La prima e più longeva soap opera italiana

6.000 episodi dopo, “Un posto al sole” continua a fare quello che faceva nel 1996, con approcci produttivi e narrativi a loro modo unici

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Venerdì sera alle 20.45 andrà in onda su Rai3 l’episodio numero 6.000 di Un posto al sole, la prima e più longeva soap opera italiana, che racconta le vite di chi abita e frequenta un condominio nel quartiere napoletano di Posillipo e che a oltre un quarto di secolo dal primo episodio ancora continua ad andare forte: giovedì sera, per esempio, ha avuto 1,2 milioni di spettatori, pari all’8 per cento di share.

Nonostante le 26 stagioni andate in onda fin qui, Un posto al sole – che tra le altre cose ha avuto un ruolo fondamentale nel rilanciare gli studi Rai di Napoli – cominciò inizialmente da un’idea considerata bislacca e che fu osteggiata. All’inizio fu anche tendenzialmente mal recensita. Poi però è stata in parte rivalutata, o quantomeno giudicata con nuovi sguardi e criteri, soprattutto in virtù del suo essere un fenomeno culturale a suo modo rilevante, un appuntamento quotidiano per una considerevole fascia di pubblico.

In 26 anni, in quelle che sono in tutto quasi tremila ore di televisione, pari a oltre cento giorni di contenuti, Un posto al sole ha raccontato storie di ogni genere: intrighi, morti, tradimenti, figli segreti e ritorni inattesi. Vicende, insomma, molto da soap opera ma anche storie più legate alla vera quotidianità di molte persone e, in parte, alla contemporaneità. La serie ha inoltre sperimentato a modo suo approcci ed evoluzioni che in genere si associano a più recenti serie internazionali: come gli spin-off o le puntate speciali.

Un posto al sole, che è in tv con un nuovo episodio quasi ogni giorno feriale dell’anno, dovette fermarsi nel 2020 a causa del lockdown, che rese impossibile girare nuovi episodi. Tuttavia, è uno di quei contesti narrativi di finzione in cui, un po’ per scelta degli autori e un po’ in conseguenza di necessità produttive, il Covid non è mai esistito.

Il primo episodio della prima stagione di Un posto al sole andò in onda su Rai3 alle 18.30 di lunedì 21 ottobre 1996. La sera prima la Juventus aveva battuto l’Inter grazie ai gol di Vladimir Jugovic e Zinedine Zidane. Quel giorno i giornali parlavano delle critiche di Silvio Berlusconi al governo di Romano Prodi, alle prese con la legge finanziaria. Di lì a poco Bill Clinton sarebbe stato eletto per un secondo mandato da presidente degli Stati Uniti.

L’idea da cui era nata quella serie era stata di Giovanni Minoli, che nei suoi anni da direttore di Rai3 contribuì al lancio di Elisir, La grande storia e Per un pugno di libri. Per progettare Un posto al sole si partì dal modello della soap australiana Neighbours, sulle storie delle famiglie che abitano lungo la stessa via, e la si adattò a un contesto italiano, scegliendo come perno della storia il fittizio Palazzo Palladini di Posillipo.

Per i giorni di lancio della serie, Minoli scelse di trasmetterne gli episodi due volte al giorno, alle 18.30 e poi in replica alle 20, cosa che comportò la temporanea sospensione di Blob. A proposito della sua scelta di puntare su un contenuto di quel tipo, spiegò: «ora che ci si avvia verso la pay TV, la fiction diventa uno dei prodotti indispensabili di cui le televisioni generaliste devono armarsi».

Il Corriere della Sera parlò di «una trama che può essere via via modificata a seconda delle risposte del pubblico, grazie all’adozione del “modello Grundy” [cioè della serie australiana] che riduce al minimo l’intervallo tra ideazione, ciak e messa in onda».

In più di un’occasione Minoli ha ricordato che non fu facile far accettare la soap opera alla Rai: ha parlato, per esempio, delle fatiche di far «sopravvivere» l’idea per Un posto al sole «a tre consigli di amministrazione» descrivendole come «una lotta», perché in quella «Rai dei Professori» a quel contenuto «non ci credeva nessuno».

In effetti, all’inizio Un posto al sole – in cui ognuna delle oltre 200 puntate della prima stagione ebbe un costo medio di circa 70 milioni (di lire) – ricevette più critiche che altro. Il Manifesto ne contestò le «storie troppo poco contestualizzate e con un grado di credibilità troppo basso per far scattare nel pubblico quel meccanismo di immedesimazione che, con il giusto dosaggio di eventi episodio per episodio, decreta il successo di un serial-drama». Il critico televisivo Aldo Grasso ne parlò male in più di una occasione: «Un posto al sole si sta rivelando un prodotto completamente privo di identità, recitato male, affollato da personaggi quasi inespressivi», scrisse nel 1997.

Invece Un posto al sole (che col tempo molti appassionati hanno iniziato a chiamare “UPAS”, usando solo le prime lettere delle parole come si fa con certe serie americane) ha resistito ed è diventata la soap opera più longeva della televisione italiana.

Soprattutto nei suoi primi anni, però, quando c’era da capire come e quanto cambiare per intercettare i gusti del pubblico, Un posto al sole cercò più volte di riposizionarsi, sia per quanto riguarda la trama che per l’alternanza tra serietà e leggerezza, tra specificità locale e necessità di parlare a un pubblico nazionale, tra piccoli e grandi problemi del quotidiano e improbabili colpi di scena alla Beautiful.

Un posto al sole riuscì a riposizionarsi anche grazie a una efficiente macchina produttiva a cui lavorano centinaia di persone ma che, proprio per il suo funzionare quasi come una catena di montaggio, può spesso cambiare in corsa e provare a rispondere e reagire alle storie della realtà e alle reazioni degli spettatori. In genere, passano giusto pochi mesi tra quando un episodio viene scritto a quando va in onda, e negli anni la produzione ha perfezionato un procedimento di scrittura di storie e dialoghi in blocchi di circa cinque episodi, per poi girare, in genere, un episodio al giorno. Di questa grande macchina parlò qualche anno fa un episodio del Testimone di Pif e, con ottima sintesi, un più recente servizio di Superquark.

Qualche anno fa Francesco Pinto, direttore del Centro Rai di Napoli, definì quella alla base di Upas «una fabbrica a ciclo integrale da dove escono ogni settimana 5 puntate pronte, per un lavoro di 350 giorni all’anno che si ferma giusto a Ferragosto e a Natale». Nel tempo dalla “fabbrica” sono passati, tra gli altri, i registi Gabriele Muccino e Stefano Sollima.

Raccontare la trama di Un posto al sole è parecchio difficile, e probabilmente inutile: in estrema sintesi, comunque, è tutta ambientata dalle parti di Palazzo Palladini e del vicino Caffè Vulcano. La serie inizia con la morte di un conte, proprietario del più lussuoso appartamento del palazzo, e prosegue raccontando le vicende di chi lo frequenta o ci lavora, come nel caso del portiere Raffaele, che è interpretato da Patrizio Rispo, uno dei tanti attori che è nella serie sin dal primo episodio.

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Oltre che nell’efficacia produttiva, il successo di Un posto al sole è poi conseguenza del modo in cui la serie cerca appunto di raccontare “il quotidiano”, e di farlo in modo diverso col passare degli anni e col cambiare dei tempi. Già all’inizio, ha ricordato Minoli, «si ritagliavano pezzi di giornale e sceneggiavamo su tutti gli eventi che avessero una tenuta almeno settimanale».

«Da quando è nata» ha scritto Michele Gravino sul Venerdì di Repubblica, «Un posto al sole ha sempre avuto come cifra un pedinamento quasi ossessivo della realtà». Oltre che citando mode, tendenze o questioni del momento, la serie cerca di tenere il passo anche con il calendario: a Natale va in onda la puntata di Natale, ad agosto fa caldo, e così via. Sempre Gravino ha ricordato che nei primi anni della soap opera il suo «impianto fondamentalmente realistico» e il suo volersi comunque allineare al «DNA di Rai 3» attirarono la definizione di “ulivista” (dall’Ulivo, l’alleanza elettorale di centrosinistra di fine anni Novanta e inizio Duemila), e spinsero lo scrittore Mauro Covacich a osservare «l’intento pedagogico non dissimile da quello con cui Edmondo de Amicis scrisse il libro Cuore».

La lista di “temi sociali” trattati è molto lunga, e su Wikipedia ce n’è una piuttosto completa, in ordine alfabetico, che va da “abbandono di animali” a “web challenge” e comprende affido, bullismo, camorra, obesità e transfobia. Ovviamente, il livello, l’approccio e l’approfondimento con cui sono trattati questo genere di temi variano molto, e spesso sono solo sfumati. In molti casi infatti si cerca di evitare scene, punti di vista o prese di posizione che potrebbero risultare troppo divisivi. Già nel 2015, comunque, Un posto al sole mostrò il bacio gay tra due adolescenti seppur, come scrisse il Corriere della Sera, in una «scena volutamente inquadrata da lontano, nel buio di una sala cinematografica».

Come anticipato, però, sebbene nel 2020 il primo lockdown abbia sospeso per alcuni mesi le riprese (e di conseguenza, visto come è fatta la soap opera, impedito l’uscita di nuovi episodi), in Un posto al sole il coronavirus non è mai arrivato. Una parte del motivo è che si voleva lasciare quella mezz’ora come uno spazio di relativa evasione; un’altra, più tecnica, è che sarebbe comunque stato difficile parlare di Covid con episodi scritti oggi per finire però in televisione a ottobre. «Con i nostri tempi di lavorazione», ha raccontato al Venerdì il capo sceneggiatore Paolo Terracciano, «scriviamo con tre-quattro mesi di anticipo, giriamo un paio di mesi prima della messa in onda; come avremmo potuto prevedere le evoluzioni della malattia, i Dpcm, i vaccini? Una responsabilità troppo grossa per un prodotto di intrattenimento».

Alla fine del 2021 l’ipotesi di spostare gli episodi dall’attuale e storico orario delle 20.45, così da far spazio a un talk show, provocò estese proteste e perfino un’interrogazione parlamentare. Alla fine l’idea fu abbandonata. In questi anni – per i quali si parla di oltre 100mila scene girate e più di 17mila attori provinati – Un posto al sole ha però più volte provato a uscire dal suo blocco orario nel preserale. In occasione della millesima puntata ci fu uno speciale condotto da Pippo Baudo, per quella numero 2.000 ce ne fu una in cui Rispo, nei panni del portiere Raffaele Giordano, faceva un riassunto della serie, un po’ come ora si fa su YouTube con le serie americane.

In altre occasioni ancora la serie ha avuto puntate speciali, addirittura oniriche, con capovolgimento dei ruoli (i poveri che diventano ricchi e viceversa) o con ambientazioni peculiari, per esempio il Settecento. Per qualche anno, dal 2006 al 2009, andò in onda la serie spin-off Un posto al sole d’estate, nel 2015 fu tentato Un posto al sole Show, una sorta di celebrazione della storia delle serie e del suo dietro le quinte (quel che oggi diverse serie fanno in genere nel formato del podcast). Sempre nel 2015 fu fatto il film per la tv Un posto al sole coi fiocchi. Nel 2020, quando la serie non andò in onda a causa della pandemia, ci fu il breve Un po’ sto a casa, su RaiPlay.

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Nel tempo la serie ha ispirato libri di vario genere, compreso Un posto al sole – Filosofia di una soap opera. Nel raccontare la sua profonda e radicata passione per la soap opera – che chi ci lavora preferisce in genere definire daily drama – Luciano Del Sette ha scritto sul Manifesto dell’esistenza di «una lunga analisi di Upas da una prospettiva gramsciana». Intanto, mentre Un posto al sole è ovviamente arrivato sia su Instagram che nei video di TikTok, le anticipazioni sull’episodio numero 6.000 dicono che – spoiler – le vicende saranno raccontate dal punto di vista di un cane.

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