I premi letterari britannici sono in crisi
Alcuni non hanno più finanziatori e hanno chiuso: è un problema sia per gli scrittori sia per i lettori
In Italia di premi letterari davvero rilevanti, cioè capaci di avere un impatto significativo sulla vita degli scrittori che li vincono, ce ne sono due: il premio Strega e il premio Campiello, i cui vincitori ricevono rispettivamente 5mila e 10mila euro. Non sono grosse somme ma entrambi i premi sono in grado di influenzare le vendite di libri.
Invece nel mercato editoriale di lingua inglese, molto più ampio e influente anche per l’editoria italiana, i riconoscimenti letterari hanno sempre avuto più importanza: sono più numerosi e assegnano spesso premi in denaro molto più generosi, ragione per cui permettono a più persone di vivere di scrittura, cioè di ricavare la maggior parte dei propri introiti dalla scrittura di libri e da attività a essa collegate. O almeno finora è stato così. Nel Regno Unito però le cose stanno cambiando, racconta un articolo del New Statesman: sempre più premi letterari fanno fatica a trovare sponsor e chiudono o cancellano l’edizione ventura.
È il caso del Desmond Elliott Prize, un premio voluto dall’editore Desmond Elliott (1930-2003) che assegna 10mila sterline (quasi 12mila euro) a un autore esordiente: l’anno prossimo non ci sarà perché gli organizzatori non sono riusciti a trovare qualcuno che lo finanziasse. Ma ci sono state anche chiusure definitive: a giugno è stata annunciata quella dei Blue Peter Book Awards, che per 22 anni avevano assegnato riconoscimenti nel campo dell’editoria per ragazzi; lo stesso mese, senza grande preavviso, sono stati cancellati i Costa Book Awards, che per 50 anni avevano premiato romanzi, libri di poesie, biografie e libri per ragazzi, perché la catena di caffetterie Costa ha deciso di non finanziarli più.
Sembra che le società che finora hanno scelto di sponsorizzare queste iniziative culturali abbiano perso interesse a essere associate con il mondo letterario, suggerisce il New Statesman.
In altri casi preferiscono sostenere premi più prestigiosi: Audible, la piattaforma di audiolibri di proprietà di Amazon, non finanzierà più il Sunday Times Short Story Award perché ha scelto di sostenere il più noto Women’s Prize for Fiction, riservato alle sole scrittrici. Il Sunday Times Short Story Award è il premio più generoso riservato ai racconti, assegna 30mila sterline (più di 35mila euro) a chi lo vince, e potrebbe essere chiuso se non sarà trovato un altro sponsor.
Nella storia dei premi letterari britannici gli sponsor sono cambiati più volte, a testimonianza di un diffuso interesse a sostenere la produzione di opere letterarie tra le aziende. Fino al 2006 i Costa Book Awards si chiamavano Whitbread Book Awards perché erano finanziati dal birrificio Whitbread. Il premio per la saggistica Baillie Gifford, che oggi prende il nome da una società di investimenti, si chiamava premio Samuel Johnson fino al 2015: in passato era finanziato da benefattori anonimi.
Il caso più famoso è però probabilmente quello del Booker Prize, il principale premio letterario del Regno Unito, tenuto in considerazione anche dagli editori italiani quando scelgono quali libri stranieri pubblicare. Il nome “Booker”, nonostante la somiglianza con la parola inglese per libro, è dovuto a quello dell’azienda che per prima, dal 1969, sponsorizzò il premio, una società di distribuzione alimentare. Dal 2002 al 2019 il riconoscimento si chiamò invece Man Booker Prize perché in quel periodo fu finanziato dalla società di investimenti Man Group; oggi dietro al premio c’è Crankstart, una fondazione benefica creata da un imprenditore della Silicon Valley.
– Leggi anche: Storie e regole di un grande premio letterario, il Booker Prize
Vista dall’Italia la situazione dei premi britannici può apparire comunque molto favorevole all’editoria e agli scrittori, dato che gli unici sponsor che attualmente finanziano dei premi sono due, l’azienda del liquore Strega per il premio omonimo, e Confindustria Veneto per il Campiello, e lo fanno in modo relativamente limitato, almeno per quanto riguarda i premi in denaro agli scrittori. Nel Regno Unito peraltro l’esistenza di numerosi premi si accompagna a un mercato editoriale più ricco e florido: mentre in Italia, dopo un anno di grandi vendite legate alla pandemia, c’è stato un calo nel 2022, nella prima metà dell’anno nel Regno Unito è stato registrato il più alto numero di vendite di sempre e gli editori più grandi hanno annunciato un aumento dei ricavi.
Nel mondo editoriale britannico si è però sempre fatto molto affidamento sui premi, che quindi hanno comunque una grande importanza.
Keiran Goddard, poeta e romanziere che è stato semifinalista dell’ultimo Desmond Elliott Prize e finalista del Melita Hume Prize, ha detto al New Statesman che i premi possono essere «un salvavita» per chi scrive dato che gli anticipi – i soldi che una casa editrice paga a un autore per pubblicarne il libro, chiamati così perché sono concordati prima della pubblicazione e poi, a seconda delle condizioni contrattuali, possono essere integrati da royalties – vengono divisi in più quote, che spesso sono troppo basse per essere considerate un vero stipendio.
La visibilità che i premi possono dare a un libro fa sempre parte dell’equazione. «Potenzialmente possono catapultare un libro da una relativa oscurità e dargli una possibilità di competere ad armi quasi pari con quelli su cui si è investito con una grande campagna di marketing», ha spiegato Goddard. Da questo punto di vista sono importanti soprattutto per gli scrittori emergenti o per qualche ragione poco visibili. Julia Armfield, vincitrice del White Review Short Story Prize del 2018 e semifinalista del Polari Prize e dell’Edge Hill Prize con la raccolta di racconti Mantide, ha detto: «Bisogna sottolineare che i premi sono sempre più progettati per dare attenzione ai piccoli editori, ad autori di diversa origine e a temi poco rappresentati, tutte cose che hanno bisogno di più aria e sostegno nell’industria editoriale». Per Armfield meno premi ci sono, meno spazio c’è per le voci poco conosciute.
Sia per Armfield che per Goddard un’eccessiva dipendenza dai premi letterari è problematica perché la competitività che genera non fa parte di ciò che è importante per fare dei buoni libri, ma i premi si possono considerare una soluzione imperfetta per le disparità di un sistema in cui non tutti i libri ricevono le stesse attenzioni, e una soluzione che attualmente è importante per chi scrive.
Gaby Wood, direttrice del Booker Prize, ha un punto di vista diverso: i premi secondo lei non esistono per gli scrittori, ma per i lettori, perché li aiutano a scegliere cosa leggere. «È diventato sempre più difficile perché gli spazi per le recensioni sono meno: per gli editori trovare dei modi per far arrivare i libri ai lettori è una sfida e i premi sono un mezzo per farlo».
Anche per i lettori comunque un minor numero di premi può essere uno svantaggio, perché ci sono meno occasioni per scoprire nuove letture. «È molto triste che alcuni premi stiano chiudendo, mi rende ansiosa», ha detto Wood: «È molto importante che esista un’ecologia di premi: ognuno riconosce qualcosa di diverso, ognuno ha una diversa giuria. Gran parte del giudizio è soggettiva quindi ovviamente si hanno giudizi diversi da giuria a giuria, per questo penso sia un bene averne tante». Per gli editori, a vederla cinicamente, i premi sono uno strumento per vendere più libri, ma per Wood esiste anche un aspetto idealistico dei premi: sono un modo per «dire perché i libri sono importanti».
In altri paesi, come la Francia e gli Stati Uniti, esistono premi letterari finanziati dallo stato, ma nel Regno Unito no e nemmeno in Italia. C’è però il Premio letterario dell’Unione Europea, finanziato appunto dall’Unione Europea, che esiste dal 2009: da quest’anno funziona con regole diverse e non è chiaro se assegnerà premi in denaro come in passato, quando i vincitori (ce n’erano più di dieci ogni anno) ricevevano ciascuno 5mila euro.