avvertiti preventivamente del raid, di «ospitare e proteggere» il leader di al Qaida e di aver così violato gli accordi di Doha: «Di fronte all’incapacità all’indisponibilità a mantenere gli impegni presi continueremo a sostenere il popolo afghano». Il governo talebano attraverso un comunicato ufficiale ha invece definito l’operazione americana una «chiara violazione degli accordi e una ripetizione di esperienze fallimentari degli ultimi venti anni».
Secondo molti commentatori ed esperti, al di là del successo dell’operazione la presenza di al Zawahiri a Kabul è un segnale allarmante per la lotta al terrorismo, e alcuni la definiscono anche una ulteriore prova degli errori commessi dagli Stati Uniti nel ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Un anno fa il presidente Biden aveva dichiarato che la presenza di al Qaida in Afghanistan era una questione «chiusa», mentre il segretario di Stato Antony Blinken aveva minimizzato la pericolosità del gruppo. In realtà, pare che la minaccia sia ancora piuttosto concreta. Una relazione delle Nazioni Unite di fine luglio mostrava come la presenza non solo di al Qaida ma anche dello Stato Islamico sia aumentata in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani.
E anche l’uccisione di al Zawahiri sembra dimostrare che i talebani «non si separeranno mai da al Qaida», come ha detto un funzionario dell’intelligence americana al Wall Street Journal. Lawrence Wright, un giornalista e autore esperto di terrorismo, ha scritto sul New Yorker che con il ritorno dei talebani al potere al Qaida «ha recuperato il suo territorio d’addestramento» nell’Afghanistan.
L’amministrazione Biden ha invece sostenuto che l’operazione sia la conferma che si possono ottenere risultati nella lotta al terrorismo anche senza una presenza fisica in Afghanistan. Nell’annunciare la conclusione dell’operazione il presidente americano ha assicurato che l’Afghanistan «non diventerà di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi».