Quanto costa fare un sondaggio politico?

Dipende dalle tecniche che si usano: intervistare le persone dal vivo o per telefono è più dispendioso rispetto ai moduli online, e può dare anche risultati diversi

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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Il Corriere della Sera martedì ha pubblicato un’intervista alla leader di +Europa, Emma Bonino. A un certo punto l’intervistatrice, Alessandra Arachi, chiede se in vista di un’eventuale alleanza col Partito Democratico Bonino abbia consultato dei sondaggi. Bonino risponde di no, «perché io, noi di +Europa non abbiamo un euro per commissionare sondaggi».

In Italia i sondaggi politici che circolano sui giornali e in tv vengono commissionati dai partiti o dagli editori. Vengono maneggiati e commentati quotidianamente, con valutazioni e analisi anche sulla variazione di decimi di percentuale, ma tendenzialmente si sa poco su come vengano realizzati e su quanto costa commissionarne uno. In estrema sintesi: qualche migliaia di euro, un costo più basso rispetto anche al recente passato.

In Italia la realtà degli istituti di rilevazione che fanno sondaggi politici è varia e frammentata. C’è un solo grande istituto internazionale, il francese Ipsos, e molti medi e piccoli, come l’Istituto Piepoli, Demos, SWG, il Consorzio Opinio Italia, Euromedia di Alessandra Ghisleri, Quorum di YouTrend, tra gli altri. Molte di queste realtà lavorano con giornali e televisioni, che investono denaro per avere in esclusiva le tendenze di voto nazionali prima di un’elezione o durante tutto l’anno: è il caso per esempio del TgLa7, che pubblica ogni settimana le tendenze di voto sui singoli partiti raccolte da SWG. Ma gli istituti lavorano con una gran varietà di clienti, tra cui gli stessi partiti politici, che hanno comprensibilmente grande interesse a cercare di capire cosa pensano di loro gli elettori e le elettrici in un dato momento.

Gli istituti fanno le proprie rilevazioni contattando le persone in vari modi. Fino agli anni Ottanta erano assai praticati i sondaggi tramite interviste dal vivo fissate con un appuntamento, mentre oggi si fanno più raramente, perché sono molto dispendiosi e lunghi da realizzare: secondo Paolo Natale, che insegna Metodi e tecniche della ricerca sociale alla Statale di Milano, un sondaggio con questa tecnica comporta un costo di circa 20-25 euro per intervista. Dato che per un sondaggio affidabile vanno contattate migliaia di persone, i costi per una rilevazione del genere sarebbero molto elevati e quasi proibitivi per la maggior parte dei clienti degli istituti.

Con la diffusione capillare della rete telefonica e dei primi computer venne introdotto un altro metodo, chiamato CATI, che prevede interviste telefoniche a numeri fissi, il cui risultato viene poi inserito in un software dall’operatore. Anche questo metodo però ha perso rilevanza, principalmente perché sempre meno persone hanno la rete fissa a casa, mentre più o meno tutti hanno un cellulare.

Perciò oggi, spiega Natale, le interviste telefoniche vengono fatte in parte su numeri fissi e in parte su numeri cellulari (CAMI), anche se tra le due modalità c’è una discreta differenza. Un conto è parlare con una persona che è in casa e che accetta di rispondere con calma a una serie di domande, un altro è parlare con una persona mentre è fuori casa e magari è presa in altre faccende. Questo è anche uno dei motivi per cui, quando gli operatori hanno l’obiettivo standard di raccogliere l’opinione di circa mille persone, devono fare un numero di tentativi assai più alto, a volte cinque o dieci volte maggiore.

Il costo di un sondaggio CATI o CAMI per un istituto si aggira intorno ai 5-6 euro per intervista, a volte anche meno, dice Natale. Naturalmente il prezzo finale al cliente comprenderà anche un’altra serie di costi per mantenere l’istituto: quindi se per esempio viene commissionato un sondaggio che prevede mille telefonate, il prezzo finale non sarà di 5-6mila euro ma di circa il doppio, per garantire un margine di guadagno all’istituto.

Infine da una decina d’anni sono stati introdotti i sondaggi online (CAWI) che prevedono l’invio di un modulo di domande da compilare e rispedire. Natale spiega che questa tecnica ha cambiato notevolmente il mondo delle rilevazioni statistiche abbattendo i costi, che in questo caso arrivano a malapena a 1.000-2.000 euro per sondaggio. Le spese di fatto sono costituite semplicemente dalla costruzione del modulo delle domande, oltre al reperimento degli indirizzi a cui mandarlo.

«Molti istituti di ricerca formano un panel di persone disposte a collaborare, in genere circa 100mila» dice Natale. «Da questo panel poi si estrae ogni volta un campione di 2.000-3.000 persone, aspettandosi indietro circa mille interviste». Per raccogliere il gruppo da cui estrarre il campione, solitamente, gli istituti si appoggiano ad aziende terze che lavorano nel settore della raccolta dati.

Spesso comunque i sondaggi con interviste telefoniche o dal vivo danno risultati diversi da quelli online, per un motivo molto semplice: parlare a voce con un interlocutore che conosce il tuo nome crea delle inibizioni che online e in condizione di anonimato non si verificano. Natale spiega che al telefono si attiva un fenomeno chiamato «desiderabilità sociale» per il quale tutti noi tendiamo a smorzare le nostre opinioni, soprattutto nel caso in cui siano troppo nette o considerate sanzionabili. Natale fa l’esempio di qualcuno intenzionato a votare il partito neofascista CasaPound: è più probabile che questa persona esprima la sua opinione attraverso un modulo online anonimo piuttosto che al telefono con qualcuno che ascolta dall’altra parte.

Ci sono poi due aspetti da tenere a mente nel valutare i sondaggi in generale e quelli commissionati dai partiti in particolare. Il primo è che nel caso delle tendenze di voto nazionali gli spostamenti di decimi tra una settimana e l’altra hanno poca o nulla rilevanza statistica, perché in sondaggi come questi il margine di errore è dieci o venti volte superiore – quindi magari del 3 o 4 per cento – rispetto allo spostamento. Le tendenze di voto sono più utili per tracciare i cambiamenti sul lungo periodo, a fronte di spostamenti più consistenti di qualche decimo.

La seconda è che i partiti politici commissionano sondaggi agli istituti sia per un uso interno, ma in quel caso difficilmente vengono diffusi, sia con lo scopo esplicito di essere resi pubblici: magari per mettere in buona luce il partito stesso, segnalando una crescita dei consensi.

È un po’ quello che fece Silvio Berlusconi all’epoca della sua ormai celebre “discesa in campo” con cui entrò in politica nel gennaio del 1994. Nei mesi e nelle settimane precedenti, quando era ancora conosciuto soltanto per essere un imprenditore di successo, Berlusconi spese milioni di lire in sondaggi per capire il posizionamento che avrebbe dovuto avere il suo partito. Poi, nelle settimane successive, fece diffondere i risultati di alcuni sondaggi che davano conto di un sistematico aumento di consensi per Forza Italia, il partito che aveva appena fondato, tentando di innescare il cosiddetto effetto “bandwagon”, secondo cui è più probabile che una persona dia il proprio voto a una forza politica percepita come in ascesa.

I sondaggi politici vengono raccolti in un sito del governo gestito dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria, ma non tutti, solo quelli «che abbiano valenza politica ed elettorale e che siano stati pubblicati o diffusi al pubblico»: ce ne sono molti diffusi da vari media e istituti di ricerca e ben pochi da partiti politici, che verosimilmente preferiscono non divulgare la gran parte di quelli che commissionano.

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