In altri paesi le competizioni di dibattito sono una cosa seria
Hanno una lunga storia e aiutano ad avere società più aperte, democratiche e informate, ma in Italia sono una nicchia
Ai campionati mondiali di dibattito universitario in Sudafrica nel 2003, ai finalisti fu chiesto di discutere sull’ipotesi che «il mondo non avesse imparato nulla dagli attentati dell’11 settembre». Il premio per la miglior performance fu assegnato a Tan Wu Meng, che allora era uno studente di medicina, e sarebbe poi diventato un politico di centrodestra a Singapore con ruoli di governo.
Non è raro che a distinguersi in competizioni simili siano giovani che poi hanno carriere in ambiti in cui è importante il talento nell’eloquio e nelle discussioni pubbliche. In Italia però il dibattito competitivo non è ancora molto diffuso, com’è invece nel mondo anglosassone, dove si può dire che sia nato. L’idea alla base di questa attività è che aiuti i giovani a sviluppare un senso critico nei confronti di vari temi e questioni e a prendere decisioni razionali e ben informate, abituandosi al confronto con posizioni diverse dalle proprie. In ultima sostanza, che contribuisca a dar forma a una società aperta e democratica. Proprio in questi giorni, a Belgrado, in Serbia, si stanno tenendo i campionati mondiali universitari di dibattito e poco dopo, ad agosto, si terranno online quelli per le scuole superiori.
Quando si parla di “competizione di dibattito” si intende di solito un confronto argomentato tra due squadre che sostengono posizioni diverse. Ci sono numerosi formati e modelli di dibattito competitivo, ma quelli con cui si svolgono i campionati mondiali scolastici e universitari sono, rispettivamente, il World Schools Style e il British Parliamentary Style. Variano soprattutto per numero di squadre, di componenti delle squadre e di discorsi previsti: semplificando molto, comunque, per ogni competizione viene proposto un tema, solitamente di attualità – per esempio se il nucleare sia o meno una fonte ambientalmente sostenibile, o se l’Unione Europea debba o meno investire in politiche di difesa comune – e le squadre devono sostenere ognuna una posizione al riguardo, argomentandola. Le posizioni vengono assegnate, non vengono scelte dalla squadra.
I temi – detti “mozioni”, nell’ambito del dibattito – possono essere annunciati settimane prima della competizione, dando quindi alle squadre il tempo di prepararsi, oppure poco prima che inizi. In questo caso si parla di impromptu debate, dibattito improvvisato. Generalmente ogni squadra ha a disposizione un certo numero di discorsi, ognuno della durata di qualche minuto, in cui esporre nel modo migliore e più efficace possibile le proprie posizioni, e confutare le tesi della squadra avversaria in modo altrettanto efficace.
All’interno della squadra ogni membro ha un compito, e la squadra nel complesso deve fare alcune “mosse”, come si dice prendendo in prestito un termine scacchistico, per sostenere una tesi, esporre alcune valide argomentazioni e una serie di fatti e dati a loro sostegno. Il paragone con gli scacchi non è solo formale: anche nei dibattiti parte della strategia consiste nell’immaginare le possibili mosse dell’avversario e il modo in cui l’incontro potrebbe procedere.
Matteo Giangrande, esperto di dibattito e direttore della Società Nazionale Debate Italia, spiega che esistono diverse tecniche per prepararsi a un incontro: «prima di tutto bisogna fare un approfondito lavoro di definizione dei termini di partenza, per capire esattamente cosa è in questione: definire in modo accurato i termini che useremo aiuta a pensare meglio e a farsi le giuste domande rispetto ai temi di cui bisogna discutere», dice Giangrande.
Ci si può per esempio chiedere, a fronte di un determinato problema, quali sono le condizioni che ne hanno causato l’esistenza e come potrebbero essere cambiate: con quali azioni concrete, quindi, si potrebbe risolvere quel problema. Oppure si può cominciare scegliendo il tipo di argomentazione da cui si vuole partire: «i cosiddetti loci argumentorum: può essere il locus del tempo – cioè privilegiare il contesto storico di un certo dato o fatto – o dello spazio, cioè dove una determinata cosa è accaduta o sta accadendo». Sono tutte tecniche che servono a contestualizzare, a mettere le cose in prospettiva, e a rendere la propria argomentazione più forte. È utile anche immaginare il proprio pubblico, capire a chi ci si sta rivolgendo con la propria tesi.
Alla fine della competizione la performance viene valutata da una giuria, che annuncia la squadra vincitrice. Il fine e l’obiettivo di queste competizioni, dice Giangrande, «non è essere in grado di sostenere l’insostenibile o di fare l’avvocato del diavolo», quanto piuttosto imparare a dibattere, ad argomentare le proprie posizioni, e a farlo entrando in relazione con le argomentazioni dell’avversario, che significa prima di tutto capire i punti di vista diversi dal proprio.
Ma le competizioni di dibattito hanno anche altri vantaggi: «sono un lavoro di squadra, aiutano a parlare in pubblico in modo chiaro e lineare, e ovviamente aiutano a informarsi e a saper distinguere un fatto vero da una notizia falsa, nel momento in cui si selezionino le prove a sostegno della propria tesi», dice Giangrande.
Il dibattito è una cosa antichissima, che è stato fin da subito praticato in diverse zone del mondo. Alcuni esperti considerano l’inventore di quel che poi sarebbe stato chiamato dibattito il filosofo greco Protagora di Abdera, nell’Atene del V secolo a.C., anche se si ritiene che sia stato Aristotele a codificarne poi le regole. Nell’antica Grecia esistevano poi i dissoi logoi, i “ragionamenti doppi”, un modo di argomentare che metteva a confronto posizioni favorevoli o contrarie a una data tesi. E anche in paesi come l’India e la Cina nei tempi antichi esistevano forme di dibattito, legate secondo alcune ricostruzioni soprattutto a cerimonie di tipo religioso.
Forme di dibattito si sono poi sviluppate nel corso del Medioevo, dell’Umanesimo e del Rinascimento, incoraggiate in Europa dalla nascita e dalla crescita delle università, in cui le dispute venivano concepite sia come metodo di ricerca e di insegnamento che come esercitazione per gli studenti. Tra il Seicento e il Settecento la disputa ebbe poi un ruolo importante nella formazione dei nobili e della classe dirigente dell’epoca. Il dibattito competitivo moderno per come lo intendiamo oggi, però, è nato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con l’avvento della Rivoluzione industriale e l’affermarsi della borghesia, sviluppandosi soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Negli Stati Uniti, in particolare, cominciarono a essere organizzate competizioni di dibattito nelle università. La loro diffusione fu incoraggiata anche da alcune circostanze molto concrete, come il fatto che i college cominciavano a diventare residenziali, facilitando l’organizzazione di iniziative di questo tipo e la formazione di nuove associazioni studentesche, e successivamente la costruzione delle autostrade, che resero più semplice spostarsi e organizzare competizioni tra diverse università.
C’erano anche fattori politici di cui tener conto. Come ha spiegato lo storico Michael Bartanen le gare di dibattito servivano prima di tutto a diffondere idee, valori e proposte politiche, soprattutto progressiste, formando individui in grado di promuoverle: «uno degli obiettivi delle gare di dibattito, fin dall’inizio e anche prima dell’Ottocento, è stato formare la futura classe dirigente», dice Giangrande.
Le gare di dibattito hanno iniziato a diffondersi globalmente «tra gli anni Settanta e Ottanta», spiega Giangrande, inizialmente solo nei paesi membri del Commonwealth, quelli che avevano fatto parte dell’Impero britannico e avevano mantenuto legami più o meno formali con la monarchia inglese anche dopo aver ottenuto l’indipendenza. Successivamente si diffusero anche altrove: in Italia le gare di dibattito hanno iniziato a essere organizzate soprattutto negli anni Duemila. Oggi sono diffusissime anche in Asia – soprattutto in Cina, ma anche a Singapore e in Corea del Sud – dove sono nate alcune grosse e importanti scuole di dibattito.
Wang Huning, uno degli uomini più vicini al leader cinese Xi Jinping e oggi politologo molto influente in Cina, era a capo di una squadra di dibattito negli anni dell’università, con cui vinse un prestigioso campionato internazionale. Secondo la rivista Palladium fu in quell’occasione che venne notato dalla dirigenza del Partito comunista cinese, di cui oggi è considerato una specie di «eminenza grigia», cioè una figura molto potente e poco visibile.
Huning è sempre stato un attento osservatore della cultura americana, su cui scrisse anche un saggio molto noto. E anche oggi, in Asia, gli stili di dibattito e i modelli di competizione più diffusi sono proprio quelli nati nel mondo anglosassone, dove il dibattito competitivo è ancora una parte integrante della cultura scolastica e universitaria. Lo si vede, tra le altre cose, dalla grande quantità di associazioni dedicate al dibattito: tra le più note ci sono la National Speech and Debate Association, americana, le società di dibattito delle università di Harvard o Yale, o le britanniche Oxford Union e Cambridge Union. Ce ne sono moltissime anche a livello scolastico, dove le competizioni di questo tipo sono frequenti e molto più diffuse di quanto accade in Italia.
Il mondo anglosassone, spiega Giangrande, è anche quello in cui «il dibattito può diventare una carriera, e in cui ci sono molti più fondi per organizzare le gare». Negli Stati Uniti, spiega, c’è un sistema molto forte di donazioni private, e anche di sostegni statali, soprattutto per le scuole: «in Italia il dibattito è ancora un’attività di volontariato, e benché ci siano fondi, anche istituzionali, non sono paragonabili a quelli di alcuni paesi anglosassoni».
I sostenitori del dibattito competitivo ritengono che l’allenamento costante al confronto e all’argomentazione serva a sviluppare un’attitudine critica nei confronti del mondo e a prendere decisioni razionali e informate: «prima ancora di essere uno sport mentale, il dibattito è uno strumento epistemico, un mezzo per prendere decisioni su questioni di interesse pubblico e collettivo essendo sicuri di aver fatto del proprio meglio per valutare fino in fondo tutte le loro implicazioni». E poi, dice, è un modo per abituarsi a «traslare lo scontro da un piano personale a un piano dialettico: nel dibattito io non attacco l’avversario, ma la sua argomentazione, e il dibattito va visto come uno scontro tra idee, non tra persone».
Gli studi esistenti sul dibattito competitivo sembrano confermare i suoi effetti positivi: gli studenti che lo praticano tendono ad avere migliori risultati in ambito accademico, a ragionare in modo più critico sui problemi, a saper comunicare e argomentare meglio le proprie posizioni, ad avere più fiducia in se stessi e ad essere più socievoli e aperti nei confronti di persone con background diversi dai propri.
Il dibattito competitivo, tuttavia, ha attirato anche alcune critiche. Alcune le ha espresse la scrittrice irlandese Sally Rooney – che nel 2013 vinse i campionati europei di dibattito universitario – in un articolo pubblicato qualche anno fa sulla rivista The Dublin Review.
Tra le altre cose, Rooney ha sottolineato come tutte le competizioni di dibattito più importanti avvengano in inglese, creando un’inevitabile disparità tra chi è madrelingua e chi non lo è. E incoraggiando bias cognitivi, cioè pregiudizi e interpretazioni del mondo distorte dalla propria esperienza: nel suo articolo Rooney parla delle molte volte in cui debater di madrelingua inglese, e spesso di estrazioni sociali privilegiate, si trovano a discettare di temi molto distanti dalla loro esperienza di vita, come ad esempio il razzismo o la violenza della polizia. Secondo Rooney, il mondo del debating tende a essere anche piuttosto maschile: «circa due terzi dei partecipanti alle competizioni internazionali di dibattito sono uomini» scriveva Rooney nel 2015.