Come si è sbloccato l’ambizioso piano di riforme dei Democratici americani
Dopo un anno di stallo su tasse, sanità e ambiente, il senatore Joe Manchin si è inaspettatamente convinto ad appoggiarlo
Mercoledì sera si è inaspettatamente sbloccata una situazione che era ferma da circa un anno e che riguarda l’approvazione del più importante insieme di misure economiche proposte dal governo statunitense di Joe Biden fin qui. Le riforme prevedono tra le altre cose un aumento delle tasse per le grandi aziende e i cittadini più ricchi che servirà a ridurre il deficit, misure per compensare l’aumento dei costi della sanità e il più grande investimento per contrastare il cambiamento climatico nella storia degli Stati Uniti.
Perché queste riforme venissero approvate in Senato, al Partito Democratico mancava solo un voto, quello del senatore Joe Manchin, del West Virginia, noto per essere uno dei più difficili da convincere quando si tratta di riforme progressiste. Dopo una lunga contrattazione, e quando sembrava che non ci fosse speranza di fargli cambiare idea, mercoledì il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer ha fatto sapere di aver trovato un accordo con Manchin – non senza qualche concessione – e che il pacchetto di riforme avrà finalmente i numeri per passare.
Oltre che per le ambiziose riforme che contiene, l’insieme di leggi proposte del Partito Democratico è particolarmente rilevante per un’altra ragione. Se dovesse passare, e comunque non è ancora certo, sarebbe un notevole risultato per Biden, che potrebbe usarlo in vista delle elezioni di metà mandato che si terranno a novembre.
Fino a una decina di giorni fa sembrava che il pacchetto non sarebbe mai stato approvato dal Senato. Joe Manchin era stato molto categorico e aveva detto di non essere pronto a votare per approvarlo, sicuramente non quest’estate e probabilmente mai. Al Senato i Democratici e Repubblicani controllano 50 seggi a testa: la maggioranza ce l’hanno i Democratici perché in caso di pareggio può votare anche la vicepresidente, cioè Kamala Harris. In realtà per approvare una riforma al Senato servono 60 voti, ma con un iter particolare è possibile che passi anche solo con 51 voti: in ogni caso serve il voto di tutti i senatori del partito, Manchin compreso.
Manchin ha 74 anni, è in carica dal 2010, è considerato il più conservatore fra i senatori Democratici e da anni insiste sul fatto che le principali riforme vadano concordate fra i membri di entrambi i partiti. Questo proposito però è diventato sempre più anacronistico con l’aumento della distanza tra Democratici e Repubblicani che si è vista negli ultimi anni; e se un tempo Manchin era considerato un democratico con idee conservatrici, oggi è rimasto l’unico pezzo grosso del partito a essere contrario a posizioni progressiste ampiamente condivise.
A dicembre, Manchin si era già opposto a un pacchetto di riforme molto più ambizioso, per un valore totale di più di 2mila miliardi di dollari. A questo proposito, il senatore Chris Van Hollen ha commentato la notizia di mercoledì sottolineando che il pacchetto approvato da Manchin «non include tutto quello che avremmo voluto nel primo pacchetto di riforme, ma se paragonato a quello che pensavamo di avere fino a 48 ore fa, questo è anni luce – anni luce – avanti».
Manchin si è convinto dopo una decina di giorni di intensi colloqui, spesso a distanza perché era positivo al coronavirus. Mentre gran parte dei senatori democratici lo criticava apertamente per il suo ostruzionismo, un piccolo gruppo di colleghi ha insistito per portare avanti un negoziato interno: Manchin ha incontrato alcuni di loro, ha parlato con il capogruppo Schumer e con un ex segretario al Tesoro che lo ha rassicurato che le misure non avrebbero aggravato l’inflazione, una delle sue principali preoccupazioni.
Manchin è stato molto elogiato da alcuni colleghi per come è riuscito a conciliare le sue idee con le esigenze del partito, ma di fatto la sua decisione è stata dettata soprattutto da alcune importanti concessioni che gli sono state fatte.
Tra queste c’è una riduzione dell’aumento delle tasse rispetto alla proposta iniziale, investimenti nel settore dei combustibili fossili (in contrasto con la campagna portata avanti dal Partito Democratico sulle fonti di energia rinnovabile e contro il cambiamento climatico) e alcune riforme importanti per lo stato del West Virginia, quello di Manchin: per esempio è stata prevista una semplificazione del processo di autorizzazione per costruire le infrastrutture energetiche che faciliterebbe il progetto di un gasdotto su cui Manchin ha un interesse personale.
Mercoledì le riforme così riviste – che prevedono investimenti da 369 miliardi di dollari – sono state presentate agli altri senatori democratici, che si erano ormai rassegnati a portare avanti solo una versione molto ridotta della proposta.
Biden ha commentato l’accordo tra Manchin e Shumer dicendo che «il lavoro del governo può essere lento e frustrante e talvolta anche irritante, ma poi il duro lavoro di ore, giorni e mesi di chi si rifiuta di arrendersi ripaga. La storia è fatta».
I senatori democratici ora dovranno rileggere tutta la lunga bozza modificata, ma in tempi brevi perché l’obiettivo è di votare entro la prossima settimana, prima che le istituzioni chiudano per l’estate.
Di fatto però il voto di Manchin è solo il primo passo per l’approvazione dell’insieme di riforme, che dovrà essere sostenuto – anche con le concessioni introdotte – da tutti i senatori democratici: la senatrice Kyrsten Sinema per esempio ha già fatto capire di non aver ancora deciso se le concessioni fatte a Manchin le vadano bene. A questo si aggiunge che l’iter accelerato che richiederebbe solo 51 voti a favore anziché 60 potrebbe non andare del tutto liscio e che tra i senatori è in corso un piccolo focolaio da coronavirus. Dopo il Senato, l’insieme di riforme dovrà poi passare alla Camera.