L’assurda storia di un’azienda in cassa integrazione per oltre 20 anni
La Liquichimica aprì in Calabria nel 1974 ma chiuse pochi mesi dopo per un progetto industriale sballato: rimasero però i dipendenti
Alla fine degli anni Novanta finì una delle casse integrazioni più lunghe della storia italiana: era iniziata a metà degli anni Settanta per 750 dipendenti della Liquichimica Biosintesi, un grande polo industriale in provincia di Reggio Calabria, chiusa pochi mesi dopo l’apertura. Molti dei dipendenti andarono in pensione senza aver mai lavorato nell’azienda in cui erano stati assunti più di due decenni prima e si stima che lo Stato spese circa 2mila miliardi di lire, poco più di un miliardo di euro, per garantire il sostegno economico ai lavoratori.
È una lunga e assurda vicenda di sprechi, errori e criminalità organizzata, ma è soprattutto una vicenda di opportunità mancate per una regione che ancora oggi non ha una politica industriale e che fatica a trattenere i giovani, costretti a emigrare in altre regioni o all’estero per trovare lavoro. La storia della Liquichimica, tuttavia, non è ancora finita: l’università Mediterranea di Reggio Calabria ha pronto un progetto per recuperare l’intero polo industriale, in un certo senso un modo per rimediare agli errori del passato.
Se si percorre in auto la strada statale 106 Jonica, nel territorio del comune di Montebello Jonico è impossibile non vedere la ciminiera della Liquichimica, per alcuni anni la più alta d’Europa con i suoi 174 metri. Dalla strada, oltre la recinzione, si notano anche molti capannoni e grandi serbatoi abbandonati. Tutta l’area industriale sulla costa si estende per 700mila metri quadrati e si trova nella frazione di Saline Joniche, che ha dato il nome al polo industriale di cui fanno parte altri due luoghi abbandonati: le OGR, le Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato, e il porto di Saline Joniche costruito per far approdare le navi a servizio della Liquichimica, oggi inutilizzato, ostruito dalla sabbia.
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La costruzione del polo industriale iniziò nei primi anni Settanta, grazie ai soldi del cosiddetto “pacchetto Colombo”, dal nome dell’allora presidente del Consiglio Emilio Colombo. Nel 1971 il governo stanziò 1.300 miliardi di lire per sostenere una serie di investimenti industriali che avrebbero dovuto creare migliaia di posti di lavoro tra Calabria e Sicilia. Il pacchetto Colombo fu concesso anche per calmare le proteste dei cosiddetti moti di Reggio, una serie di violente proteste seguite alla decisione di individuare Catanzaro, e non Reggio Calabria, come capoluogo della regione. Per otto mesi ci furono rivolte, attentati e scontri con la polizia, con sei morti e decine di feriti.
L’area dove venne costruita la Liquichimica era occupata da una salina in disuso, poi bonificata, ma anche da aranceti e piantagioni di bergamotto. I lavori furono aggiudicati all’impresa edile Costanzo di Catania, che a sua volta subappaltò a Natale Iamonte, all’epoca a capo della cosca della ’ndrangheta della zona. Iamonte controllava l’organizzazione mafiosa del comune di Montebello Jonico e di Melito Porto Salvo e aveva il totale controllo delle attività illegali della zona.
Di questa collusione parlò, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ’ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche. Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra».
Uno dei più grandi errori di valutazione riguardò l’utilità della fabbrica stessa. Era stata progettata per produrre bioproteine, cioè proteine prodotte da sostanze derivate dal petrolio che in teoria sarebbero servite come mangime per gli animali. Il brevetto delle bioproteine era russo e la Liquichimica era stata pensata sul modello di un impianto simile costruito a Gorky, città oggi conosciuta come Nižnij Novgorod, poco più di 400 chilometri a est di Mosca. Secondo le intenzioni degli esperti che all’epoca studiavano questo mercato, con le bioproteine si sarebbe sostituito il normale ciclo terra-foraggio-carne con quello chiamato petrolio-bioproteine-carne.
Le previsioni si rivelarono completamente sballate: la produzione delle bioproteine, infatti, non iniziò mai. La fabbrica aprì nel 1974 e si limitò alla produzione di acido citrico. Ci fu qualche esperimento legato alle bioproteine fino a quando, poco dopo l’apertura, l’Istituto superiore di sanità decise di vietarle in quanto avrebbero potuto avere effetti cancerogeni.
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La Liquichimica non chiuse del tutto: si continuò a fare manutenzione dei costosi impianti, mai entrati in funzione, nella speranza che qualche gruppo o imprenditore li rilevasse per convertirli ad altre produzioni. I circa 750 dipendenti andarono in cassa integrazione straordinaria con regole molto più lasche rispetto a quelle in vigore oggi: fino all’inizio degli anni Novanta, infatti, la pubblica amministrazione poteva prorogare la cassa integrazione molte volte, un meccanismo che nel tempo ha contribuito a favorire molti abusi.
Negli anni Ottanta la Liquichimica fallì e venne acquisita da Enichem, divisione chimica dell’ENI, la più grande azienda energetica italiana. Con il passare degli anni gli impianti divennero obsoleti e ci si rese conto che la manutenzione sarebbe stata insufficiente anche per via dello scarso interesse del governo e delle istituzioni locali che non progettarono mai una riconversione.
Nel frattempo la criminalità organizzata continuava a sfruttare le infrastrutture a servizio dell’azienda, in particolare il porto di Saline Joniche che divenne un punto di approdo di traffici di droga. La merce arrivava nel porto per rifornire diverse organizzazioni criminali grazie al controllo di Natale Iamonte.
Nel 1997, poco dopo la conclusione della lunga cassa integrazione per i dipendenti della Liquichimica, subentrò il consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato), formato da imprenditori locali che comprarono l’area e gli impianti con l’idea di smantellarli e ricavare un guadagno dallo smaltimento di acciaio e ferro oltre a rivendere i terreni una volta puliti. Anche in questo caso non se ne fece nulla.
L’ultimo passaggio di proprietà risale al 2006, quando l’azienda svizzera Sei spa, controllata da Repower, una grande società energetica, acquistò l’area per convertire la Liquichimica in una centrale a carbone. Nonostante il decreto di valutazione di impatto ambientale, firmato nel 2011 dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti, il progetto della centrale a carbone non andò a buon fine. Diverse manifestazioni organizzate da comitati ambientalisti locali, tra cui Greenpeace, convinsero la Regione a dare parere negativo alla centrale.
Di fatto l’area è abbandonata dalla fine degli anni Ottanta: all’interno della Liquichimica ci sono ancora i vecchi impianti, man mano rimossi da persone in cerca di ferraglia da rivendere; il grande capannone delle Officine Grandi Riparazioni è vuoto e l’ingresso del porto di Saline Joniche è ostruito a causa dell’azione delle correnti del mare che trasportano sabbia dalla costa ionica.
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Prima ancora che si iniziasse a parlare dei fondi del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, l’università Mediterranea di Reggio Calabria iniziò a lavorare a un progetto di rilancio di tutta l’area. Nacque così Agapì, un distretto dell’innovazione per favorire la cooperazione tra l’università, enti di ricerca, aziende nazionali e internazionali, imprese del territorio.
L’idea è di partire dai grandi spazi delle Officine Grandi Riparazioni per costruire un nuovo campus in cui troverebbero spazio nuove aule e laboratori dell’università e un’azienda agraria didattico-sperimentale. Nei piani dell’università, la rinascita dell’OGR avrebbe consentito di attirare capitali per la riqualificazione della Liquichimica, probabilmente con un’impostazione più commerciale rispetto al campus universitario.
L’università Mediterranea ha lavorato a un corposo progetto, oggi nella fase definitiva. Un primo tentativo di trovare i finanziamenti è stato fatto nel 2019 con Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, che aveva messo a disposizione soldi per il rilancio di zone industriali nelle regioni del Sud. Lo scorso anno, a causa della pandemia e del cambio di governo, il piano di Invitalia non è stato confermato.
Il progetto però non è fermo: l’università ha trovato un accordo con Ferrovie dello Stato per la cessione dei 37mila metri quadrati dell’area e sono stati coinvolti 42 partner istituzionali e aziendali come l’agenzia spaziale italiana, le università di Bologna, Napoli e Roma, TIM, il consorzio Edison. «Abbiamo partecipato a un bando del PNRR, ma purtroppo abbiamo raggiunto una posizione in graduatoria non sufficiente per ottenere il finanziamento richiesto, da 90 milioni di euro», dice Saverio Orlando, ingegnere responsabile del progetto dell’università Mediterranea.
Secondo Orlando, il distretto darà grande slancio al territorio e per questo le istituzioni si impegneranno per trovare soluzioni alternative al mancato finanziamento del PNRR. Le stime dicono che la riqualificazione potrà garantire 400 posti di lavoro tra ingegneri informatici e tecnici di alto livello oltre a spazi per 300 startup. «Sono almeno 700 posti di alto profilo che potrebbero dare una possibilità a un’area da dove ogni anno emigrano 5.000 laureati», dice Orlando. «Quando si parla della Calabria come di una regione dal basso livello culturale non si tiene conto di questi fenomeni e soprattutto si fa poco per trovare un rimedio concreto».